L’idea gli è venuta guardando la tv. È talmente poco ortodossa che l’inventore è il primo a mostrarsi perplesso. Ma i dati, pur con le dovute incertezze, sembrano dargli ragione. E la richiesta di brevetto è stata prontamente depositata. Per che cosa? Semplice: un dispositivo in grado di prevedere, con significativo anticipo, l’arrivo di una tempesta solare.
Tutto ha inizio nel salotto di una casa nella zona ovest di Lafayette, Indiana, a un’ora di strada da Indianapolis. Siamo nel 2006, e Jere Jenkins, ingegnere nucleare nonché direttore del laboratorio sulle radiazioni della School of Nuclear Engineering della locale Purdue University, è lì davanti al televisore a seguire gli astronauti che armeggiano all’esterno alla Stazione spaziale. Ad aumentare l’inquietudine per un’attività spaziale già di per sé rischiosa, com’è quella extraveicolare, arriva la notizia d’un brillamento solare: una violenta eruzione di materia che dalla nostra stella si propaga nello spazio circostante, mettendo potenzialmente a rischio i satelliti artificiali, le centrali elettriche e chiunque non si trovi al riparo dell’ombrello magnetico protettivo che avvolge il nostro pianeta. Come, appunto, gli astronauti che stanno volteggiando lassù in assenza di gravità.
Jenkins ha un’illuminazione: non è che il brillamento abbia lasciato qualche traccia anche nei miei strumenti di lavoro, si chiede? Corre in laboratorio a controllare, e l’intuizione si rivela esatta. Un detector che misura la velocità di decadimento di materiali radioattivi ha in effetti registrato una leggera accelerazione. Non solo: la variazione sembra essere precedente al brillamento. E anche di parecchie ore: 39, per l’esattezza. Se confermata, la scoperta potrebbe avere importanti ricadute pratiche, visto che un anticipo così significativo permetterebbe ai gestori dei satelliti, delle linee di comunicazione e delle reti elettriche di mettere in atto tutta una serie di misure preventive per limitare al massimo gli eventuali danni d’una tempesta solare.
L’ipotesi dei ricercatori è che, ad accelerare il tasso di decadimento del manganese-54 (il radioisotopo utilizzato, insieme al cloro-36, nell’esperimento della Purdue University) in cromo-54, siano i neutrini. Ma c’è un problema. Anzi due. Primo, i neutrini, dotati di energia e massa pressoché trascurabili, in teoria dovrebbero interagire poco o nulla con la materia che incontrano. Secondo, la costante di decadimento di un determinato isotopo è, per l’appunto, una costante: i processi esterni non dovrebbero essere in grado di alterarla. «In altre parole, stiamo dicendo che qualcosa che non interagisce con nulla sta alterando qualcosa che non può essere alterato», ammette Jenkins. «A modificare il tasso di decadimento potrebbero essere i neutrini, o forse una particella sconosciuta».
Per nulla scoraggiati dalle imbarazzanti premesse, Jenkins e colleghi, dal 2006 a oggi, in occasione di 10 brillamenti solari, hanno analizzato i dati registrati dal loro detector. E l’anomalia ha continuato a ripetersi. Inoltre, hanno osservato una variazione sincrona con l’avvicinamento e l’allontanamento annuale della Terra rispetto al Sole, anch’essa coerente con l’ipotesi dell’influenza dei neutrini sul tasso di decadimento. «Quando la Terra si trova più lontana», osserva infatti Jenkins, «abbiamo meno neutrini solari, e il tasso di decadimento è un po’ più lento. Quando invece siamo più vicini, ci sono più neutrini, e il decadimento diventa un po’ più veloce». Insomma, se confermato da ulteriori dati, il metodo basato sulla variazione del decadimento radioattivo potrebbe rappresentare un contributo decisivo nel campo delle previsioni meteorologiche spaziali.
Il commento dell’esperto
«Obiettivo primario della Meteorologia dello Spazio», spiega Mauro Messerotti, esperto di fisica solare e relazioni Sole-Terra dell’INAF-Osservatorio Astronomico di Trieste, «è la previsione dei fenomeni fisici che hanno impatto sui sistemi biologici e tecnologici sia sulla Terra che sui pianeti del nostro Sistema Solare, molti dei quali oggi e in futuro interessati da esplorazioni con sonde automatiche soggette ad effetti in grado di causarne malfunzionamenti. Le tempeste spaziali sono infatti perturbazioni dell’ambiente interplanetario e, su larga scala, eliosferico, che hanno origine sul Sole a seguito di intensi brillamenti solari e dell’eruzione di protuberanze e che accelerano nello spazio le Eiezioni di Massa dalla Corona (CME, Coronal Mass Ejection), fenomeno principe alla base di intense tempeste spaziali».
«Le osservazioni, le conoscenze fisiche e la modellistica attuali limitano», sottolinea Messerotti, «le possibilità di previsione a lungo termine circa l’accadimento di questi fenomeni: l’emissione elettromagnetica (Raggi X, EUV, UV e radio) associata ad un brillamento viene osservata quando giunge sulla Terra dopo circa otto minuti dall’emissione sul Sole, le particelle più energetiche sono rilevate dopo qualche decina di minuti, mentre le CME arrivano sulla Terra in decine di ore. Le tecniche di mitigazione degli impatti sono tanto più efficaci quanto maggiore è la tempestività della loro attuazione, insufficiente nel caso dei lampi di radiazione elettromagnetica e delle particelle più energetiche, appena sufficiente per le CME».
«Poter quindi disporre di un sistema di previsione dei brillamenti basato sull’osservazione di un fenomeno precursore, che fosse in grado di fornire un’indicazione del possibile accadimento con buona affidabilità e con buon anticipo temporale, costituirebbe un enorme progresso per la Meteorologia dello Spazio e, in particolare, per la preparazione connessa con la minimizzazione degli effetti negativi. D’altra parte è tutt’altro che semplice validare una tecnica di questo tipo», avverte Messerotti, «che deve essere caratterizzata in base al minimo numero di “falsi positivi” tenendo conto della grande varietà di brillamenti e, soprattutto, della loro potenziale “geoefficacia” (capacità di generare effetti sulla Terra), fattore ancora tutt’altro che chiarito e che solo osservazioni dettagliate a lunghissimo termine del Sole potranno focalizzare meglio».
«Il metodo basato sull’analisi del tasso di decadimento di radioisotopi specifici sembra senz’altro essere promettente, ma, come gli autori stessi sottolineano», conclude Messerotti, «richiede una lunga e complessa serie di osservazioni in prossimità del massimo solare, più ricco di brillamenti energetici, per trovare una conferma quale metodo di previsione dei brillamenti candidato a divenire uno strumento operativo».
Per saperne di più:
- Leggi sull’edizione online di Astroparticle Physics l’articolo “Additional experimental evidence for a solar influence on nuclear decay rates“, di Jere H. Jenkins, Kevin R. Herminghuysen, Thomas E. Blue, Ephraim Fischbach, Daniel Javorsek II, Andrew C. Kauffman, Daniel W. Mundy, Peter A. Sturrock e Joseph W. Talnagi
- Leggi su Media INAF l’articolo “Tempeste solari e aurore boreali“
- Leggi su Media INAF l’articolo “Allarme tempeste solari“