Il Libro delle discendenze, in ebraico Sefer Yuhasin, di Ahima’az ben Partiel è noto agli studiosi dal 1895, anno della scoperta di un manoscritto conservato nella Biblioteca Capitolare presso la Cattedrale di Toledo in Spagna. Esso fa parte di una raccolta di codici donata alla Biblioteca dal cardinale Francesco Saverio Zelada (Roma 1712-1801), personalità di gran prestigio ecclesiastico e di vasti interessi culturali, infatti, raccoglie una notevole biblioteca (ora nella Vaticana), una ricca collezione numismatica, varie opere d’arte e s’interessa pure di Scienza. Da Prefetto agli Studi presso il Collegio Romano, vi erige un Osservatorio astronomico. Zelada, nato e cresciuto a Roma, è memore delle proprie origini iberiche e nel suo testamento dispone che una trentina di manoscritti ebraici sia donata alla Biblioteca di Toledo. Esecutore delle disposizioni testamentarie è il card. F. A. Lorenzana.

Se per gli studiosi è stato agevole capire come il codice sia approdato in Spagna, molto più complesso è stato comprendere come questi manoscritti siano giunti nelle mani dello Zelada. Si possono formulare solo congetture tenendo presente la carriera ecclesiastica dell’alto prelato. Tra i molti importanti incarichi, sappiamo che, tra il 1780 e il 1798, Zelada è anche visitatore della Casa dei Catecumeni, la speciale istituzione che prepara al battesimo gli ebrei convertiti al cristianesimo. Con ogni probabilità, i manoscritti possono essere stati il dono di uno o più neofiti con una certa levatura sociale oppure legalmente acquistati dallo stesso cardinale. È, in ogni caso, certa la provenienza dall’ambiente giudaico romano, ma è assai probabile che la raccolta scaturisca dalle requisizioni operate dallo Stato della Chiesa.

Il Sefer è contenuto in un codice miscellaneo ottenuto dalla composizione di più manoscritti indipendenti databili tra i secoli XIV e XV, consta di 83 fogli pergamenacei ed è autenticato con lo stemma di Zelada. Nei fogli di guardia all’inizio del volume vi è un indice firmato da Giovanni Antonio Costanzi, un’ebraista convertitosi nel 1731 ed autore di un gran numero d’annotazioni contenute a margine di molti manoscritti giudaici. Nel volume, insieme alla Cronaca di Ahima’az, figurano tra i vari manoscritti un’interessante tavola deffemeridi valida per 14 anni ad iniziare dal 5266 ebraico (cioè il 1506) con le date relative al novilunio nei mesi di Tishri (settembre-ottobre) nei quali cade il Capodanno ebraico e lo Yom Kippur, il giorno più sacro del calendario in cui si osserva un rigoroso digiuno che inizia prima del tramonto e termina con l’apparizione delle stelle la notte successiva. Le effemeridi si basano sui calcoli di Isaaq ben Menahem, un esegeta romano vissuto a cavallo tra il XIII e XIV secolo. Molto interessanti anche i due quadernetti relativi a questioni attinenti il Calendario ebraico. Già questi elementi conferiscono al codice un certo motivo d’interesse in ambito strettamente astronomico, però è il Sefer, vale a dire la Cronaca, l’elemento di maggior richiamo perché il manoscritto in ebraico non è solo un componimento letterario, variamente romanzato, delle vicende di una stirpe, ma è il racconto di una dinastia d’astronomi/astrologi particolarmente importanti tra i secoli VIII e XI. Lo stesso autore del Sefer è, oltre che un profondo conoscitore delle Scritture e della mistica ebraica, anche prosecutore di antiche e dotte conoscenze.

Ahima’az nasce a Capua nel 1017 in seno ad una delle comunità ebraiche sorte in Italia dopo la deportazione romana, ma le sue origini sono pugliesi, nell’importante comunità di Oria in Terra d’Otranto.

La Cronaca inizia con un proemio in cui l’autore esprime la volontà di narrare le vicende della sua famiglia, formulando lodi e preghiere per la buona riuscita dell’opera. La narrazione prende l’avvio con l’insediamento degli antenati, giunti in Oria con la deportazione in Italia di migliaia d’ebrei, conseguente all’espugnazione di Gerusalemme operata da Tito, figlio dell’imperatore Vespasiano, nel 70 d.C., ma, di fatto, la storia inizia con le vicende dell’avo Ammittai, poeta e sapiente vissuto tra la fine del VIII secolo e gli inizi del successivo, e quelle dei figli Shefatiah, Hananeel ed El’azar, tutti e tre “esperti di dottrine mistiche, compositori di rime, conoscitori di misteri, investigatori della Hochmah, indagatori della Binah, sussurratori dell’arcano”, studiosi della Torah e guide spirituali nella loro comunità. La storia dei tre fratelli s’intreccia con quella di tale Abu Aron di Bagdad, un esule che deve averla combinata veramente grossa nella sua terra per essere stato costretto ad un esilio così lontano. Questo personaggio è sicuramente Abu Aron ben Shamuel ha-Nasì, di cui si parla anche in altre fonti ebraiche medievali. Aron nelle fonti è descritto come un grande Maestro di mistica esoterica. L’autore del Sefer lo descrive come interprete di segreti divini, conoscitore del cielo, dotato di grande levatura dottrinale e alquanto radicale nella condotta morale, tanto da far condannare a morte diverse persone nella comunità oritana. Sicuramente la fama di Abu Aron nelle comunità ebraiche era notevole, l’attività nelle accademie documentata, ma non ci sono giunti testi che portino la sua firma. L’inserimento di episodi relativi a questo personaggio illustre nel racconto della genealogia dell’autore pone dunque qualche interrogativo. Gran risalto è posto nella figura di Shefatiah ben Ammittai che riesce a strappare all’imperatore Basilio I esclusivi privilegi per la sola comunità ebraica oritana, dopo aver guarito a Costantinopoli la figlia dell’imperatore da una malattia misteriosa che l’autore attribuisce ad una possessione diabolica. Le gesta di Shefatiah, pur possibili, non trovano riscontri oggettivi nelle vicende storiche e, con ogni probabilità, sono un’invenzione letteraria dell’autore della Cronaca.

Hananeel, secondogenito di Ammittai e avo diretto di Aima’az, è uno dei protagonisti nelle cui vicende sono maggiormente manifeste le conoscenze astronomiche dell’intera dinastia, infatti, nella Cronaca si racconta dell’insolita scommessa fatta da costui con il vescovo della Città, circa la comparsa in cielo del primo crescente lunare. La prima sottile falce lunare era di basilare importanza per il computo del calendario religioso ebraico perché il primo giorno del mese cadeva in quello del novilunio e nell’antichità la proclamazione dell’inizio del mese era fatta ufficialmente dal Sinedrio sulla base di testimonianze dirette ed affidabili. Già a metà del IV secolo, l’astronomo Rabbi Hillel II aveva definito un sistema basato sui calcoli astronomici, in grado di determinare l’inizio del mese liturgico senza dipendere dall’osservazione diretta della sottile falce lunare, però l’uso corretto di tali effemeridi era appannaggio di pochi specialisti e perciò erano frequenti gli errori.

Nella pregevole traduzione del noto ebraista Cesare Colafemmina [Sefer YuhasinLibro delle DiscendenzeVicende di una famiglia ebraica di Oria nei secoli IX – XI, Messaggi 2001], leggiamo nella Cronaca di quest’episodio nel quale Hananeel conversa con il vescovo della città intorno a questioni teologiche, però, ad un certo punto, la discussione s’incentra sul calcolo delle fasi lunari e siccome l’indomani sarebbe stato il primo giorno del mese, il vescovo chiede al sapiente interlocutore se sappia indicare, con la massima precisione, l’ora di comparsa del primo crescente. Hananeel, forse con troppa leggerezza, fornisce una risposta al quesito, però il vescovo (in base alle coordinate storiche dovrebbe trattarsi di Teodosio), preventivamente informatosi, contesta l’orario indicato dal rabbi e gli risponde: “Se questo è il tuo calcolo sulla Luna, non sei pratico in computi!…Oh mio sapiente Hananeel, se il novilunio avverrà secondo i miei calcoli, tu farai la mia volontà: ti convertirai alla mia legge e al libro del mio Vangelo, lasciando la tua fede e le ordinanze della tua Torah…Se invece avverrà secondo i tuoi calcoli, io adempirò la tua volontà: ti darò il mio miglior cavallo, quello riservato a me per il giorno del trono, del valore di 300 pezzi d’oro, oppure ti darò l’equivalente in denaro”. Entrambi accettano le condizioni e la scommessa è sancita alla presenza di notabili e magistrati. Il vescovo quindi ordina a vari uomini di appostarsi sulle torri più alte per avvistare la prima falce lunare e comunicarne tempestivamente l’orario esatto. Hananeel rientrato a casa, per scrupolo si applica al calcolo e, sgomento, si accorge di aver consultato effemeridi viziate da errori, quindi corre ad avvisare i parenti e gli altri della comunità per informarli della disavventura e a supplicarli affinché levino preghiere per far compiere dall’Altissimo un prodigio che lo salvi, perché preferirebbe piuttosto la morte anziché diventare un apostata. L’indomani sera Hananeel si porta sul tetto della sua dimora per implorare Dio e, all’orario calcolato per la comparsa del primo crescente, la Luna rimane miracolosamente nascosta fino il giorno successivo, inficiando la scommessa giacché anche gli osservatori posti dal vescovo non vedono nulla. Nel mattino seguente il vescovo, pur sapendo di aver avuto ragione, riconosce a Hananeel la vittoria nella disputa e gli consegna le 300 monete d’oro che il rabbino dispenserà totalmente in opere di beneficenza.

Il racconto offre, se trattasi di fatti autentici, un vivace spaccato storico in seno all’importante comunità ebraica medievale di Oria, dei rapporti tolleranti e cordiali con il clero cristiano, ma anche dell’esistenza di persone preposte all’osservazione del cielo, benché per finalità non propriamente scientifiche, ma piuttosto funzionali alla regolazione del calendario. Questo racconto è anche importante perché contraddice, in modo manifesto, un luogo comune che vuole gli ebrei come un popolo poco interessato all’osservazione del cielo e ai calcoli astronomici. Le comunità ebraiche erano ambienti culturalmente chiusi in sé stessi, con scarsa propensione alla divulgazione delle proprie conoscenze e tradizioni verso quanti non fossero correligionari. Libri e trattati perciò restavano all’interno delle comunità e poche copie raggiungevano le scuole in altre città. Niente di strano se gran parte di questi manoscritti sia andata perduta o volutamente distrutta nei secoli. Sappiamo che l’antica astronomia ebraica ha attinto tantissimo dall’astronomia babilonese. Lo stesso calendario lunare era quello adottato, sin dalla metà del V secolo a.C., a Babilonia e nel quale era stato introdotto il Ciclo di Metone che prevedeva l’introduzione di 7 anni intercalari in un periodo ciclico di 19 anni. L’adozione di un siffatto calendario dovette comportare qualche problema perché era strettamente dipendente dall’osservazione diretta dei fenomeni celesti, cosa non sempre possibile per ragioni atmosferiche. Lo stesso Tolomeo, nel II secolo d.C., notava come le antiche osservazioni mediorientali nel loro insieme, non erano degne di fede proprio perché effettuate spesso in prossimità dell’orizzonte, ove si addensano le foschie e le polveri dei deserti. Il problema doveva essere già noto agli astronomi ebrei, perciò si ricorreva sovente alle tavole di effemeridi, come quella molto più tarda contenuta nel codice di Toledo o quelle inesatte consultate dallo sfortunato Hananeel. Per ottenere le effemeridi gli astronomi calcolavano con esattezza la posizione che il Sole, la Luna e i pianeti avrebbero assunto a intervalli regolari di tempo e, con i dati ottenuti, si compilavano liste di date relative alle fasi lunari, alla posizione dei pianeti ed eclissi, non di rado con diversi anni d’anticipo. Calcoli certamente non facili, frutto di secoli di affinamento delle formule, codificate in veri e propri prontuari ad uso dei sapienti della comunità e gelosamente tramandati dalle varie generazioni.

L’episodio della scommessa di Hananeel, nelle intenzioni di Ahima’az, non è soltanto quella di mettere in risalto l’importanza sociale e culturale dell’avo, ma principalmente quella di infondere nei lettori i valori della rettitudine morale, con il fermo rifiuto dell’apostasia a favore del cristianesimo in un momento di diffuso proselitismo, e di mettere in guardia dall’eccessiva fiducia in se stessi, sicurezza che aveva tradito il protagonista. Il tema della virtù morale caratterizza l’episodio successivo che vede come protagonista Abu Aron di Bagdad, indicato da Ahima’az come grande Maestro, valente astronomo e profondo conoscitore di misteri, però circa queste pratiche non ci racconta alcun episodio e si sofferma principalmente sugli insegnamenti religiosi.

La narrazione prosegue con altri episodi relativi a Shefatiah e Hanannel. Di un certo interesse è il capitolo relativo alle nozze di Cassia, figlia di Shefatiah, la quale ci è descritta come molto bella e già piuttosto avanti negli anni. Per evitare il rischio di vederla sfiorire, il padre decide di darla in sposa al cugino, non senza il disappunto della moglie che voleva come genero un giovane di pari rango e ricchezza. Shefatiah prende la decisione di far sposare la figlia dopo le preghiere della notte, cioè poco prima dell’alba. Sono proprio le lodi innalzate nel corso dell’orazione il motivo d’interesse del passo, offrendoci un saggio della cosmologia ebraica medievale.

Nella sua preghiera Shefatiah menziona i sette cieli interposti tra la Terra e il Trono della Gloria (Dio), iniziando con la sfera celeste più alta, le ‘Aravot, ove si trovano la giustizia e il diritto, la rettitudine, i tesori di vita e di pace, gli scrigni di benedizione e le anime dei giusti, gli spiriti dei nascituri nonché la rugiada che farà resuscitare i morti nel Giorno del Giudizio. Sempre in questo cielo c’è il Trono divino circondato da una corte infinita di angeli. Sotto segue Machon, in cui si trovano i depositi della neve e della grandine, della brina, della pioggia e delle tempeste. Ancora sotto Ma’on la residenza degli angeli officianti che cantano di notte e tacciono di giorno. Il cielo mediano si chiama Zevul, ove è collocata la Gerusalemme e il Santuario celeste. Seguono poi gli Shehaqim, sede dei mulini celesti che macinano la manna per i giusti e il cielo più basso Raqia’ sede del Sole, della Luna, dei cinque pianeti e delle stelle fisse. I sette cieli sono sostenuti da possenti pilastri, costituiti da maestose montagne, posti ai confini della Terra che, nella cosmologia ebraica, era totalmente circondata dal mare. Al centro vi è la Gerusalemme terrena. L’Inferno è collocato nelle viscere della terra e vi si accede attraverso profonde gallerie. Dove poggi la Terra è lecito domandarselo, ed Ahima’az ci tramanda che sia la forza divina a sostenere tutto l’Universo. Tutti i nomi usati da Shefatiah per designare i cieli hanno effettivo riscontro nei testi biblici.

Un altro personaggio degno d’approfondimento è Paltiel, un lontano parente privo di un’ascendenza diretta con Ahima’az. L’autore della Cronaca ci tramanda che fosse un ragazzino particolarmente esperto nel vaticinio astrologico e questa specializzazione fu anche la sua salvezza all’indomani dell’espugnazione musulmana di Oria, occorsa il 4 luglio 925, quando la città fu saccheggiata, incendiata e tutta la popolazione uccisa o fatta schiava. Partiel era dunque un astrologo, ma non è il caso di prenderne le distanze perché in antico l’astronomia ha percorso un lungo tragitto con l’arte divinatoria, anzi era la regola che le due discipline fossero esercitate simultaneamente, spesso insieme alla pratica medica. L’astrologia era considerata una disciplina molto seria ed ogni potente, di norma, si circondava di almeno un astrologo. Presso gli ebrei, al contrario di quanto sovente riportato in letteratura, l’astrologia non solo era coltivata, ma si fondava su basi astronomiche ed era esercitata attraverso l’osservazione diretta del cielo notturno al fine di trarne previsioni. L’astrologo era considerato un “sapiente e filosofo”, quindi figura di prestigio e degna di grande rispetto. Abbiamo più di un motivo per ritenere Partiel un profondo conoscitore della volta stellata e del movimento degli astri. Di lui, Ahima’az ci tramanda la figura di un uomo del IX secolo intento a scrutare il cielo notturno per trarne previsioni: immagine ben lontana dagli astrologi contemporanei.

In un episodio, pochi giorni dopo la cattura e presso l’accampamento non lontano da Taranto, il giovane Paltiel e il qait (capo, governatore, generale), uscirono di notte ad osservare le stelle e mentre le osservavano notarono che “l’astro del qait” stava ingoiando tre stelle in sequenza. L’astro del qait è chiaramente la Luna che occulta tre stelle e nell’interpretazione del giovane Paltiel il fenomeno celeste pronostica la vittoria militare in Sicilia, Africa e Babilonia. Di tale previsione il qait (secondo Ahima’az nientemeno che Al-Mu’izz, però è anacronistico) si compiace e promette al ragazzo grande autorità se si dimostrerà vera. La previsione si realizza entro poco tempo.

Nell’astrologia ebraica grande rilevanza era riposta nelle meteore, alle quali essi attribuivano un presagio di morte per regnanti e grandi dignitari. Un esempio in tal senso è presente nell’episodio in cui Paltiel, ormai vecchio, durante una conversazione con il suo re sotto un cielo stellato, alla visione di tre brillanti meteore, infatti, predice la morte di altrettanti regnanti entro l’anno. Il re arabo, che negli anni aveva maturato una certa esperienza astrologica grazie agli insegnamenti del sapiente consigliere, lo smentisce con tristezza, annunciandogli l’imminente morte perché egli era per prestigio pari ad un re. Nell’episodio, l’autore del Sefer usa l’espressione: “Osservavano il cielo, quand’ecco tre lucenti stelle si accesero e in un attimo il loro splendore svanì”. E’ probabile che non ci fosse un termine specifico per indicare il fenomeno, però è certo che essi collocavano le meteore nello stesso cielo delle stelle: il Raqia’.

La sezione del Sefer dedicata a Paltiel l’astrologo e quella storicamente meno attendibile ed è, con tutta probabilità, un’invenzione letteraria dell’autore per esaltare un personaggio particolarmente versato nell’interpretazione dei segni nel cielo. Paltiel non è un avo diretto di Ahima’az, perché mai gli ha destinato tanta attenzione e spazio nel Libro delle discendenze?

Questo Paltiel, secondo Colafemmina, è da identificare con Musa ben El’azar, un celebre medico riportato in varie fonti arabe, in una delle quali è specificato che fu catturato da Abu Ahmad Gia’far ibn Ubayd (il qait degli episodi?) proprio in Oria. Musa poiché medico poteva benissimo essere anche astronomo. Gli esempi in tal senso sono numerosi. Ad esempio, nella stessa comunità ebraica di Oria, suo contemporaneo e fatto schiavo nella stessa occasione del saccheggio nel 925, troviamo un altro illustre esempio di gran medico, scienziato, astronomo e filosofo, qual era Shabbetai bar Abram, detto Donnolo presso i bizantini, autore del Sefer Hammazalot (Libro delle costellazioni).

Nei restanti episodi riportati nel Sefer non si ravvisano ulteriori richiami all’astronomia ebraica in pieno Medioevo, però il cultore dell’astronomia può cogliere sfumature che allo storico e all’ebraista possono sfuggire ed è quanto cerchiamo di carpire appresso.

Quali sono state le motivazioni che hanno indotto l’autore a scrivere la Cronaca? In primis l’attesa per l’avvento del Messia, che Il Sefer Zerubabel (un breve componimento apocalittico databile al VII secolo che il nostro autore sembra conoscere) vuole molto prossimo, poiché nella tradizione esoterica ebraica, tale evento sarebbe occorso 990 anni dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme (fatto risalire al 68 d.C. per un’errata datazione giudaica). Secondo questa previsione, perciò, l’anno dell’avvento doveva essere il 1058. Il Messia avrebbe chiamato a raccolta i dispersi nella Diaspora nonché, i nomi dei giusti tramandati nel Libro delle generazioni e ritornati nella Gerusalemme ricostruita. Altra finalità dell’autore era di tramandare, alle generazioni future, esempi di rettitudine morale e religiosa in modo da osteggiare il proselitismo cristiano.

Ahima’az iniziò la stesura del Libro delle discendenze agli inizi del 1054, precisamente nel mese di Adar (Febbraio-Marzo), probabilmente per scrivere con calma le gesta della sua ascendenza e terminare per tempo il lavoro entro il 1058, però sappiamo che la Cronaca fu terminata frettolosamente nella tarda primavera dello stesso anno nel mese di Sivan (maggio-giugno). Di questa fretta nel portare a termine il lavoro se ne meraviglia lo stesso Colafemmina, il quale, nelle note alla sua traduzione, lo rimarca e non ne trova una valida ragione. Di fatto, nella Cronaca si evince una discontinuità narrativa. Ad una prima parte caratterizzata da una dettagliata descrizione dei protagonisti (insieme con una ricchezza di particolari negli episodi) è contrapposta una seconda parte meno curata, in cui trova largo spazio la problematica figura di Partiel l’astrologo.

Il 1054 per uno storico è l’anno in cui si consuma lo scisma tra la Chiesa Romana e quella d’Oriente, un evento che segnerà in maniera rilevante vicende storiche posteriori, ma non può aver turbato più di tanto il rabbino di Capua che, anzi, deve aver avuto motivo per gioirne, in considerazione dell’astio che trasuda nei confronti del Cristianesimo per tutto il Sefer.

La Crab Nebula, ovvero il residuo della supernova del 1054. Credit: J.C. Cuillandre (CFHT), Giovanni Anselmi (Coelum)

Per uno storico dell’astronomia lo stesso 1054, invece, è l’anno della supernova nel Toro. Può l’autore aver visto l’apparizione di questo nuovo astro ed averlo interpretato come un eccezionale segno divino, tanto da averlo indotto ad accelerare il lavoro? La domanda è intrigante. Nel testo non troviamo espliciti riferimenti a quest’apparizione, tuttavia, leggendo nel proemio, Ahima’az nelle lodi profuse per propiziare la buona riuscita dell’opera ripete più volte ed esalta i prodigi che l’Altissimo realizza nel cielo per mostrare la sua potenza agli uomini. L’autore della Cronaca, giacché fervente credente e conoscitore dei passi biblici, può averne fatto cenno – come era consuetudine – parafrasando passi attinti dalle Sacre Scritture, in particolare dai Salmi, con espressioni del tipo: “ del Signore dei signori, del Signore che compie prodigi…”, “Nel nome di Colui che abita i cieli limpidi…”, “Giorno e notte mi delizierò nel glorificare Colui che compie gesta grandiose…” e poi “Narrerò le sue imprese possenti, rivelerò i suoi prodigi e la potenza della sua grandezza, lo splendore della sua magnificenza, la gagliardia della sua forza, la soavità delle sue lodi, l’immanità delle sue azioni terrifiche…”, “Egli stabilì i monti con la sua forza e mostra all’uomo il suo pensiero, con la sua sapienza creò la Terra e stabilì il mondo con la sua intelligenza. Chi può essere paragonato a Lui nei cieli?”.

Uno splendido disegno, tratto da un manoscritto del 1450, che raffigura l’imperatore del Sacro Romano Impero, Enrico III (1017-1056) mentre indica la SN del 1054 ad alcuni dignitari di corte.

Con tutte le cautele del caso, supponiamo che Ahima’az sia stato testimone dell’evento. Come e quando può aver notato la supernova?

Della supernova nel Toro, le più antiche segnalazioni sono relative al primo mattino del 4 Luglio 1054 (astronomi cinesi e giapponesi), in pratica nei giorni immediatamente successivi la congiunzione eliaca della costellazione, con la “stella ospite” visibile poco prima dell’alba, quando questa era pressoché al massimo di luminosità con una magnitudine –6 circa. Sebbene gli avvistamenti tramandati siano relativi ai primi di Luglio, la stella poteva già essere esplosa da diverse settimane e non avvistata perché in congiunzione col Sole. Può Ahima’az aver notato la supernova nel mese ebraico di Sivan del 1054, prima della congiunzione con il Sole? Ricostruendo l’aspetto del cielo con un planetario, notiamo che nel giorno 11 maggio al crepuscolo un sottile crescente lunare si proietta vicinissimo all’attuale M1, il resto nebulare della supernova di quell’anno. Come abbiamo già scritto, il crescente lunare aveva un’importanza non secondaria per il computo del calendario ebraico, perciò il nostro Ahima’az poteva benissimo essersi appostato per scrutare il cielo alla ricerca della prima Luna e decretare, essendo rabbino, l’inizio del nuovo mese lunare, oppure solo per rivivere l’esperienza dell’avvistamento del crescente avendo da poco raccontato nella Cronaca l’episodio dell’avo Hananeel e della scommessa con il vescovo. Così come i suoi sapienti avi, avendo una buona conoscenza del cielo, Ahima’az può aver notato prossima all’orizzonte ovest quella nuova fulgida stella, in un crepuscolo alquanto affollato di pianeti i quali, secondo un’interpretazione astrologica che ignoriamo, potevano avere un certo importante significato in un contesto messianico presunto imminente. L’enfasi riposta da Ahima’az nei confronti delle figure di Aron di Bagdad e di Paltiel, non un avo diretto, ma grande esperto nell’interpretazione in chiave astrologica degli eventi celesti, a mio avviso, può essere un tentativo dell’autore di accreditarsi verso i posteri come prosecutore di analoga sapienza per insegnamenti ricevuti e per dote di stirpe, essendo stato un testimone in prima persona di un grandioso prodigio. Tale desiderio l’autore non lo nasconde nemmeno, infatti, in chiusura del Sefer egli scrive: “Io Ahima’az, figlio di Rabbi Paltiel (omonimo dell’astrologo), figlio di Rabbi Shamuel, figlio di Rabbi Hananeel, figlio di Rabbi Ammittai, servo di Dio, nel mese di Adar di tanti anni da quando furono distesi i cieli (formula che ricorre alla gematria, ovvero indicare un numero dalla somma delle lettere componenti una parola. In questo caso 4814 dalla Creazione, pari al 1054 del nostro calendario), pregai Colui che misura col suo pugno le acque di farmi la grazia di rendermi sapiente nella profondità dei misteri (cioè la capacità di interpretare gli astri, considerata dagli ebrei una grazia divina) che sono la delizia dei due giorni, per corroborarmi nella sua Torah perfetta, preesistente di duemila anni (l’universo), per guidarmi nella via retta ed essere a me di aiuto, perché ascoltasse la mia preghiera di assistermi nella ricerca della genealogia dei miei padri. Io levai a Lui i miei occhi, confidai nel suo Nome santo, invocai la sua misericordia e cercai la sua pietà. Ed egli mi concesse quanto avevo con ardore chiesto. (…) Ho terminato nel mese di Sivan, con la costellazione dei Gemelli, segno sotto il quale fu data la Torah, nell’anno del ‘termine maturato’, raddoppiando ‘nel mio desiderio’, l’ho completato nella sua interezza dall’inizio alla fine”. Ahima’az, esplicitamente quindi, scrive di aver ricevuto un segno ardentemente agognato ed interpretato come segnale di un “termine maturato” e di aver raddoppiato l’impegno per terminare l’opera. Gli astri, nella cosmologia ebraica, erano prodigiose emanazioni divine e media di comunicazione con gli uomini, perciò nulla di strano se l’Autore non indichi che cosa abbia visto levando al cielo le proprie suppliche, dando per scontato ai lettori che si riferisca alle stelle. Assai rilevante, inoltre, che Ahima’az specifichi di aver terminato quando in cielo è presente la costellazione dei Gemelli – ulteriore conferma della buona conoscenza della volta celeste – che la tradizione ebraica vuole legata alla Torah e nei confini della quale rientrava, all’epoca, la zona d’apparizione della supernova.

Le argomentazioni fin qui formulate, sebbene ragionevoli, possono apparire deboli per suffragare la tesi che Ahima’az sia stato un testimone oculare dell’apparizione della SN 1054. Provare quest’eventualità è tutt’altro che banale nell’ambiente della storiografia astronomica perché ne farebbe la prima testimonianza occidentale, benché non esplicita, di un fenomeno certamente appariscente, ma clamorosamente trascurato in un contesto culturale fortemente influenzato dalla concezione aristotelica dell’immutabilità dei cieli che confinavano comete, meteore e stelle nuove a fenomeni meramente atmosferici. Ci sono, sulla base dei dati disponibili, possibili conferme per un’apparizione in maggio/giugno della supernova? Forse sì.

Un indizio lo propongono F. Richard Stephenson e David A. Green i quali citano un riferimento alla supernova del 1054 contenuto nel Meigetsuki (Diario della Luna Piena) del poeta di corte Fujiwara Spadaie che così scrive:

“Secondo anno del periodo del regno Teki dell’imperatore Go-Reizei, quarto mese lunare, dopo il periodo mediano di dieci giorni. Alla doppia ora chou una stella-ospite è apparsa nei gradi di Zuixi e Shen. Fu vista a est ed emerse dalla stella Tianguan. Era grande come Giove”.

Gli autori ci informano che il quarto mese lunare va dal 10 maggio all’8 giugno e che la stella fu avvistata in un giorno imprecisato dell’ultima decade, di certo all’alba perché fu vista ad est. Forse con il “periodo mediano” il Fujiwara vuole intendere i giorni in congiunzione eliaca della costellazione occorsi proprio in quel periodo. Singolare, tuttavia, che questa segnalazione coincida proprio con il mese di Sivan dell’autore del Sefer.

Particolarmente interessante mi pare anche un passo in latino tratto dalla Cronaca di Rampona, una delle tante composte in età medievale, riportato in Medieval Chronicles and the Rotation of the Earth (R. R. Newton, John Hopkins University Press, Baltimore 1972, pag. 690): “Tempore huius stella clarissima in circuitu prime lune ingressa est, XIII Kalendas in nocte inizio”. La forma latina risente di influenze volgari, ma possiamo tradurre (con qualche libertà): “Al tempo in cui la stella fulgidissima entrò (in congiunzione) con il crescente lunare, all’inizio della notte del 13° giorno alle Calende”. In questo passo non è specificato il mese, però, supponendo si tratti della supernova, la congiunzione con il crescente lunare poteva avvenire soltanto nel mese maggio e la concordanza con la presunta data d’avvistamento di Ahima’az è veramente notevole. Questo passo è riferito al 1058, però non è da escludere un errore durante una delle trascrizioni.

Tre indizi, dunque, portano ad uno stesso periodo, vale a dire maggio-giugno del 1054.

Servono, ovviamente, ulteriori indizi per suffragare l’ipotesi della comparsa della supernova in una data anteriore al 4 luglio, però, se così fosse, il nome dell’ignaro Ahima’az sarà consegnato al Sefer degli astronomi come il primo avvistatore occidentale.


Giuseppe Donatiello è nato nel 1967 e vive ad Oria (Brindisi). Speaker professionista, lavora nell’emittenza radiotelevisiva privata sin dal 1979. Astrofilo da sempre, s’interessa a tutti gli aspetti dell’astronomia amatoriale con una predilezione per il deep sky.