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Le Costellazioni di Marzo 2022

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E INTANTO RITORNA LA MARATONA MESSIER

Nel ciclico avvicendarsi delle stagioni è interessante poter essere continui testimoni dell’alternarsi degli astri sulla volta celeste.

Marzo è il mese che segna il passaggio dall’inverno alla primavera astronomica, stagione il cui ingresso è sancito dall’Equinozio che quest’anno cadrà il giorno 20/03.

È un momento di transizione in cui a popolare la volta celeste troviamo sia costellazioni invernali che parte di quelle primaverili.

Il cielo di marzo 2022.

Quelle di marzo saranno serate in cui assisteremo al lento declino di Orione verso l’orizzonte Ovest, accompagnato dagli oggetti non stellari che custodisce. Come il mitologico cacciatore, anche la costellazione del Toro e del Cane Maggiore con la brillante Sirio saranno visibili nella prima metà della notte; un po’ più alte sulla volta celeste troveremo l’Auriga con la luminosa Capella e Castore e Polluce dei Gemelli.
Dall’ampia porzione di cielo compresa tra Sud ed Est faranno il loro ingresso le costellazioni che preannunciano la primavera, ovvero: Idra, Cancro, Leone con Regolo e Denebola, Vergine con Spica e il Boote con la brillante stella di colore rosso/arancio Arturo.

Le brillanti Denebola, Spica e Arturo ci regaleranno quello che è l’asterismo del Triangolo Primaverile.

LA MARATONA MESSIER

Organizzandoci per affrontare una serata all’insegna dell’osservazione astronomica, potremmo tentare quella che da moltissimi anni durante il mese di marzo è una vera sfida tra appassionati e astrofili.

È il momento di dare la caccia agli oggetti, ben 110, del Catalogo Messier … tutti in una notte!

L’iniziativa, promossa dall’UAI, è dedicata a tutti coloro che vogliono tentare di osservare (annotandone i dettagli) tutti gli oggetti del catalogo nell’arco di una sola notte.

Le date consigliate per la Maratona Messier tradizionalmente vengono scelte nei week-end di marzo e aprile prossimi al novilunio. Quest’anno le date proposte cadono il giorno 5 marzo e 2 aprile.

L’ORSA MAGGIORE: FONDAMENTALE RIFERIMENTO PER L’ORIENTAMENTO STELLARE

Immagine della Costellazione dell’Orsa Maggiore.

Fra tutte le costellazioni, quella dell’Orsa Maggiore è di certo tra le più note.

Ursa Major deve la sua fama all’asterismo del Grande Carro che, con le sue sette stelle principali visibili ad occhio nudo, compone solo una piccola parte della molto più estesa costellazione.

Dubhe, Merak, Phecda, Megrez, Alioth, Mizar e Alkaid sono i nomi delle stelle principali che compongono l’asterismo.

Dubhe (α Ursae Majoris), è un sistema quadruplo che dista 124 anni luce dalla Terra: attorno alla componente principale ruotano Dubhe B e Dubhe C che a sua volta è una stella binaria.

Degna di nota anche Mizar: i più acuti osservatori avranno di certo notato accanto ad essa un’altra stella che, seppur meno brillante, fa coppia con la compagna di cielo e porta il nome di Alcor: i due oggetti sono separati da una distanza compresa tra 0,28 e 2 anni luce circa e insieme formano la stella binaria visuale più famosa del cielo, visibile ad occhio nudo.

Un asterismo davvero importante quello del Grande Carro per l’orientamento stellare: tracciando infatti una linea immaginaria tra Dubhe e Merak e prolungandola di circa 5 volte, si giungerà alla Stella Polare.

Per quanto riguarda gli oggetti non stellari presenti nella costellazione, nei pressi della stella Merak si trova la Nebulosa Civetta (M97) e vi sono diverse galassie entro i confini dell’Orsa Maggiore: si tratta della coppia formata da M81 e M82, la galassia M101 e la galassia spirale barrata M109.

MITOLOGIA E ASTRONOMIA: LA FIGURA DELL’ORSA MAGGIORE LEGATA QUELLA DEL BOOTE

Immagine della Costellazione dell’Orsa Maggiore e il Boote.

La figura dell’Orsa Maggiore è strettamente legata a quella di Arturo: i riferimenti nella mitologia sono diversi.

Secondo la mitologia greca Callisto era una ninfa, una bellissima fanciulla figlia del Re di Arcadia Licaone e ancella di Artemide. Divenuta l’ennesimo oggetto del desiderio di Zeus, fu tramutata in orso dallo stesso padre degli Dei.

Le versioni della storia sono diverse, le due più famose ci raccontano: la prima, che fu proprio Zeus a trasformare la giovane fanciulla in un’orsa per sottrarla alle ire di Era; mentre, la seconda versione, sostiene che fu Artemide a trasformare Callisto dopo aver scoperto lo stato di gravidanza della giovane ancella, votata alla castità.

La metamorfosi di Callisto avvenne dopo aver dato alla luce Arcade. Questi, allevato da Artemide e le sue ancelle, venuto a conoscenza della presenza di un orso nel bosco dove abitavano le ninfe, si mise sulle sue tracce per ucciderlo. Dopo aver scovato Callisto, si preparò a colpire l’animale con una lancia, ignaro chi fosse in realtà. Zeus, impietosito, fermò il tempo, trasformò sia l’orsa che Arcade in stelle e li collocò per sempre sulla volta celeste.

In cielo madre e figlio sono “vicini”, poiché, prolungando la coda dell’Orsa, si arriva ad Arcade, ovvero il più conosciuto Arturo. Il nome dell’astro significa “inseguitore dell’Orsa” ed è situato nella costellazione del Bovaro (Boote), riconoscibile per il suo brillante colore rosso/arancio e visibile durante i mesi primaverili ed estivi.

LA COSTELLAZIONE DEL BOOTE

Nella costellazione del Boote troviamo le stelle doppie ν1-ν2 Bootis e μ1-μ2 Bootis: la prima coppia è formata da una stella gigante arancione e una bianca; la seconda coppia è composta da due stelle bianco-giallastre. Entrambe le coppie possono essere facilmente risolvibili anche con il solo utilizzo di un binocolo.

Nella costellazioni sono presenti anche stelle variabili come W Boötis, molto luminosa, la cui variazione può essere osservata anche ad occhio nudo.

Ma l’astro che sicuramente identifica il Boote è proprio Arturo (α Boo): la stella più luminosa della costellazione e la quarta più brillante del cielo notturno dopo Sirio, Canopo e α Centauri. Arturo è una gigante rossa con un diametro di 35 milioni di km (circa 25 volte più grande della nostra stella) e la sua luminosità è 113 volte quella del Sole.

Arturo ha anche una consistente emissione nell’infrarosso e se teniamo conto di tutte le bande dello spettro elettromagnetico, la sua luminosità totale arriva a circa 200 volte quella del Sole.

La stella è posta a una distanza di 36,7 anni luce da noi e, pur essendo una stella dell’emisfero boreale, la sua posizione 19° a nord dell’equatore celeste fa sì che Arturo sia visibile da ogni popolazione della Terra.

Si fa presto a dire firmamento – seconda parte

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La seconda parte dell’articolo tratto dalla rivista “Meridiana” a cura di Luca Berti – Società Astronomica Ticinese

Ti sei perso la prima parte? Poi leggerla direttamente qui

Altro che stelle fisse e cielo invariabile: gli astri si spostano, eccome. E mentre le costellazioni si deformano, Proxima Centauri perde il suo primato di stella più vicina.

I miti cambiano forma

Dunque il firmamento non è immutato e immutabile. Tanto che possiamo dire senza tema di smentita che l’essere umano è nato sotto un altro cielo. Letteralmente.

Perché 200 mila anni fa, quando l’essere umano moderno stava muovendo i suoi primi passi sul pianeta, il firmamento era molto differente. Un homo sapiens che avesse guardato verso l’alto avrebbe disegnato tutt’altre costellazioni rispetto alle nostre che, tracciate nel cielo di allora, sarebbero irriconoscibili, distorte, a causa del differente moto apparente delle varie stelle che le compongono.

Potessimo prendere una macchina del tempo e proiettarci avanti nel tempo di 25 mila anni, quando la Stella Polare tornerà a essere quella che tutti conosciamo oggi, alzando gli occhi scopriremmo che alcune delle costellazioni che conosciamo sono cambiate poco, mentre altre sono parecchio deformate. Tra queste anche la stessa Orsa minore, che avrà un carretto decisamente più “ammaccato”. Il moto proprio di Decapoda (Iota Persei), molto alto rispetto alle altre stelle della costellazione, deformerà Perseo, mentre a cambiare poco in 25 mila anni sarà, per esempio, Orione.

L’esercizio ripetuto al successivo giro di giostra, 25 mila anni dopo, porta invece a un cielo quasi completamente irriconoscibile: estraneo per chiunque lo conosca oggi. Solo alcune costellazioni e asterismi di oggi rimarrebbero più o meno individuabili, benché deformati. Tra questi la parte centrale del Gran Carro e la cintura di Orione.

Rappresentazione grafica delle variazioni delle costellazioni. Credit: Società Astronomica Ticinese.

Dove vai, Luna?

Visto che stiamo parlando di come è cambiato e come cambia il cielo, allora esageriamo un po’ e consideriamo anche che la Luna si sta allontanando dalla Terra a un ritmo di 3,82 centimetri all’anno. Ciò significa che tra circa 600 milioni di anni la sua dimensione apparente in cielo non sarà più sufficiente a coprire completamente il disco solare durante un’eclissi. Ciò significa che non esisteranno più le eclissi totali di Sole. Potendo andare avanti nel tempo, il cambiamento più evidente sarebbe però nella durata di un giorno. Con l’allontanarsi della Luna, il nostro pianeta inizierà infatti a ruotare sempre più lentamente. Le giornate cominceranno a durare sempre di più, passando a 25 ore. In linea teorica la Terra è destinata a entrare in rotazione sincrona con la Luna, rivolgendole sempre la stessa faccia. I giorni potrebbero allora durare anche 1000 ore. Ci vorrebbero però 50 miliardi di anni perché questo fenomeno si consolidi. Purtroppo entro allora il Sole sarà già morto e, nel suo ultimo respiro, avrà spazzato via sia la Terra sia la Luna.

Riavvolgendo invece il nastro del tempo, si scopre che 1,4 miliardi di anni fa la Luna era più vicina dell’11% (a 341 mila chilometri) e i giorni sulla Terra duravano poco meno di 19 ore. Guardando la Luna, benché fosse più vicina, non si sarebbe visto qualcosa di troppo diverso da quanto si vede oggi. Per constatare dei cambiamenti significativi nel diametro apparente dovremmo portare la nostra macchina del tempo a 4 miliardi di anni fa, quando si stavano ancora mettendo le basi per la nascita della vita. La Luna allora appariva 3 volte più grande in cielo; mentre 4,5 miliardi di anni fa, agli albori del Sistema solare, poco dopo l’impatto tra Terra e un corpo celeste delle dimensioni di Marte che formò la Luna, la dimensione del nostro satellite era 24 volte maggiore a quella di oggi. Doveva essere uno spettacolo mozzafiato, a patto di non badare al fatto che sia la Terra sia la Luna erano per lo più ancora una distesa di lava incandescente.

Il grande scontro

Ci siamo spinti fino a oltre la morte del nostro Sole, tra 4,5 miliardi di anni. Eppure uno dei più grandi cambiamenti che avverranno in cielo avverrà prima di allora. È lo scontro-incontro tra Via Lattea e la Galassia di Andromeda, in agenda tra circa 3,8 miliardi di anni fa. Già tra 2 miliardi di anni, Andromeda sarà decisamente più visibile e nettamente più grande nel cielo notturno terrestre. Tra 3,75 miliardi di anni la galassia a spirale riempirà completamente il cielo stellato. Da lì in poi inizierà il “balletto d’amore” delle due galassie. A 3,85 miliardi di anni il cielo si illuminerà di stelle neonate, mentre l’interazione tra le due galassie inizierà a deformarle, tanto che nel giro di 150 milioni di anni saranno ormai irriconoscibili. Da lì in poi ci vorranno ancora 3 miliardi di anni per la fusione completa. I cieli notturni della galassia saranno allora dominati dalla luminosità del nucleo della nuova galassia ellittica.

Ma tanto per allora la Terra non ci sarà più. Anche questo sarà un cambiamento.

Le Comete di Marzo 2022

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PERIODO DI ATTESA

In marzo niente di particolarmente eclatante da segnalare. Per vivere nuove intense emozioni occorrerà attendere qualche mese, salutando nel frattempo un paio di vecchie conoscenze in allontanamento e seguendo la crescita di uno degli oggetti più interessanti dell’anno.

C/2017 K2 PanSTARRS

Di lei abbiamo già parlato ampiamente, anche se diventerà protagonista vera solo fra qualche mese brillando secondo le stime di un’ottima luminosità (sesta/settima mag.). L’oggetto è in avvicinamento ed aumenta ovviamente la sua luminosità (anche più lentamente del previsto). A marzo, secondo le stime, dovrebbe raggiungere un valore attorno alla nona magnitudine, cominciando a dare qualche soddisfazione agli appassionati, in attesa di una più corposa prossima crescita. Dall’Ofiuco si trasferirà nell’Aquila, non variando molto la sua posizione tra le stelle. Per osservarla ci toccherà fare un piccolo sforzo (leggi levataccia) dato che è rintracciabile abbastanza alta in cielo al termine della notte astronomica.

La posizione della PanSTARRS è calcolata per le 3.30 ora solare. Le stelle più deboli sono di mag. 10,5.

19P/Borrelly

Borrelly ai saluti dopo essere stata buona protagonista nei mesi invernali, scendendo al di sotto della nona magnitudine. A marzo sarà un inesorabile calo dovuto al suo allontanamento, ma risulterà però ancora una delle poche comete alla portata di una strumentazione modesta, aggirandosi la sua luminosità attorno alla decima magnitudine. Dall’Ariete si trasferirà nel Perseo, osservabile ad un’ottima altezza non appena il cielo si fa abbastanza buio. Tra il 25 e il 28 marzo gli astrofotografi avranno la possibilità di riprenderla a meno di due gradi della Nebulosa California.

La posizione della Borrelly è calcolata per le 21.30 ora solare. Le stelle più deboli sono di mag. 9.

C/2019 T4 ATLAS

È un oggetto più debole durante questo mese, dato che la sua luminosità si aggirerà attorno all’ undicesima magnitudine. Una delle tante scoperte del sistema automatizzato di ricerca ATLAS (Asteroid Terrestrial-Impact Last Alert System), dedicato alla caccia degli asteroidi pericolosi per la Terra, ma che si imbatte spesso anche in comete. Lo testimonia il fatto che moltissimi “Astri chiomati” portano il suo nome. La scoperta risale al 2019 ed il perielio è previsto per giugno di quest’anno. La luminosità raggiunta tra fine marzo inizio aprile sembra però quella di picco e questo si spiega considerando che il perielio di giugno prevede un transito piuttosto distante dal Sole (quasi 4 U.A.). Risulta quindi più luminosa nel momento del suo passaggio in prossimità della Terra, purtroppo però anche questo sfavorevole dato che sfilerà a oltre 3 U.A. di distanza. Risulterà osservabile alla massima altezza in cielo (comunque modesta) in piena notte ed il suo movimento la porterà a spostarsi dall’Idra verso il Cratere.

La posizione della ATLAS è calcolata per le 1.30 ora solare. Le stelle più deboli sono di mag. 11.

Mondi in miniatura – Asteroidi, Marzo 2022

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Correva l’anno 1776: un professore di astronomia, Johan Daniel Titus, si accorse di una strana relazione che sembrava accomunare le distanze tra i pianeti allora conosciuti e la annotò.

Qualche anno più tardi Johan Elert Bode – che divenne di lì a poco direttore dell’Osservatorio di Berlino – trovò quella nota all’interno di un libro che stava traducendo e la formalizzò nei propri scritti.

Quella relazione (oggi nota come la legge di Titus Bode) descriveva empiricamente le distanze tra i pianeti attraverso una semplice formula matematica. Assumendo che la distanza che separa Saturno dal Sole sia pari a 100 unità (per semplificare il concetto, in questo articolo ogni unità di distanza la chiameremo “klick”): Mercurio dista 4 klick dal Sole, Venere 7 klick (4+3), la Terra 10 klick (4+6), Marte 16 klick (4+12), Giove 52 klick (4+48).

Salta immediatamente all’occhio che c’è una lacuna in questa progressione: manca un pianeta nel punto situato a 28 klick!

Incoraggiati dalla scoperta di Urano da parte del grande William Herschell, (il pianeta orbitava a una distanza molto vicina a quella predetta dalla legge di Titus Bode), astronomi professionisti e amatoriali si lanciarono in una caccia al pianeta mancante.

Il primo di gennaio del 1801 Giuseppe Piazzi, direttore dell’Osservatorio di Palermo, si accorse di una “stella” nella costellazione del Toro che stava lentamente cambiando posizione. Inizialmente, Piazzi pensò di aver trovato una nuova cometa.

Poco dopo comunicata la scoperta, l’astronomo Italiano confessò i propri dubbi sulla sua effettiva natura, scrivendo una lettera all’amico Barnaba Briani. Piazzi ipotizzò che potesse invece trattarsi di

Giuseppe Piazzi (credits www.aif.it)
“qualcosa di molto più importante di una cometa”

Su volere dell’astronomo, l’oggetto fu battezzato Cerere Ferdinandea, in onore dalla dea romana Cerere e del re Ferdinando IV di Sicilia e, per quasi 50 anni, fu considerato il pianeta mancante.

Questa convinzione vacillò alla scoperta da parte di Wilhelm Olbers di un secondo presunto pianetaPallas.

Nessun altro pianeta allora conosciuto aveva un compagno che orbitasse alla medesima distanza dal Sole. Inoltre, né Cerere né Pallas sembravano presentare un disco che potesse essere in qualche modo risolto al telescopio, come invece accadeva per tutti gli altri pianeti. Entrambi dovevano inoltre essere molto piccoli, dato che la loro luminosità pareva variare nell’arco di poche ore.

Si affacciò l’idea, oggi confutata, che questi potessero essere i resti di un più grande oggetto di dimensioni planetarie, andato distrutto a seguito di una collisione con un altro corpo celeste o di un qualche altro evento catastrofico. Pur non corretta, questa ipotesi diede una poderosa spinta all’osservazione, che si concentrò nell’area in cui le orbite di Pallas e Cerere si intersecano.

In quella regione Karl L. Harding scoprì un terzo oggetto, battezzato Juno, in onore della consorte di Giove. Nel marzo 1807 seguì la scoperta di Vesta da parte di Olbers. Dovettero trascorrere 40 anni prima che si trovassero nuovi oggetti, trascorsi i quali le scoperte si susseguirono a ritmo serrato: 84 anni dopo gli asteroidi conosciuti erano circa 400.

Fu William Hershell nel 1802 a coniare il termine “asteroide, che in greco significa “simile a una stella“.

Oggi sappiamo che l’assoluta maggioranza degli oltre 1 milione di asteroidi conosciuti, inclusi (1)Cerere (2)Pallas e (3)Juno, orbitano in un ambiente complesso e dinamico, la Fascia Principale: la regione collocata tra Marte e Giove a una distanza tra le 2 e le 5 Unità Astronomiche dal Sole.

Un’altra importante riserva di asteroidi si trova nei punti Lagrangiani L4 e L5, di fronte e dietro a Giove. Si tratta degli asteroidi Troiani. Ad oggi ne sono conosciuti all’incirca 7000 (ma si ipotizza ne esistano un numero paragonabile a quello della Fascia), suddivisi in due sottogruppi: i Troiani e i Greci. Gli Hilda, un gruppo di oltre 5000 asteroidi, orbitano in risonanza 3:2 con Giove, tra il gigante gassoso e la Fascia Principale.

Cosa osservare a Marzo 2022

L’orbita di (16)Psyche e la sua posizione al 3/3/2022. (https://www.spacereference.org/solar-system#ob=16-psyche-a852-fa)

(16)Psyche

(16)Psyche è un asteroide di Fascia Principale che compie un’orbita intorno al Sole ogni 1.830 giorni (5,01 anni) ad una distanza compresa tra le 2,53 e le 3,32 unità astronomiche (rispettivamente 378.482.611 Km al perielio e 496.664.928 Km all’afelio).

Deve il suo nome alla mitologica figura di Psyche. Scoperto da Annibale Gasparis il 17 Marzo 1852, questo grande asteroide che misura 226 km di diametro sarà in opposizione il 3 Marzo del 2022, momento in cui raggiungerà la magnitudine di 10.4.

Ti sei perso l’ultimo approfondimento su Psyche: poco ferro da queste parti?
Lo trovi qui

Il suo moto sarà di 0,55 secondi d’arco al minuto, quindi, per far si che l’oggetto risulti puntiforme nelle  nostre immagini, potremo utilizzare tempi di esposizione fino a 4/5 minuti. Per ottenere una traccia di movimento dovremo esporre (o integrare) per un tempo più lungo e con 40 minuti di posa vedremo (16)Psyche trasformarsi in una bella striscia luminosa di 22 secondi d’arco.

L’osservazione di questo corpo celeste sarà particolarmente “intrigante” in quanto la luce che raccoglieremo con il nostro strumento proviene da quello che si pensa essere il nucleo metallico, esposto, di un antico planetesimo (teoria messa in dubbio dalle ultimissime scoperte: non perderti l’articolo). (16)Psyche sarà la meta dell’omonima missione della NASA, la cui partenza è programmata per quest’anno.

L’orbita di (39)Laetitia e la sua posizione al 15/3/2022. (https://www.spacereference.org/solar-system#ob=39-laetitia-a856-ca)

(39)Laetitia

(39)Laetitia è un asteroide di Fascia Principale che compie un’orbita intorno al Sole ogni 1.680 giorni (4,60 anni) ad una distanza compresa tra le 2,46 e le 3,08 unità astronomiche (rispettivamente, 368.010.760 Km al perielio e 460.761.440 Km all’afelio).

Deve il suo nome alla divinità romana Laetitia, personificazione della gioia. Scoperto da Jean Chacornac l’8 Febbraio 1856, (39)Laetitia misura 179 km di diametro, sarà in opposizione il 15 Marzo del 2022 e raggiungerà la magnitudine di 10.3. Il suo moto sarà di 0,58 secondi d’arco al minuto, quindi, utilizzando tempi di esposizione fino a 4/5 minuti, manterremo l’oggetto di aspetto puntiforme. Per ottenere una traccia di movimento dovremo esporre (o integrare) per un tempo più lungo, e con 40 minuti di posa vedremo (39) Laetitia trasformarsi in una bella striscia luminosa di 23,2 secondi d’arco.

Buone osservazioni!

SUPERNOVAE: aggiornamenti Marzo 2022

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Questo nuovo anno 2022 sta promettendo molto bene per gli astrofili italiani che fanno ricerca di supernovae.

Dopo i successi di Gennaio di Franco Cappiello, Salvo Massaro e Mirco Villi, nel mese di febbraio, ad eludere la rete di controlli dei programmi professionali ed a mettere a segno un altro colpaccio, è stato un veterano della ricerca di supernovae amatoriale italiana. Nella notte del 7 febbraio l’astrofilo forlivese Giancarlo Cortini ha individuato una stella nuova con una luminosità intorno alla mag.+17,5 nella galassia a spirale barrata NGC1233 posta nella costellazione del Perseo a meno di 2 gradi a Sud della stella Algol ed a circa 200 milioni di anni luce di distanza dalla Terra. Il giorno seguente la scoperta, dall’Osservatorio di Asiago con il telescopio Copernico da 1,82 metri, è stato ripreso lo spettro di conferma, che ha permesso di classificare il transiente come una supernova di tipo II molto giovane cioè scoperta pochi giorni dopo l’esplosione. Alla supernova è stata quindi assegnata la sigla definitiva SN2022bqi. NGC1233 ha visto esplodere al suo interno altre due supernovae conosciute: la SN2017lf di tipo Ia scoperta il 22 gennaio 2017 dal programma professionale cinese denominato Tsinghua-NAOC Transient Survey (TNTS) e la SN2009lj di tipo Ic scoperta il 13 novembre 2009 dal programma professionale americano denominato Lick Observatory Supernova Search (LOSS). Giancarlo Cortini riveste un ruolo fondamentale nella ricerca amatoriale di supernovae. Agli inizi degli anni novanta, insieme all’amico Mirco Villi, gettò le basi per la nascita della ricerca amatoriale italiana di supernovae, a cui si è dedicato incessantemente per tutti questi anni, ottenendo numerose scoperte: 27 ufficiali e 3 indipendenti, occupando la terza posizione nella Top Ten italiana.

 

Abbiamo chiesto a Giancarlo un commento sulla sua scoperta e con molto piacere lo pubblichiamo integralmente:

«La scoperta è avvenuta appunto la prima parte della notte di Lunedì 7 Febbraio, quando dopo aver centrato la galassia NGC 1233, che sorveglio con una cadenza di circa 20 giorni, ho notato un oggetto stellare piuttosto debole (mag. tra +17.5 e +18.0) nella zona nord della spirale; ho pensato subito ad un eventuale pianetino (ne ho trovati più di 200 in circa 20 anni di ricerca digitale), dato che è una tipologia di oggetto ben più facile da individuare rispetto ad una SN.   

Giancarlo Cortini accanto al suo telescopio C14 all’interno dell’Osservatorio di Monte Maggiore (Predappio).

Ma quando mi sono collegato col programma del Minor Planet Center, che fornisce la posizione di eventuali asteroidi entro una distanza di circa 15 primi d’arco dalla galassia ospite, ho capito che poteva essere un oggetto di natura stellare, poiché non erano presenti pianetini più luminosi della mag. +24.0!    Sorvolo su tutte le verifiche preliminari, delle quali si è già parlato più volte, per arrivare al momento della comunicazione al TNS, che è sempre carico di incertezze (mi sembrava quasi impossibile essere arrivato per primo su una galassia in quell’area della fascia zodiacale).  Il programma è certamente molto ricco ed esauriente, ma risulta (almeno per me) un po’ troppo farraginoso nella compilazione del report di scoperta; oltretutto spesso i professionisti hanno il vizio di non indicare il nome della galassia ospite di una eventuale scoperta, cosa che faciliterebbe di molto la verifica preliminare. 

Alla fine comunque tutto è andato bene, nel senso che è stata assegnata la sigla 2022 bqi in NGC 1233; ed anche la “dolce” attesa per avere la conferma spettrale è stata abbastanza breve, dato che il sempre disponibilissimo e gentilissimo Andrea Pastorello mi ha comunicato, già la mattina di Mercoledì 9, che si trattava di una SN tipo II colta nella fase iniziale di crescita.  Al giorno d’oggi è infatti impensabile scoprire SNe “vecchie” più di 1 giorno, cosa che poteva invece capitare non di rado fino a 7 – 8 anni fa (delle circa 30 SNe che ho scoperto, ben 6 erano esplose da almeno 10 – 15 giorni!).  A conti fatti si tratterebbe quindi di un evento classico di tipo collasso del nucleo, con una M circa di -16.0, forse del tipo II P, ma per definire meglio lo spettro sarà necessario attendere ancora almeno qualche settimana, sempre che la stella ospite riesca ad essere ancora visibile.   Con la mia strumentazione, la solita da oltre 11 anni (Celestron 14 a F/5.5, ccd Starlight X-Press Trius S9), per evidenziare bene questo evento sono necessarie pose di almeno 120 sec.   Dulcis in fundo, alle prime ore di Venerdì 11 ho ritrovato la incredibile LBV in NGC 4559, di mag. +18.0 circa, forse in crescita nel suo ennesimo outburst; un Febbraio quindi di tutto rispetto per il sottoscritto.»

Chiudiamo la rubrica con una notizia che ha davvero dell’incredibile.

Immagine della galassia NGC5605 realizzata dall’astronomo americano Andrew Drake e dal suo team con il telescopio Cassengrain da 1,5 metri di Monte Lemmon in Arizona ed elaborata dall’astrofilo americano Stan Howerton.

Sono passati quasi 137 anni dalla scoperta della prima supernova extragalattica, la SN1885A nella galassia di Andromeda M31 ed in tutti questi anni abbiamo avuto galassie molto prolifiche in fatto di esplosioni di supernovae, prima fra tutte la famosa NGC6946 che in 100 anni ha visto esplodere al suo interno ben 10 supernovae. Dalla parte opposta abbiamo invece galassie come la nostra Via Lattea che aspettano da oltre 400 anni l’esplosione di una supernova. Esistono poi dei casi molto rari di due supernovae che esplodono contemporaneamente o quasi nella solita galassia, ne conosciamo circa una ventina. Ma il record assoluto che ha ottenuto la galassia a spirale barrata NGC5605, nella settimana dal 6 al 13 gennaio 2022, ha qualcosa di veramente incredibile e difficilmente replicabile. Ben tre supernovae visibili contemporaneamente in questa galassia posta nella costellazione della Bilancia a circa 170 milioni di anni luce di distanza. Sono state scoperte tutte e tre dal programma professionale americano di ricerca supernovae e pianetini denominato ATLAS Asteroid Terrestrial-impact Last Alert System. La prima denominata SN2022bn è stata scoperta nella notte del 6 gennaio di tipo Ib. La seconda denominata SN2022ec scoperta la notte del 7 gennaio di tipo II. Infine la terza denominata SN2022pv scoperta la notte del 13 gennaio anche questa di tipo II. Attualmente le tre supernovae sono molto deboli vicine alla mag.+19 e la SN2022bn vicina alla mag.+21. Pubblichiamo questa bella immagine di NGC5605 realizzata l’11 febbraio dall’astronomo Andrew Drake e dal suo team del programma professionale americano denominato Catalina CRTS con il telescopio Cassengrain da 1,5 metri di Monte Lemmon in Arizona ed elaborata dall’astrofilo americano Stan Howerton, che evidenzia la presenza delle tre supernovae. La SN2022ec di mag.+18,4 la SN2022pv di mag.+18,8 e la SN2022bn di mag.+20,7.

Luna di Marzo 2022

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Cosa osservare in questo mese …

Marzo si apre col Novilunio del giorno 2 alle ore 18:35 rivolgendo al nostro pianeta il suo emisfero completamente in ombra, ma col lato sempre invisibile dalla Terra in piena luce solare, come sempre accade durante ogni lunazione da oltre quattro miliardi di anni. Infatti non esiste assolutamente nessun “lato oscuro della Luna” come talvolta si sente dire, in quanto il Sole illumina esattamente allo stesso modo, anche se alternativamente, entrambi gli emisferi in stretta relazione con l’avvicendarsi delle fasi. Contestualmente ripartirà un nuovo ciclo lunare che col progressivo avanzare della Luna crescente porterà gradualmente il nostro satellite nelle migliori condizioni osservative.

Infatti alle ore 11:45 del 10 Marzo il nostro satellite sarà in Primo Quarto ma per effettuare osservazioni col telescopio sarà necessario attendere fin verso le ore 19:00 circa quando la Luna, dopo il transito in meridiano delle ore 18:36 ad un’altezza di +70°, si renderà perfettamente visibile fino alle prime ore della notte seguente quando scenderà sotto l’orizzonte. Nel caso specifico le grandi strutture geologiche situate in prossimità del bordo lunare orientale risentiranno ormai del differente angolo di incidenza della luce del Sole, di sera in sera sempre più alto sull’orizzonte della Luna, a differenza di quanto accade in prossimità del terminatore dove la radiazione solare relativamente radente, a causa della bassa declinazione del Sole contribuisce ad evidenziare anche i più fini dettagli superficiali fino ad esasperarne talvolta le reali dimensioni.

 

Condizione, questa, ideale per chi predilige l’alta risoluzione.

Infatti, scorrendo col telescopio da est (bordo lunare) verso ovest (terminatore) non sarà difficile notare la differente percezione dei dettagli, ad esempio, se consideriamo i crateri Langrenus (long. 61.038°est), Theophilus (long. 26.285°est), Albategnius (long. 4.009°est), tre strutture situate circa alla medesima latitudine mentre la rispettiva collocazione sulla porzione lunare illuminata in occasione del Primo Quarto ne determinerà le effettive condizioni osservative in stretta relazione con l’angolo di incidenza della luce solare.

Dominando incontrastata le ore tardo pomeridiane e serali, la Luna terminerà la fase crescente col Plenilunio del 18 Marzo alle ore 08:17 in fase di 15.5 giorni, alla distanza di 382454 km dalla Terra, diametro apparente di 31.24′, ma a -14° sotto l’orizzonte. Per osservarla basterà attendere che sorga alle ore 18:46 per poi seguirne la presenza in cielo fino alle prime luci dell’alba del mattino seguente, quando poi cederà all’invadenza della luce del Sole. Considerando che le vaste aree basaltiche di colore scuro che possiamo individuare sul disco della Luna Piena che in epoche remotissime videro la loro formazione in seguito ad impatti da parte di corpi meteoritici più o meno grandi ne deriva che, anche in relazione alla loro forma più o meno circolare, effettivamente si tratta di antichissime strutture crateriformi invase da una enorme quantità di materiali e colate laviche in seguito agli sconvolgimenti geologici sopra citati. Ma ad un’attenta osservazione non potrà sfuggire come esistano anche regioni basaltiche che nulla hanno a che vedere con la citata forma circolare tipica dei bacini da impatto bensì esibiscono una conformazione decisamente irregolare.

 

Fra queste, nel settore settentrionale, la lunga striscia scura del mare Frigoris (436.000 kmq) con orientamento est/ovest unito al meno esteso Sinus Roris. Orientando poi il telescopio da qui in direzione sudovest si entra nell’immensa e notevolmente irregolare distesa basaltica dell’Oceanus Procellarum che con circa 2 milioni di kmq di superficie occupa gran parte del settore occidentale della Luna. Questo vero e proprio oceano basaltico” è in diretto collegamento con l’adiacente enorme bacino da impatto circolare del mare Imbrium, mentre scendendo verso sud-sudest va a confluire con le aree altrettanto irregolari del mare Insularum, Sinus Aestuum e Sinus Medii fino al mare Vaporum. Ancora più a sud Procellarum confluisce direttamente con i mari Cognitum e Nubium da una parte e col bacino da impatto del mare Humorum dall’altra, il tutto senza particolari delimitazioni orografiche da parte di rilievi montuosi o altre strutture. Sul settore orientale della Luna invece prevalgono nettamente vari bacini da impatto con forma relativamente circolare come i mari Imbrium, Serenitatis, Tranquillitatis, Fecounditatis, Nectaris, fino al fotogenico bacino di Crisium (180.000 kmq) con la sua inconfondibile conformazione circolare priva di collegamenti diretti con le pianure circostanti essendo situato in una regione prevalentemente montuosa. Essendo il Plenilunio lo spartiacque fra Luna crescente e Luna calante, ora ripartirà quest’ultima allontanando pertanto il nostro satellite dalle comode ore serali confinandolo progressivamente sempre più alle ore notturne.

 

Alle 06:37 del 25 Marzo il nostro satellite sarà in Ultimo Quarto poco dopo il suo transito in meridiano (ore 06:29 a +17°) mentre per effettuare osservazioni col telescopio si dovrà attendere fino alle ore 03:21 del giorno successivo, il 26 Marzo. Fra le principali formazioni in evidenza in questa fase è quasi d’obbligo citare Copernicus, una spettacolare struttura crateriforme di 95 km di diametro e con una imponente cerchia di pareti terrazzate che si innalzano fino a 3700 mt di altezza rispetto all’area circostante. Questo cratere, di formazione relativamente recente, proviene dal periodo geologico Copernicano collocato a non oltre un miliardo di anni fa. Inoltre è sede di una notevole raggiera. Altrettanto meritevole di una visita è l’Aristarchus Plateau, altipiano con rilievi di origine vulcanica in cui si estende per oltre 160 km l’eccezionale e spettacolare solco della Vallis Schroteri (periodo geologico Imbriano, 3,2/3,8 miliardi di anni) fra i crateri Heordotus ed Aristarchus. Da qui fino agli ultimi giorni del mese la Luna sarà sempre più confinata alle più profonde ore della notte mostrando falci sempre più sottili, quasi a preannunciare il Novilunio che vedremo proprio in apertura del prossimo mese.

Le Falci lunari di Marzo

Per gli appassionati di falci lunari appuntamento per il 4 Marzo in prima serata con una bella falce di Luna crescente in fase di 2 giorni che alle ore 20:15 scenderà sotto l’orizzonte. Sulla sua superficie vi si potranno individuare le scure aree basaltiche del mare Humboldtianum a nordest ed i mari Marginis e Smythii sul bordo orientale. La serata successiva, il 5 Marzo, falce molto più comoda di 3 giorni visibile fino al suo tramonto previsto alle ore 21:25 fra le stelle dei Pesci. Oltre al già citato mare Humboldtianum, vi si potranno individuare anche il settore est del mare Crisium con gli adiacenti mari Marginis, Smythii, Undarum e Spumans oltre agli spettacolari crateri presenti lungo il margine est del mare Fecounditatis. Una falce particolarmente interessante ed anche spettacolare, anche se non proprio sottile (fase di 25,4 giorni), sarà quella che sorgerà alle ore 05:48 del 28 Marzo fra le stelle del Capricorno preceduta a breve distanza da ben tre pianeti, Venere (), Marte (), Saturno (). A parte il fotogenico quadretto, il breve tempo a disposizione consentirà comunque alcune veloci osservazioni sulla sua superficie illuminata prima che il sorgere del Sole sul nostro pianeta prevalga nettamente. Infatti, vi si potranno individuare gran parte dell’Oceanus Procellarum e gli altipiani sudoccidentali oltre alle rispettive cuspidi nord e sud. Per questa tipologia di osservazioni, oltre agli ormai noti parametri osservativi, risulterà determinante disporre di un orizzonte il più possibile libero da ostacoli.

Librazioni di Marzo

(In ordine di calendario, per i dettagli vedere le rispettive immagini). Si precisa che, per ovvi motivi, non vengono indicati i giorni in cui i punti di massima Librazione si discostano dalla superficie lunare illuminata dal Sole.

Librazioni Regione Nord-Nordest-Est:

Immagini “Librazioni “: Mappe di F. Badalotti su immagini tratte dal globo di “Virtual Moon Atlas”.
  • 04 Marzo: Fase 02,07 giorni – Massima Librazione est cratere Endymion
  • 05 Marzo: Fase 03,11 giorni – Massima Librazione nordest cratere Gauss
  • 06 Marzo: Fase 04,07 giorni – Massima Librazione sudest cratere Gauss
  • 07 Marzo: Fase 05,19 giorni – Massima Librazione est mare Crisium

Librazioni Regione Sud-Sudovest:

Immagini “Librazioni “: Mappe di F. Badalotti su immagini tratte dal globo di “Virtual Moon Atlas”.
  • 11 Marzo: Fase 09,03 giorni – Massima Librazione sud cratere Kircher
  • 12 Marzo: Fase 10,07 giorni – Massima Librazione sud cratere Phocylides
  • 13 Marzo: Fase 11,11 giorni – Massima Librazione sud cratere Phocylides
  • 14 Marzo: Fase 12,11 giorni – Massima Librazione sudovest cratere Phocylides
  • 15 Marzo: Fase 13,19 giorni – Massima Librazione sud cratere Inghirami
  • 16 Marzo: Fase 14,19 giorni – Massima Librazione sud cratere Inghirami
  • 17 Marzo: Fase 15,03 giorni – Massima Librazione sud cratere Inghirami
  • 18 Marzo: Fase 16,15 giorni – Massima Librazione sud cratere Inghirami
  • 19 Marzo: Fase 17,19 giorni – Massima Librazione ovest cratere Schickard
  • 20 Marzo: Fase 18,03 giorni – Massima Librazione ovest cratere Piazzi.

Librazione Regione Ovest-Nordovest:

Immagini “Librazioni “: Mappe di F. Badalotti su immagini tratte dal globo di “Virtual Moon Atlas”.
  • 21 Marzo: Fase 19,19 giorni – Massima Librazione ovest cratere Grimaldi

Librazione Regione Nordovest-Nord: 

Immagini “Librazioni “: Mappe di F. Badalotti su immagini tratte dal globo di “Virtual Moon Atlas”.
  • 22 Marzo: Fase 20,19 giorni – Massima Librazione nord cratere Xenophanes
  • 23 Marzo: Fase 20,41 giorni – Massima Librazione nord cratere Xenophanes
  • 24 Marzo: Fase 21,33 giorni – Massima Librazione nord cratere Goldschmidt

La vittoria dell’Associazione Romana Astrofili – Shoemaker NEO Grant 2021

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Importante riconoscimento per l’Associazione Romana Astrofili, tra i vincitori dello Shoemaker NEO Grant 2021

Tra gli otto vincitori del prestigioso premio Shoemaker, due sono italiani: oltre al Gruppo Astrofili Montelupo Fiorentino, si aggiudica il riconoscimento anche l’A.R.A. – Associazione Romana Astrofili. Le parole del presidente dell’associazione, Ing. Massimo Calabresi:

«L’Associazione Romana Astrofili (A.R.A), delegazione UAI, svolge la sua attività presso l’Osservatorio “Virginio Cesarini” di Frasso Sabino (RI) sin dal 1995, anno dell’inaugurazione dello stesso. Il gruppo di osservatori A.R.A ha sempre lavorato nella misura astrometrica di asteroidi e comete sin dagli Anni ’80, utilizzando da prima pellicole e lastre fotografiche e poi camere CCD».

L’associazione ha all’attivo la scoperta di due asteroidi della fascia principale (34138 Frasso Sabino e 257439 Peppeprosperini) e ha effettuato 6773 misure di posizione di 1703 oggetti (dati luglio 2021) tra asteroidi, NEO e comete. Collabora inoltre con gruppi di ricerca per la caratterizzazione di asteroidi, misure fotometriche di oggetti minori del Sistema Solare e stelle variabili.

La somma in denaro ricevuta, pari a 7.329 dollari, per la vittoria dello Shoemaker NEO Grant 2021 verrà utilizzata per sostituire la camera con una più sensibile e acquistare nuovi filtri fotometrici (sloan g’ e r’), con cui ottenere una più ampia gamma degli indici di colore da misurare e una maggior scelta delle stelle di confronto per le misure fotometriche.

Lo scopo? Poter rilevare – a parità di tempo di esposizione della vecchia camera attualmente in dotazione all’Osservatorio – oggetti meno luminosi e ottenere un migliore rapporto segnale/rumore nelle misure.

«Il progetto presentato, dal titolo “Astrometry and photometry instrumentation upgrade of 157 Observatory” è finalizzato all’attività di follow up sui NEO proponendo misure astrometriche su oggetti pari a 20-21 di magnitudine in banda V, l’incremento dell’attività di caratterizzazione fisica (misure di indice di colore) e determinazione delle curve di luce per la misura dei periodi di rotazione».

Sarà anche possibile realizzare la gestione del telescopio da remoto per consentire una maggiore produttività: sono già in corso test sul software realizzato per l’apertura del tetto scorrevole e per la gestione della strumentazione a distanza.

Complimenti per la vittoria a tutto il gruppo dell’Associazione Romana Astrofili da parte di Coelum Astronomia!

Qui l’articolo dedicato all’altro gruppo italiano tra i vincitori dello Shoemaker NEO Grant 2021, il Gruppo Astrofili Montelupo Fiorentino

 

 

 

Scoperta nuova stella variabile dalla collaborazione tra gli Osservatori Hack e Hypatia

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Nuova stella variabile scoperta nella costellazione del Cane Minore.
Una collaborazione proficua quella che si è instaurata tra l’Osservatorio
Astronomico Margherita Hack di Firenze e l’Osservatorio Astronomico Hypatia di Rimini.

Quando il lavoro di “routine” si trasforma in una bella scoperta.
È proprio ciò che è accaduto a Nico Montigiani e Massimiliano Mannucci dell’Osservatorio Hack, e Fabio Mortari e Davide Gabellini dell’Osservatorio Hypatia.

La collaborazione tra i due osservatori, denominata “HH Collaboration“, ha avuto inizio 6 mesi fa. Lo scopo principale di questa unione è la fotometria di asteroidi, finalizzata alla definizione della curva di luce caratteristica di questi corpi. Ad ogni sessione osservativa, sono centinaia le immagini riprese per gli asteroidi monitorati: una ghiotta opportunità per analizzare anche le centinaia di stelle presenti in ogni scatto, nella speranza di imbattersi in qualcosa di nuovo o anomalo.

La scoperta

È stato durante l’analisi delle stelle di campo dell’asteroide Arequipa che l’attenzione è caduta proprio su una stella in particolare che sembrava mostrare una leggera variabilità. I dubbi però erano molteplici, in quanto si trattava di una variazione di intensità luminosa molto, molto piccola.

Dopo numerose sere spese a misurare fotometricamente le stella e unendo i dati
raccolti con quelli messi a disposizione dalle survey ASAS-SN (All-Sky Automated Survey della Ohio State University) e ZTF (le osservazioni del Palomar Observatory in California), è stato possibile far convergere i dati e ottenere una curva di luce ed il relativo periodo di variabilità.

La nuova stella variabile situata nella costellazione del Cane Minore (credits Osservatorio Astronomico Margherita Hack)

I dati raccolti sono stati comunicati all’American Association of Variable Star Observers (AAVSO), nello specifico al The International Variable Star Index (VSX).

Pochi giorni di attesa ed il 19 Febbraio 2022 è arrivata la validazione della scoperta.

È così che una nuova stella variabile è stata aggiunta la catalogo VSX e denominata Hack-Hypatia V1 (qui il bollettino ufficiale)

La variabile è situata nella costellazione del Cane Minore, ha un periodo primario di circa 2 ore 17 minuti 46 secondi, una magnitudine media di circa 13,63(V) e una escursione di poco superiore ad un centesimo.

Dalla curva di luce è stato possibile dedurre che si tratta di una variabile del tipo Delta
Scuti: una stella variabile che può cambiare la propria luminosità a seguito delle
pulsazioni della sua superficie, sia radiali che non radiali. Le variazioni di luminosità
tipiche sono semi-regolari con variazioni di magnitudine tipicamente comprese tra 0,003
a 0,9 nel corso di alcune ore. Le stelle di questo tipo sono in genere giganti o
di sequenza principale di tipo spettrale da A0 a F5.

Da parte di Coelum Astronomia
complimenti agli Osservatori Astronomici Hack e Hypatia per la scoperta!

Si fa presto a dire firmamento

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Altro che stelle fisse e cielo invariabile: gli astri si spostano, eccome. E mentre le costellazioni si deformano, Proxima Centauri perde il suo primato di stella più vicina.

La conoscenza si presenta sotto forme strane. Per me è stata quella di un CD.

Correva l’anno 1999, l’inizio dell’anno Santo a Roma e quello in cui fu osservato il primo transito di un pianeta extrasolare davanti a una stella (HD 209458). Per me era l’ultimo anno di liceo a Bellinzona ed è anche quello in cui ho capito davvero che il cielo non è per nulla immutabile.

Salutate Barnard quando passata

Avevo scelto “Astronomia” come lavoro di maturità. A insegnarci le basi era Stefano Sposetti, allora già attivissimo nella SAT, che un giorno ci aveva consegnato – a me e a un compagno – un compact disc. Il cd conteneva una serie di foto della stella di Barnard e un software attraverso il quale elaborare le immagini e ricavare il moto proprio dell’astro.
Non ricordo quanto il risultato fosse effettivamente vicino al valore corretto di 10,3 secondi d’arco all’anno. Quello che ne ricavai fu di più: la constatazione che nulla è davvero fermo lassù. A cominciare da quella stella, che in tutto il cielo ha il moto proprio più alto di tutte, tanto che a osservarla oggi sarebbe chiaramente da un’altra parte rispetto a 22 anni fa. Di magnitudo 9,51, questa nana rossa descritta per la prima volta dall’astronomo Edward Emerson Barnard nel 1916 si sta avvicinando rapidamente a noi, oggi si trova a circa 6 anni luce e fra 10mila anni ci sfreccerà vicina (relativamente: a 4 anni luce), tanto da avere la stessa distanza dalla Terra rispetto ad Alpha Centauri. Andrà quindi a un niente dal diventare la stella più vicina a noi. Nel passaggio cambierà costellazione, passando dall’Ofiuco a Ercole.

Non è però la prima stella errante che transita nelle vicinanze. A saperlo bene sono, per esempio, l’astrofisico bulgaro Valentin Ivanov e l’americano Eric Mamajek. Nel 2013, era a novembre, Mamajek si trovava in visita a Ivanov al European Southern Observatory di Santiago in Cile. In quel momento Ivanov aveva davanti a sé i dati di una piccola nana rossa di 18esima magnitudo a circa 20 anni luce da noi nominata WISE 0720−0846. Un astro sino ad allora passato inosservato, appena scoperto dall’astronomo tedesco Ralf-Dieter Scholz . I numeri suggerivano che la stella (in realtà un sistema binario composto da una nana rossa e da una nana bruna) non avesse molto moto laterale. La cosa era strana e poteva voler dire che la debole nana si stava avvicinando o allontanando da noi, per giunta a una velocità sostenuta. Quella sera i due effettuarono alcune misure e in breve tempo si accorsero che, riavvolgendo il nastro della storia, la Stella di Sholz (così chiamata in onore del suo scopritore) 77 mila anni fa era passata a 0,82 anni luce dal sole, transitando così in pieno nella nube di Oort, il nugolo di comete che circonda il nostro sistema planetario. Si trattava del passaggio più ravvicinato di una stella al Sistema Solare mai scoperto, anche se gli abitanti della Terra di allora non se ne sarebbero comunque potuti accorgere, dal momento che anche a così poca distanza la stella di Sholz sarebbe apparsa di decima magnitudo, quindi 50 volte più debole di quanto possa scorgere l’occhio nudo.

Non si tratta però sicuramente dell’ultimo passaggio ravvicinato. Il prossimo noto è in programma tra 1,2 milioni di anni, quando la stella che porta il numero 710 nel catalogo Gliese – la nana arancione attualmente di nona magnitudine – arriverà a una distanza di 1,1 anni luce.

Più in generale, il moto del firmamento è talmente intenso che nei prossimi 80 mila anni la stella più vicina alla Terra cambierà per ben 6 volte, passando dapprima da Proxima ad Alpha Centauri, per poi diventare Ross 248 attorno al 40 mila dopo Cristo. Sarà poi il turno di Gliese 445, di nuovo di Alpha Centauri e poi di Ross 128.

Nati sotto un’altra stella

Rappresentazione grafica che descrive lo spostamento del polo celeste. Credit: Società Astronomica Ticinese.

Tutto si muove dunque. Compreso quello che riteniamo il punto fermo del cielo: la Stella Polare. L’uomo e le sue tante civiltà ne hanno avute almeno due. Gli antichi egizi, cui la storia attribuisce competenze da provetti astronomi, non guardavano all’alfa dell’Orsa minore, come facciamo noi, per sapere dove era il nord, ma a Thuban, l’alfa del Dragone. Una stella decisamente più debole dell’attuale Polaris, ma che attorno al 2800 avanti Cristo si trovava praticamente in mira all’asse terrestre. Ai tempi, Polaris doveva apparire come una delle tante stelle in cielo e neppure tra le più importanti. Romani e Babilonesi non hanno invece potuto contare su un astro “perno del cielo”, visto che allora la volta celeste sembrava ruotare attorno a un punto compreso tra Thuban e l’attuale Polare. Tra duemila anni l’emisfero boreale avrà, di nuovo, un’altra stella fare da perno, ovvero Alrai (gamma Cephei, di magnitudo 3,3).

A causare questo perenne cambiamento è la cosiddetta precessione degli equinozi, il fenomeno per cui l’asse terrestre – a causa delle interazioni gravitazionali con la Luna e il Sole – si sposta lentamente in cielo, descrivendo all’incirca un cerchio che si chiude ogni 25mila anni.

E così, tra dodicimila anni l’asse terrestre (inclinato di 23 gradi e 27 primi rispetto al piano su cui si “trova” l’orbita del nostro pianeta) punterà pressappoco verso la brillante Vega, nella Lira. Prima di lei toccherà – fra 5.500 anni – ad Alderamin (in Cefeo) e fra novemila anni a Fawaris/Rukh (nel Cigno). Dopo Vega sarà il turno di due stelle nella costellazione di Ercole, poi di Edasich, nel Dragone e, in seguito – di nuovo – di Thuban. Il cerchio si chiuderà 2.500 anni più tardi di nuovo su Polaris. La tabella seguente riporta le prossime stelle polari per l’emisfero boreale così come calcolate da Cartes du Ciel, tenendo conto anche dei moti propri delle stelle.

La seconda parte dell’articolo, su come sono mutati i miti legati alle costellazioni nel corso del tempo, online il 26/02. Restate collegati!

Approfondimento tratto dalla rivista “Meridiana” a cura di Luca Berti – Società Astronomica Ticinese

Luke Skywalker’s home: l’esopianeta osservato con un telescopio terrestre

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La casa di Luke Skywalker è reale, ed è stata chiamata Kepler-16b.

Il pianeta orbita attorno a due stelle (un sistema stellare binario); di conseguenza avrebbe quindi due tramonti, proprio come il pianeta natale del protagonista di Star Wars: Tatooine.

Si trova a circa 245 anni luce dalla Terra ed era già stato individuato tramite il telescopio spaziale Kepler nel 2011. Gli astronomi della University of Birmingham sono però riusciti ad osservarlo anche tramite un telescopio terrestre. I risultati dell’osservazione sono stati pubblicati nel Monthly Notices of the Royal Astronomical Society.

Illustrazione grafica del pianeta immaginario di Tatooine. Credit: Lucasfilm

Un pianeta circumbinario

Per individuare l’esopianeta è stato utilizzato un telescopio di 193 cm dell’Observatoire de Haute-Provence, in Francia. Il metetodo utilizzato è quello della velocità radiale, in cui gli astronomi osservano un cambiamento nella velocità di una stella mentre un pianeta le orbita attorno, ovvero la spettroscopia Doppler. E’ una delle tecniche più sfruttate in campo astronomico e la scoperta di Kepler-16b dimostra che è possibile osservare pianeti circumbinari con metodi pressoché tradizionali, utilizzando telescopi terrestri.

Rappresentazione artistica del sistema di Kepler-16b. Credit: NASA/JPL – Caltech

Un pianeta circumbinario viene definito come un pianeta che orbita attorno contemporaneamente alle due stelle di un sistema binario.

Kepler-16b, e altri esopianeti simili, si sarebbe formato all’interno di un disco protoplanetario, composto di polveri e gas, che circondava in origine due giovani stelle.

 

Il professor Amaury Triaud della University of Birmingham, a capo dello studio, fa però notare un fatto: «Questa ipotesi male si accosta con la realtà dei pianeti circumbinari. Due stelle binarie in verità tendono ad influenzare un disco protoplanetario, impedendo l’agglomerarsi dei detriti spaziali che possono portare all’accrescimento di un pianeta».

Rappresentazione artistica del sistema binario di HD 98800 circondato da un disco protoplanetario. Questo sistema viene usato come esempio su come un disco protoplanetario coesisterebbe con due stelle binarie. Credit: NASA/JPL -Caltech.

Kepler-16b dovrebbe quindi essersi formato lontano dalle sue due stelle madri, in un punto dove la loro influenza era più debole.

Successivamente il pianeta deve aver compiuto una migrazione verso l’interno di questo sistema binario.

«Questo fenomeno è chiamato “migrazione guidata dal disco”», spiega il dott. David Martin della Ohio State University (USA), «Sembra avvenire regolarmente ed è alla base della genesi dei sistemi binari».

 

I nuovi studi su Kepler-16b offrono quindi nuovi spunti d’indagine e favoriscono buone prospettive di ricerca sui pianeti extrasolari.

La dott.essa Isabelle Boisse, scienziata della University of Aix Marseille e responsabile dello strumento SOPHIE che ha raccolto i dati sull’esopianeta, conclude: «Abbiamo in programma di analizzare i dati presi da altri sistemi stellari binari e perciò svelare il mistero dei pianeti circumbinari come Kepler-16b».

Fonti:

Monthly Notices of the Royal Astronomical Society (Febraury 2022): “BEBOP III. Observations and an independent mass measurement of Kepler-16 (AB)b – the first circumbinary planet detected with radial velocities” by Triaud et al.

“The Dark Side” dell’esopianeta

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Il pianeta WASP – 121b, conosciuto anche come “caldo Giove” per le sue alte temperature, possiede un lato oscuro scombussolato da una caotica atmosfera. Lo confermano gli astronomi del MIT, i quali hanno ottenuto per la prima volta una visione più chiara della fascia in ombra del pianeta. Queste informazioni sono state combinate con i dati raccolti sul lato diurno del pianeta, per essere pubblicate nella giornata di ieri 21 febbraio su Nature Astronomy.

 

L’esopianeta è un enorme gigante gassoso grande quasi il doppio di Giove. È stato scoperto nel 2015 nei pressi di una stella a circa 850 anni luce dalla Terra. La sua orbita è una delle più corte mai viste, compiendo una rivoluzione in sole 30 ore. Come molti altri oggetti troppo in orbita moltro stretta vicino ad un altro oggetto di massa considerevole, questo pienata è “bloccato dalle maree”, così che il suo lato diurno è sempre molto caldo perchè rivolto sempre verso la stella, mentre quello notturno è più freddo perchè sempre affacciato verso l’esterno.

«Questi giganti gassosi sono famosi per avere lati diurni molto luminosi, mentre quelli in ombra restano completamente nascosti ai nostri occhi», afferma Tansu Daylan, un post-doc del MIT, «Il lato oscuro di WASP-121b è circa 10 volte più debole di quello illuminato».

Il giorno e la notte

Il gigante gassoso era già stato studiato in precedenza. Gli astronomi avevano tentato di analizzare il vapore acqueo e la temperatura dell’atmosfera. Ora la nuova ricerca riesce ad dare una quadro più ampio della situazione. I ricercatori sono riusciti ha mappare il lato “giorno” e il lato “notte” ed hanno visto come le temperature cambiano con l’altitudine. Sono anche riusciti a tracciare la presenza di acqua, osservando come questa circoli all’interno dell’atmosfera.

Mentre sulla Terra, l’acqua prima evapora e poi si condensa nelle nuvole, su WASP – 121b il ciclo dell’acqua risulta molto più intenso. Sul lato illuminato, le molecole di acqua vengono fatte a pezzi a temperature superiori a 3.000 Kelvin. Queste particelle divise vengono poi spinte verso il lato oscuro, dove le basse temperature consentono agli atomi di idrogeno e ossigeno di ricombinarsi per formare nuove molecole di H₂O. Un processo che sembra sostenuto da venti che sferzano intorno al pianeta ad una velocità pari fino a 5 km al secondo.

Illustrazione delle analisi compiute su WASP-121b che provano a descrivere il ciclo dell’acqua e il comportamento delle nubi di metallo dell’esotica atmosfera dell’esopianeta. Credit: MIT

L’acqua non è però l’unico elemento a circolare nell’atmosfera dell’esopianeta.

Da quanto emerso sembra poi che le fredde nubi del lato oscuro stiamo ospitando dense quantità di ferro. Nubi che, come quelle composte di acqua, arrivando sulla fascia illuminata vaporizzano sotto forma di gas lascindo cadere i metalli pesanti fino a provocare piogge di minerali.

 

«Abbiamo scoperto un sistema meteorologico incredibile ed esotico», afferma Thomas Mikal-Evans, primo autore dello studio e post-doc al Kavli Institute for Astrophysics and Space Research.

Per analizzare così nel dettaglio l’atmosfera di WASP-121b, è stata utilizzata una telecamera spettroscopica a bordo del telescopio spaziale Hubble della Nasa. La spettroscopia ha permesso agli scienziati di studiare caratteristiche dell’esopianeta mai individuate prima e apre nuove prospettive nella ricerca sugli esopianeti.

Fonti:

Release: https://news.mit.edu/2022/hot-jupiter-dark-side-

L’avventurosa storia dei meteoriti ferrosi di Capo York – Seconda Parte

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Come il fallimento di alcune spedizioni polari portò al rinvenimento di uno dei più grandi oggetti metallici mai caduti dal cielo.

Città di Thule – Groelandia
Maggio 1894

Nella prima parte di questo avvincente racconto, abbiamo visto come, barattando pellicce con coltelli e arpioni, Robert Peary riuscì a farsi accompagnare finalmente là dove si trovavano giganteschi meteoriti ferrosi. L’esploratore era infatti venuto a conoscenza che gli arpioni utilizzati dagli indigeni del luogo possedevano una punta metallica, ottenuta martellando a freddo frammenti di un enorme meteorite.

Ti sei perso la Prima Parte del racconto? La trovi qui

Robert Peary, qui ritratto nel 1909 a bordo della nave Roosevelt con gli abiti di pelliccia confezionati per lui dagli Eschimesi. Fu il primo esploratore a localizzare i meteoriti di Capo York (https://delphipages.live/it)

Nel 1894 Peary si era imbarcato con l’obiettivo di vincere la corsa senza precedenti che spingeva alcuni temerari a raggiungere per primi il Polo Nord.

Dovendo sostenere costi di spedizione ingenti, l’esploratore non si era dimenticato dell’offerta ricevuta dal banchiere Morris Jesup, filantropo e presidente dell’American Museum of Natural History, in merito alla generosa ricompensa promessa in cambio di interessanti reperti naturalistici da esporre al pubblico.

Falliti i tentativi di raggiungere il Polo Nord, pertanto, l’esploratore trovò il tempo per convincere un nativo a condurlo dalla “montagna di ferro” in cambio di un fucile.

Insieme a Hugh Lee, un membro della spedizione, partì il 16 maggio di quell’anno con slitta e cani verso Capo York, ma dopo un paio di giorni in mezzo alla tormenta l’accompagnatore decise di tornare indietro.

Perry e Lee avanzarono sino a un villaggio e qui reclutarono una nuova guida, un nativo di nome Tallakoteah, che raccontò loro dell’esistenza di due macigni metallici, che si trovavano nello stesso luogo, e di un altro molto più grande chiamato Ahnighito, ossia la Tenda, situato in una isola distante circa una decina di chilometri.

La fotografia mostra il meteorite Ahnighito in primo piano e alla sua destra il compagno di viaggio denominato il Cane (cortesia American Museum of Natural History)

Partiti per la spedizione e raggiunte le rive della Melville Bay, parzialmente sepolti dalla neve i tre trovarono un meteorite da 3 tonnellate, battezzato dai nativi la “Donna“, e uno da 400 kg chiamato il “Cane“.

Entrambi i meteoriti erano ricoperti da una crosta di colore bruno segnata in più parti dalle martellate a opera degli Eschimesi: un utilizzo confermato anche dagli innumerevoli massi di basalto, presenti nelle immediate vicinanze, usati per strapparne dei frammenti.

Preoccupato di assicurarsi la priorità del ritrovamento, Peary descrisse nei seguenti termini le azioni intraprese prima di ritornare indietro alla base:

Ho inciso una grossolana P sulla superficie del metallo, come indiscutibile prova di avere trovato il meteorite nel caso non fossi riuscito più tardi a raggiungerlo con la mia nave.

Oltre a ciò ritenne opportuno lasciare sul posto un biglietto con il seguente messaggio: Questo documento è depositato per dimostrare che nella sopra riportata data [domenica 27 maggio 1894] R. E. Peary della U.S.Navy e Hugh J. Lee della North-Greenland Expedition con Tallakoteah, una guida eschimese, scoprirono la famosa “montagna di ferro” menzionata per primo dal Capitano Ross.

Presa nota con cura della località, il gruppo tornò indietro e, durante il mese di agosto, tentò di avvicinarsi per caricare a bordo della nave Falcon i due meteoriti più piccoli, ma un freddo eccezionale impedì il completo scioglimento del mare ghiacciato lungo la costa e fu necessario rinviare il recupero all’estate seguente.

Il resto della spedizione rientrò negli Stati Uniti e qui la moglie, Josephine, iniziò subito a cercare nuovi finanziamenti per recuperare il marito e gli altri esploratori rimasti in Groenlandia.

Partecipò alla missione dell’estate seguente anche Rollin Salisbury, professore di geologia all’Università di Chicago, che dopo il sopralluogo eliminò ogni dubbio sulla vera natura delle grandi masse metalliche di Capo York scrivendo nel suo rapporto:

“La topografia della superficie, studiata in dettaglio, ha tutte le caratteristiche che individuano i meteoriti metallici, caratteristiche mai trovate in altre masse rocciose o metalliche della Terra […] la superficie dopo attacco acido mostra in diversi punti le figure di Widmanstätten che sono uno dei marchi distintivi di questi corpi. Un foro profondo diversi pollici consentì di stabilire il carattere metallico. Come molti altri meteoriti composti principalmente di ferro, l’ossidazione ha interessato solo un sottile strato superficiale. Queste e altre considerazioni meno facili da riassumere conducono alla sicura conclusione che le masse metalliche sono meteoriche”.

Sostenuto anche dalla perizia dell’esperto geologo, Peary decise di portare a New York la Donna e il Cane, ma movimentare oggetti tanto pesanti rese necessario mettere in atto una insolita strategia.

Il trasferimento in America

Nel 1897 Peary caricò a bordo della nave Hope il meteorite Ahnighito e questa fotografia documenta una fase di quella faticosa impresa (cortesia National Geographic)
The ‘Ahnighito’ meteorite being loaded onto the deck of the ‘Hope’. Published in ‘Northward Over the Great Ice, volume #2, p. 586.

Le imbarcazioni potevano navigare nella Melville Bay solo un paio di settimane durante l’estate e proprio alcuni grandi blocchi di ghiaccio galleggianti servirono a traghettare i meteoriti sino alle fiancate della nave.

Potenti argani sistemarono nella stiva dell’imbarcazione Kite il prezioso carico, capace di rendere inutilizzabili le bussole, per poi salpare verso il porto di New York.

Il tentativo di recuperare anche Ahnighito l’estate seguente, nonostante la molta manodopera assoldata e la potente gru messa in campo, fallì a causa delle avverse condizioni meteorologiche.

Accompagnato da moglie e figlia piccola, battezzata Marie Ahnighito come il meteorite più grande, solo nel 1897 Peary terminò il recupero, segnato da difficoltà ambientali e ingegneristiche senza precedenti, caricando a bordo della nave Hope anche la “montagna di ferro”.

Le analisi condotte all’arrivo in America rivelarono modeste differenze, a conferma che provenivano tutti dalla frantumazione dello stesso oggetto.

Ahnighito rimase in deposito sino a quando, nel 1904, raggiunse l’American Museum of Natural History sopra un robusto carro trainato da 28 cavalli e l’accompagnamento della fanfara.

Josephine si adoperò a lungo per definire la vendita dei meteoriti, ricevuti in dono da Peary, e riuscì infine a chiudere la trattativa in cambio di 40.000 dollari: somma destinata al mantenimento dei figli nel futuro reso incerto dalla ferma volontà del marito di raggiungere il Polo Nord.

La donna giustificava l’importanza di quella ingente somma nella lettera indirizzata a Henry Osborn, diventato presidente del Museo nel 1908, scrivendo quanto segue:

Penso sia giusto affermare che i meteoriti sono di mia proprietà e che il denaro ottenuto in cambio non sarà speso nelle esplorazioni artiche. È tutto ciò che ho per educare i miei bambini, nel caso in cui qualcosa accada a mio marito.

La transazione giunse a conclusione dopo le polemiche sollevate da alcuni giornali, diffondendo il sospetto che la sua vera natura fosse terrestre. Ogni dubbio residuo sulla provenienza, però, fu rimosso dalla loro singolare struttura cristallina: derivante da un processo di raffreddamento lentissimo – pochi gradi per milione di anni compatibile solo con quanto può avvenire nel nucleo di un grande asteroide.

I meteoriti di Capo York, oggi tra le principali attrazioni del Museo Americano di Storia naturale di New York, meritano in conclusione di essere rammentati perché, oltre al grande valore scientifico, favorirono per diversi secoli la sopravvivenza a una piccola comunità di Inuit.

 

Viaggi nello Spazio: il cervello degli astronauti viene “ricablato”

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Lunghi viaggi nello spazio profondo possono cambiare il cervello umano.

Per la prima volta sono stati osservati dei cambiamenti nella connettività strutturale dell’encefalo.

È quello che hanno scoperto alcuni neuroscienziati della University of Antwerp, con uno studio pubblicato di recente sul Frontiers in Neural Circuits. I risultati mostrano delle modifiche microstrutturali in diversi tratti della materia bianca [parte del cervello e midollo spinale che contiene le fibre nervose, ndr], ovvero i tratti sensomotori.

Simili ricerche possono costituire la base per comprendere meglio come l’uomo e il suo sistema nervoso si adattano durante le missioni spaziali.

Immagine di un astronauta nello spazio. Credit: NASA

Il nostro cervello tende a modificarsi nella sua struttura e funzione lungo tutto l’arco della vita. Poiché l’esplorazione spaziale si sta aprendo a nuovi scenari, è di fondamentale importanza comprendere gli effetti del volo spaziale sul cervello umano.

È stato dimostrato che la permanenza nello Spazio può alterare la forma del sistema cerebrale adulto.

 

Grazie alla collaborazione tra l’Agenzia spaziale europea (ESA) e Roscosmos, un team di ricercatori internazionale, guidato dal dott. Floris Wuyts, ha preso in esame la materia bianca presente nella parte più profonda del cervello. La materia bianca sembra essere deputata alla comunicazione tra la materia grigia e il resto del nostro corpo, favorendo di conseguenza l’acquisizione e l’elaborazione delle informazioni.

Cervello “appreso”

Per analizzare la struttura e la funzione del cervello umano dopo un volo spaziale, gli scienziati hanno sfruttato la trattografia delle fibre, una tecnica di imaging cerebrale.

«La trattografia su fibra ci fornisce una specie di schema elettrico del cervello. Siamo i primi ad utilizzare questo metodo d’indagine e quindi anche i primi ad osservare simili cambiamenti nella struttura celebrale», spiega Wuyts.

Immagine di tratti neurali associati a modifiche pre-volo. Il blu indica le connessioni delle parti “superiore – inferiore”. Il verde indica le connessioni delle aree “anteriore – posteriore”. Il rosso indica le connessioni laterali “sinistra – destra”. Credit: University of Antwerp

Sono state acquisite scansioni MRI a diffusione (dMRI) di 12 astronauti maschi prima e dopo una missione nello spazio. I cosmonauti avevano tutti compiuto missioni di lunga durata con una media di 172 giorni.

 

I risultati preliminari sembrano dare credito al concetto di “cervello appreso”; ovvero il nostro sistema cerebrale ha un livello di neuroplasticità tale da potersi adattare in maniera relativamente rapida ai viaggi nello spazio.

«Abbiamo riscontrato cambiamenti nelle connessioni neurali tra diverse aree motorie del cervello», aggiunge il primo autore dello studio, Andrei Doroshin della Drexel University, «Le aree motorie sono centri cerebrali da cui partono i comandi per il movimento. In assenza di gravità, un astronauta necessita di adattare velocemente la sua motricità. Per fare ciò, il nostro studio dimostra che il loro cervello viene, per così dire, “ricablato”».

Immagini tratti neurali associati a modifiche del follow-up post-volo. Il blu indica le connessioni delle parti “superiore – inferiore”. Il verde indica le connessioni delle aree “anteriore – posteriore”. Il rosso indica le connessioni laterali “sinistra – destra”. Credit: University of Antwerp
Dopo sette mesi dall’ultimi volo spaziale, tali cambiamenti sono ancora visibili.

«Tutto ciò è sorprendente», spiega Wuyts, «Inizialmente pensavamo di aver rilevato cambiamenti nel corpo calloso, ovvero l’autostrada che collega gli emisferi del cervello. Il corpo calloso confina con i ventricoli cerebrali: una rete comunicante di camere piene di liquido, che possono espandersi come conseguenza di un volo nello spazio. I cambiamenti rilevati potrebbero essere causati dalla dilatazione di tali ventricoli, i quali inducono spostamenti anatomici del tessuto neurale. Quindi si osservano modifiche solamente nella forma e ciò pone la nostra ricerca su una prospettiva del tutto diversa».

Il futuro dell’uomo nello spazio

C’è la necessità di avere chiaro come i viaggi spaziali possono influenzare il nostro corpo. Sappiamo che l’assenza di gravità comporta la perdita di massa muscolare ed ossea; perciò si è agito per prevenire simili problemi, come ad esempio svolgere attività fisica per due ore al giorno. Bisogna anche tutelare il nostro cervello e lo studio degli scienziati della University of Antwer potrebbe essere il punto di partenza per agire in modo preventivo.

 

«La nostra ricerca è così pionieristica che non sappiamo bene dove ci porterà», conclude Wuyts, «I nostri risultati contribuiscono solo ad avere una comprensione generale di quanto accade al cervello umano nello spazio. È fondamentale andare a fondo della questione utilizzando nuovi approcci d’indagine e tecniche diverse».

Fonti:

Frontiers in Neural Circuits (Febraury 2022): “Brain Connectometry Changes in Space Travelers After Long-Duration Spaceflight” by Andrei Doroshin, Stevem Jillings, Ben Jeurissen, Elena Tomilovskaya, Ekaterina Pochenkova, Inna Nosikova, Alena Rumishiskaya, Liudmila Litvinova, Ilya Rukavishnikov, Chloë De Laet, Catho Schoenmaekers, Jan Sijbers, Steven Laureys, Victor Petrovichev, Angelique Van Ombergen, Jitka Annen, Stefan Sunaert, Paul M. Parize, Valentin Sinitsyn, Peter zu Eulenburg, Karol Osipowicz and Floris L. Wuyts.

Lucy In The Sky: the most beautiful space mission ever is about to start! Pt. 1

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Jupiter is by far the largest and most massive planet in the solar system.

And as befits even the mightiest of gods, it surrounds itself with something of an impressive “court of miracles”, consisting of rings, 79 moons buzzing around it, comets and asteroids frequently sinking into its atmosphere, and… two swarms of asteroids preceding and following it in its orbit… the Trojan asteroids!

Illustration of the Lucy mission’s seven targets: the binary asteroid Patroclus/Menoetius, Eurybates, Orus, Leucus, Polymele, and the main belt asteroid Donald Johanson.
Credit: NASA Goddard Space Flight Center

Despite all that we have discovered about Jupiter, its moons, and even its wafer-thin rings, we know very little about the Trojans. Pioneers 10 and 11, the two Voyagers, Galileo and Juno have all returned a wealth of data on the Jovian system. Until now, however, the only way to study the Trojans has been from afar, with ground-based and Earth-orbiting telescopes.

But all that is about to change. In just a few days, a new Discovery-class robotic mission is scheduled to launch in 2021. The space probe will visit and explore six different Trojans of Jupiter and “in passing” also an asteroid in the main belt.

This artist’s concept depicts the Lucy spacecraft flying past the Trojan asteroid (617) Patroclus and its binary companion Menoetius. Lucy will be the first mission to explore Jupiter’s Trojan asteroids – ancient remnants of the outer solar system trapped in the giant planet’s orbit. Credit: NASA’s Goddard Space Flight Center

So little is known about the Trojans that the data that the probe will send us will surely revolutionize our understanding of their origin and that of the entire solar system.

We’re used to thinking that the objects that populate our solar system all revolve around the sun, each of them neatly in its own orbit. But there is one class of objects, the “Trojan” asteroids, that prefers to go their own way in good company.

The “Trojans” are small planets that in astronomy are immediately distinguished from all others. In fact, they revolve around the Sun occupying (without disturbing) the orbit of a planet, preceding it or following it along its celestial circuit; with the same period of revolution, but moved on average of an angle of about 60° ahead or behind it. This particular configuration tends to remain stable, in the sense that a slight advance or a slight delay, instead of accumulating over time, are compensated by a dynamic effect that tends to bring the planet “on track”. If this dynamic effect (discovered by Turin mathematician Giuseppe Lagrange in 1772) did not act, sooner or later the Trojan would come close to the planet to the point of receiving a gravitational push that would send it on a different orbit, a fate that sooner or later (over tens or hundreds of thousands of years), touches all asteroids that cross the orbits of the major planets, except for the Trojans.

Illustration of Jupiter and Trojan asteroids. Image credit: NASA/JPL-Caltech

But how long have we been aware of the existence of these unique hitchhikers in the sky?

Well… the German astronomer Max Wolf accidentally discovered the first Trojan – later called Achilles – with the help of the emerging photographic technique. It was February 22, 1906, and Wolf was just exploring the region corresponding to Jupiter’s Lagrangian Point L4. Eight months later, one of his students, August Kopff, discovered a second in L5, and in the following February a third, this time in L4.

Almost all asteroids at that time were given a feminine gender name taken from Roman and Greek mythology, but Austrian astronomer Johann Palisa suggested that all asteroids in Jupiter’s orbit be named after the heroes of the Trojan War. And the first three were in fact named Achilles, Patroclus, and Hector.

However, the number of discoveries was increasing, and to make order it was decided to give to asteroids discovered in the point L4 (the “Greek Field”), the names of Greek heroes, and the names of Trojan heroes to those found in L4 (the “Trojan Field”).

Credit: Roen Kelly

The curious fact is that Patroclus (in L5) and Hektor (in L4) were named before this convention took hold… so that each camp still houses an “enemy spy”… (Patroclus in the Trojan camp and Hektor in the Greek camp).

Meanwhile, the number of discoveries grew, yes, but very slowly. In 1961, more than half a century later, the Trojans amounted to just 14 members.

Then, as instrumentation progressed, the two regions on either side of Jupiter began to crowd together. Slowly at first, and then faster and faster. To date, about 9000 Trojans have been cataloged: two-thirds of the total in the “Greek Field”. A quantity so large as to make it impossible to continue to assign names taken from the Iliad. So the International Astronomical Union (the official Keeper of Space Names) allowed naming them after Olympic athletes.

A decision in our opinion very questionable.

By extension, asteroids that are located at points L4 and L5 of other planets in the Solar System are also called “Trojans”. At present, only for Mars and Neptune, 4 and 6 Trojans are known, respectively. To avoid confusion with those of Jupiter, the adjective Trojans should be followed by the name of the planet. When nothing is specified, it is implied that they are the Trojans of Jupiter.

The origin of the Trojans has always been a very controversial subject, and still is. The hypotheses are diverse. They range from the capture of fragments of a Jovian satellite destroyed by tidal interaction with the planet, to the entrapment of planetesimals orbiting near proto-Jupiter, to the capture of short-period comets.

However, according to the results of recent numerical simulations on the early evolutionary phases of the Solar System, the Trojans would not be bodies captured by Jupiter during its planetary accretion phase, but asteroids from the outer Solar System… captured and then trapped forever in the L4 and L5 Lagrangian points of the Jupiter-Sun system.

Planet formation and evolution models suggest that the Trojan asteroids are likely remnants of the same primordial material that formed the outer planets, and thus serve as time capsules from the birth of our solar system over 4 billion years ago. These primitive bodies hold vital clues to deciphering the history of our solar system and may even tell us about the origins of organic materials – and even life – on Earth.

That is to say that over billions of years Jupiter has collected and preserved, in two vaults sealed by its gravitational field, thousands of objects that can be considered the fossils of the solar system in formation.

For astronomers, it would be a dream to get their hands on those treasures, and finally, understand how it all began…

And that’s where Lucy comes in.

About 3.2 million years ago, in what is now the Awash River Valley in Ethiopia, a small bipedal creature ceased to live. It is not known how it happened… death took it on the banks of a swamp, probably from exhaustion. Fortunately, no predator touched its remains, so that the body, submerged in mud, earth, and volcanic dust, fossilized over the millennia to become rock. Then, in 1974, a team of paleoanthropologists led by Donald Johanson had the good fortune to bring to light about 40% of its skeleton.

Credit: Houston Museum of Natural Science

Never had such an ancient bipedal hominid been found, and our distant ancestor was recognized as the first representative of a new hominid species, Australopithecus afarensis, becoming the most famous pre-human fossil in history.

Her scientific name is AL 288-1, but everyone knows her as Lucy. A name that comes from the equally famous Beatles song, , which Johanson’s team was listening to in camp the night of the discovery.

Over the years, Lucy has proven to be a veritable mine of information about the physical constitution of the hominids of that period, helping us to reconstruct the evolutionary history of our species.

And in the same way, a probe bearing her name and about to be launched in these very days will attempt to wrest the secrets of the formation of the solar system from fossils of another kind: the Trojans of Jupiter!

To be continued …

Vigil, la missione che ci proteggerà dal Sole

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Ha un nome tutto nuovo la prossima missione dell’ESA, un nome che parla proprio del suo obiettivo: vegliare sulla Terra e avvisarci dell’arrivo di tempeste solari potenzialmente dannose

È appena stata rinominata “Vigil” la missione dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA), precedentemente nota come Lagrange, incaricata di monitorare il Sole e allertarci delle variazioni inattese della sua attività.

Lo scopo? Quello di proteggere infrastrutture terrestri, satelliti ed esploratori spaziali. Se la cercate, la troverete nella sezione “Safety and security” del sito dell’ESA.

Un nome evocativo

La notizia di alcuni giorni fa, dicevamo, è che la missione ha un nuovo nome, scelto attraverso un concorso internazionale.

Vigil” ha derivazione latina e significa – nomen omenfare la guardia, presidiare. Vediamo perché.

Dopo il lancio previsto per il 2025, Vigil stazionerà in uno dei cinque punti lagrangiani del sistema Terra-Sole, in cui l’equilibrio è garantito da un bilanciamento dell’attrazione gravitazionale dei due corpi. In particolare, la missione opererà in L5, a circa 150 milioni di chilometri di distanza dal nostro pianeta.

 

«Vigil si troverà in una posizione particolare, uno dei punti di equilibrio tra la Terra e il Sole in cui è possibile posizionare un satellite in orbita: i cosiddetti punti “Lagrangiani” (dal nome del matematico e astronomo Lagrange che per primo li identificò)», ci spiega Alessandro Bemporad, astronomo dell’INAF di Torino esperto di fisica del Sole. «Attualmente nessun satellite orbita in questa posizione che si trova lungo l’eclittica, ma spostata indietro di circa 60 gradi rispetto alla congiungente Terra-Sole».

Il Sole emette intense radiazioni in tutto il Sistema solare e, non di rado, è protagonista di esplosioni di grandi quantità di materiale energetico che viene eiettato nello spazio in ogni direzione, causando i fenomeni che gli astronomi chiamano Space weather (o meteorologia spaziale).

Parliamo di brillamenti solari, che si originano da regioni attive e visibili (come le macchie solari) e rilasciano grandissime quantità di energia lungo tutto lo spettro elettromagnetico, dalle basse frequenze delle onde radio, alla luce visibile, fino alle energie più alte dei raggi X e gamma. Oppure anche espulsioni di massa coronale, che possono scagliare miliardi di tonnellate di materia nello spazio a velocità che raggiungono i 3000 km/s.

 

Una vigile sentinella

Quando queste componenti delle tempeste solari sono dirette verso la Terra, possono interagire con la magnetosfera terrestre, dando origine – ad esempio – alle aurore polari. Non solo, possono creare disturbi o interruzioni dell’attività dei satelliti, inficiando strutture come reti elettriche, i servizi di navigazione aerea e marittima, i trasporti, il meteo e le telecomunicazioni. Non da ultimo, quantità ingenti di radiazioni possono essere dannose per gli astronauti in orbita sulla Stazione Spaziale Internazionale, oggi, e sulla Luna un domani.

«Da questa posizione particolare sarà possibile monitorare la formazione di nuove macchie solari e vedere le regioni in cui sorgono eruzioni solari 4-5 giorni prima che queste, con la rotazione del Sole, si rivolgano verso la Terra» spiega Bemporad. «Inoltre, quando si verificherà un’eruzione, da questa posizione sarà possibile seguirne la propagazione interplanetaria verso la Terra. Grazie ai dati forniti da questa sonda miglioreremo quindi le nostre capacità di previsione delle eruzioni solari prima che si verifichino e anche le stime del tempo di propagazione delle stesse, prevedendone l’arrivo sulla magnetosfera terrestre e quindi la possibile induzione di tempeste geomagnetiche».

Attualmente, gli strumenti che monitorano H24 il Sole sono in grado di predire possibili eruzioni solari solo poche ore a ridosso del fenomeno.

«Con le attuali conoscenze non è possibile dire “se e quando” un’eruzione solare avverrà: possiamo solo stimare la probabilità che questo avvenga entro le prossime 24 ore» conclude il ricercatore. «L’affidabilità di questa previsione migliorerà notevolmente se potremo seguire determinate regioni solari per più di una settimana, perché avremo più informazioni sulla loro evoluzione. A livello pratico queste previsioni aiuteranno moltissimo a prevenire effetti di interesse per la meteorologia spaziale. È giusto di pochi giorni fa la notizia della perdita di una quarantina di satelliti Starlink a causa dell’attività solare, evento che poteva essere evitato avendo a disposizione previsioni migliori. Altri effetti importanti sono, ad esempio, il danneggiamento anche permanente di satelliti per telecomunicazioni e GPS, il disturbo delle trasmissioni radio, della durata anche di giorni, e l’arrivo di particelle, sorgenti di radiazioni pericolose non solo per gli astronauti, ma anche per il personale di bordo degli aerei intercontinentali».

Crediti immagine: ESA/A. Baker

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Solar Orbiter: giganti eruzioni solari

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La sonda ESA/NASA Solar Orbiter ha ottenuto le immagini della più grande eruzione solare mai osservata all’interno del disco solare.
Immagine dell’eruzione solare scattata dalle telecamere di Solar Orbiter. Credit:ESA

Questi eventi, noti come “protuberanze solari”, consistono in grandi strutture di linee di campo magnetico aggrovigliate che sostengono dense concentrazioni di plasma sospese sopra la superficie del Sole, assumendo a volte la forma di giganteschi anelli. Si associano ad esplosioni di massa coronale che, se dirette verso la Terra, possono provocare intense tempeste geomagnetiche.

Le spettacolari immagini di Solar Orbiter risalgono al 15 febbraio scorso, e l’eruzione si è estesa per milioni di chilometri nello spazio. Fortunatamente, l’esplosione non era puntata in direzione del nostro pianeta. La sonda SOHO che sta monitorando il plasma espulso conferma come lo stesso si stia completamente muovendo verso un’altra direzione.

Immagini di SOHO LASCO C2 . Il disco oscuro rappresenta il disco solare da cui fuoriescono i bagliori circostanti. Credit: ESA

Solar Orbiter ha raccolto questi incredibili dati tramite un strumento, chiamato “Full Sun Imager” (FSI) dell’Extreme Ultraviolet Imager (EUI). FSI è stato progettato per scandagliare nella sua interezza il disco solare durante i passaggi ravvicinati della sonda europea intorno al Sole. Il prossimo 26 marzo, il veicolo spaziale passerà così vicino alla nostra stella, che il Sole occuperà una porzione ancora più ampia del campo visivo del telescopio. Fino a quel momento però, FSI può ancora avere una grande visuale del disco solare, per così poter catturare dettagli fino a circa 3,5 milioni di km, equivalenti a cinque volte il raggio del Sole.

Quanto osservato da Solar Orbiter permette agli astronomi di studiare in tempo reale i fenomeni del disco solare. Altre missioni spaziali stanno ammirando l’evento, oltre il telescopio SOHO e la sonda Parker Solar Probe della NASA che nei prossimi giorni, eseguiranno osservazioni congiunte del disco solare.

Immagine ottenuta da FSI. Il Full Sun Imager (FSI) dell’Extreme Ultraviolet Imager (EUI) a bordo della navicella Solar Orbiter, si vede il disco solare e lo spazio circostante per circa 3,5 milioni di chilometri. Credit: ESA

Sebbene questo evento non abbia causato un’esplosione di particelle pericolose verso la Terra, fenomeni simili ci devono ricordare quanto sia imprevedibile la natura del Sole, e quanto sia importante comprendere e monitorare il comportamento della nostra stella. Future missioni di meteorologia spaziale, come ESA Vigil, forniranno informazioni utili per proteggere meglio il nostro pianeta natale.

Fonti:

Release:https://www.esa.int/Science_Exploration/Space_Science/Solar_Orbiter/Giant_solar_eruption_seen_by_Solar_Orbiter

Maura Tombelli e la vittoria del Gruppo Astrofili Montelupo – Shoemaker NEO Grant 2021

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Maura Tombelli e Fabrizio Bernardi del GrAM (Gruppo Astrofili Montelupo) e dell’Osservatorio Beppe Forti vincitori del Shoemaker NEO Grant 2021

La testimonianza di Maura Tombelli per Coelum Astronomia

Un riconoscimento prestigioso per gli astrofili del GrAMGruppo Astrofili Montelupo Fiorentino. Sono infatti tra i vincitori del Shoemaker NEO Grant 2021, indetto dalla Planetary Society. Il premio internazionale assegnato agli astrofili impegnati a cercare, tracciare e caratterizzare i NEO, ovvero gli asteroidi (e oggetti celesti) che orbitano vicino alla Terra.

Coelum Astronomia ha intervistato Maura Tombelli, astrofila con all’attivo la scoperta di ben 199 asteroidi, titolare del premio insieme a Fabrizio Bernardi.

Buongiorno Maura. Innanzitutto i nostri più sinceri complimenti a lei, a Fabrizio Bernardi e a tutti i collaboratori del GrAM! Mi auguro di non interrompere nessun lavoro al momento.

Buongiorno a voi! Vi ringrazio e assolutamente nessun disturbo: in questi giorni qua [a Montelupo Fiorentino, ndr] è nuvoloso, poi in queste notti a cavallo della Luna piena abbiamo potuto far poco… sa, di solito gli astrofili si riposano quando c’è Luna piena!

Ci parla del Premio? In cosa consiste e come si accede alle candidature?

La domanda di candidatura è stata fatta quasi per “scherzo”: nel senso che non credevo saremo stati scelti! Non avevamo mai provato a far domanda negli anni passati perché l’Osservatorio era ancora da finire, ma quest’anno (il 2021) abbiamo deciso di tentare. Siamo stati selezionati perché è stato riconosciuto il nostro grande lavoro: ci occupiamo infatti principalmente dei follow up dei NEO – Near Earth Objects e il Premio è rivolto agli astrofili che hanno bisogno di implementare la loro strumentazione per svolgere al meglio questo lavoro di ricerca. Con il GrAM abbiamo svolto molte ricerche, supportati naturalmente da professionisti: il nostro referente scientifico è Fabrizio Bernardi cofondatore di SpaceDyS, azienda italiana che fornisce servizi e software per le Agenzie Spaziali e l’industria aerospaziale. In questa azienda si occupano anche di calcolare le orbite asteroidali, verificando se possano rappresentare un pericolo per la Terra. Ogni giorno alle 17, all’Osservatorio Beppe Forti riceviamo la Priority List stilata dalla SpaceDys per controllare a nostra volta questi asteroidi.

Fabrizio Bernardi è l’altro nome che, assieme a lei, viene menzionato tra i vincitori del Premio.

Fabrizio è un amico, prima ancora che un collaboratore. Ci siamo conosciuti quando era ancora uno studente di astronomia, all’Osservatorio di Campo Imperatore. Poi ha lavorato per molti anni alle Hawaii, al telescopio Subaru di Mauna Kea, e ho avuto la fortuna di andare a trovarlo e lavorare con lui anche là, cementando la nostra amicizia. Fabrizio ci sta supportando molto e collabora strettamente con il GrAM.

Al GrAM sono stati assegnati 13 mila dollari. Cosa si potrà realizzare con questa cifra?

Con la somma del Premio acquisteremo una nuova camera con sensore CCD più grande, per consentire un campo visivo molto più ampio (40×40 arcominuti). Finora coprivamo un campo molto più ristretto; gli asteroidi pericolosi per la Terra si muovo velocemente sullo sfondo del cielo e ad attraversare questa porzione di cielo ci impiegano poco: con un campo più grande possiamo seguire meglio questi oggetti. Con una camera ad alta efficienza quantica sarà possibile catturare un maggior numero di fotoni e quindi catturare anche le magnitudini di oggetti più deboli.

I successi del Gruppo Astrofili di Montelupo Fiorentino non si arrestano. Ci parla di qualche numero?

In Italia siamo al secondo posto, subito dietro all’Osservatorio Schiapparelli, per lo studio dei NEO. Inoltre siamo sedicesimi a livello mondiale! Mi è arrivata proprio ieri la comunicazione. Non posso che esserne orgogliosa!

Un consiglio per tutti gli appassionati astrofili che vogliono avvicinarsi a questo mondo della “caccia agli asteroidi”?

Innanzitutto: l’unione fa la forza. Avvicinatevi ai gruppi astrofili della vostra zona. E poi: il campo dell’astronomia è pieno di cose da fare. A partire da osservare il cielo ed emozionarsi, fino a dare importanti contributi anche nel nostro piccolo. Ci sono tante cose che possono servire, oltre a monitorare i NEO, come anche lo studio delle stelle variabili. E poi le foto astronomiche, in grado di ricordarci la bellezza del nostro cielo.

Un sentito ringraziamento a Maura Tombelli e ancora complimenti a tutto il GrAM da parte di Coelum Astronomia!

1986: Non si esce vivi dagli anni ’80. Stavolta davvero.

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Oggi ci catapultiamo direttamente nel 1986. Sì, abbiamo scavallato la metà degli anni ’80, ma niente paura, c’è ancora tantissima carne al fuoco! Che dire di questo anno? Gli hacker, che ancora non sapevano di esserlo, diffusero il primo virus informatico al mondo il 9 gennaio, così, per cominciare bene l’anno.

Sull’altro lato informatico, quello buono invece, uscivano videogame leggendari come Arkanoid, Bubble bubble, The Legend of Zelda (si chiama LINK!) e quel monello ammazzavampiri di Castlevania. Il 1986 è anche l’anno di un fallimento epico, quello dello Space Shuttle Challenger che esplode nella fase di decollo fumando tutti e sette gli astronauti a bordo.

 

Mentre nelle fumetterie usciva per la prima volta Dylan Dog, una mucca impazziva, a causa di un prione, in un allevamento dell’Hampshire. Ve lo ricordate o avete rimosso? Non si mangiarono hamburger per mesi! Per continuare la serie di sventure, in aprile ci fu la catastrofe nucleare di Černobyl, quando uno dei quattro reattori della centrale termoelettrica nucleare Ucraina subì un surriscaldamento e il suo nucleo si fuse, facendo esplodere tutto e disseminando nell’ambiente materiali fortemente radioattivi. Pensate, l’intera popolazione della città e dintorni fu esposta nei primi 10 giorni a una radioattività 100 volte superiore a quella subita dagli abitanti di Hiroshima per lo scoppio della prima bomba atomica del 1945. Gli effetti nocivi si riscontrarono anche in gran parte dell’Europa centromeridionale.

Dicono che le comete portassero sventura. Ovviamente non è vero, ma nel 1986 ci fu il passaggio della cometa di Halley che ritornava alla minima distanza dalla Terra, a 63 milioni di km l’11 aprile. Il cinema non era da meno. Nelle sale uscivano Aliens, Critters e La Mosca. Tanto per rimanere in tema. Ma nonostante tutto il cosmo era sempre lì, ad attendere e guardare con compassione le nostre vicende, che rispetto all’anno prima diventavano via via sempre più imbarazzanti. Tuttavia per tenere su l’asticella, gli scienziati si davano da fare per apparire più fighi possibile e fare scoperte toghe. Certo, non avranno avuto lo stesso appeal di Maverick che quell’anno faceva sbavare miliardi di pulzelle e sognare di essere aviatori circa il 99.9% dei teenager, ma almeno ci provavano.

 

Nel 1986 infatti, alcuni scienziati scoprirono il moto d’insieme delle galassie prossime alla nostra Galassia. Le osservazioni, compiute da diversi astronomi utilizzando strumenti portati da veicoli spaziali, resero infatti possibile capire che il superammasso costituito dalla nostra Galassia e dalle galassie relativamente vicine aveva un moto apparentemente rettilineo e uniforme verso un punto preciso, situato nella costellazione della Croce del Sud. Ora sappiamo che lì c’è una grande concentrazione di massa, chiamata con molta fantasia, Grande Attrattore. Nello stesso anno, la sonda planetaria statunitense Voyager 2 sorvolò Urano, a soli 81500 km dalle nubi del pianeta e ricavando dettagliate mappe fotografiche dei 5 satelliti noti (e sì, Urano ha 5 satelliti): Miranda, Ariel (no, non la sirenetta), Umbriel, Titania e Oberon (il giovane mago) e ne scoprì 10 nuovi più piccoli. Last but not the least, fotografò dettagliatamente 10 degli anelli del pianeta e le sue nubi.

Il 1986 è l’anno in cui la stazione spaziale sovietica Mir venne messa in un’orbita quasi circolare a 233,5 km di quota, permettendole di percorrere 16 volte al giorno il giro del mondo, in modo da esplorare quasi tutta la Terra. La struttura era composta da una parte centrale e 6 moduli principali, per una lunghezza complessiva di 33 m, una larghezza di 27 m e una massa totale di 130 t, attrezzata in modo da potere ospitare fino a 6 astronauti di varie missioni, anche internazionali. Siccome i russi facevano le cose per durare nel tempo, la sua vita, prevista per soli 5 anni, si protrarrà per oltre 15, sino al marzo 2001. Che ne pensate? Anno tosto vero il 1986?

A presto raga, alla prossima volta!

Attenzione: rocce marziane fragili! Maneggiare con cura

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Studiare le rocce terrestri per aiutare il rover Perseverance con il suo lavoro su Marte

È Agosto 2021 e, con grande emozione, Perseverance sta per esaminare il suo primo campione di roccia estratto dal cratere Jezero.

Peccato che, di quel carotaggio, non rimanga che polvere. Perché?

Questa immagine scattata dal rover Perseverance della NASA il 6 agosto 2021, mostra il foro praticato in una roccia marziana in preparazione per il primo tentativo del rover di raccogliere un campione (Credits: NASA/JPL-Caltech)

Una bella domanda, visto che, al secondo tentativo, Perseverance è riuscito a raccogliere con successo un campione di roccia delle dimensioni di un gessetto, senza che questo si sbriciolasse.

 

credits NASA

Il team del JPL (il Jet Propulsion Laboratory della NASA) ha così concluso che la prima roccia che avevano scelto era così friabile che il trapano a percussione del rover probabilmente l’aveva polverizzata.

Quel primo campione di roccia, denominata Roubion, è subito divenuto oggetto di accurate indagini da parte dei ricercatori. Prima della partenza di Perseverance erano state testate dozzine di rocce di consistenza e composizione differenti e nessun tipo di queste era stata polverizzata in quel modo dal trapano in dotazione al rover.

È così che è iniziata la campagna esplorativa e una nuova serie di test su rocce terrestri per aiutare Perseverance con il suo lavoro su Marte.

Alla ricerca del “Roubion terrestre”

Ricreare le proprietà fisiche uniche di Roubion è la chiave della campagna di test.

«Tra tutte le rocce testate, Roubion è quella che ha mostrato prove evidenti di interazione con l’acqua. Motivo per cui si è sbriciolata sotto l’azione del trapano» spiega Ken Farley, geochimico del California Institute of Technology. Le rocce alterate dall’azione dell’acqua tendono infatti a disintegrarsi più facilmente: bisognerà imparare a maneggiarle con cura, in quanto sono molto preziose per la missione NASA.

Ricordiamo che Perseverance sta esplorando il cratere Jezero – un antico lago alimentato da un fiume – a caccia di segni di vita microscopica.

La campagna esplorativa presso la Ecological Reserve di Santa Margarita (Credits: NASA/JPL-Caltech)

Per trovare rocce terrestri simili al Roubion, ai ricercatori è stato concesso il permesso di cavare alcune rocce nella Ecological Reserve di Santa Margarita, a due ore di auto dal JPL. Dopo un bel lavoro di squadra per estrarre rocce di dimensioni sufficienti per diversi tipi di sperimentazione, queste sono state trasferite presso l’Extraterrestrial Materials Simulation Lab: una sorta di centro servizi che prepara i materiali per i test al JPL.

Sono state formate due squadre: un team ha lavorato con un trapano da costruzione – non da carotaggio – insieme ad altri strumenti, mentre un altro team ha utilizzato un trapano simile a quello in dotazione a Perseverance.

 

Sperimentando si impara

Le prove svolte sono state diverse, specialmente con il trapano simile a quello del rover. Gli ingegneri hanno modificato la velocità di percussione del trapano e il peso posizionato sulla punta. Hanno anche provato a perforare la roccia orizzontalmente anziché verticalmente, nel caso in cui l’accumulo di detriti fosse un fattore determinante. Hanno anche verificato che, riducendo la forza della percussione per evitare di polverizzare il campione, la punta del trapano non riusciva a penetrare la superficie. A questo punto è stato concluso che, nel caso in cui un campione di roccia dovesse resistere a percussioni più forti, questo significherebbe la sua interazione con l’acqua è stata minima.

Grazie a tutti questi test terrestri, finora Perseverance è riuscito a raccogliere con successo ben sei campioni di rocce altamente alterate dall’acqua. Le sperimentazioni su rocce terrestri continuano e gli ingegneri del JPL si tengono pronti a tutte le nuove sfide che si presenteranno!

 

 

Fonti

Testing Rocks on Earth to Help NASA’s Perseverance Work on Mars

 

 

 

 

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Quando i buchi neri giocano a nascondino

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Al centro della galassia Messier 77 (nota anche come NGC 1068), avvolto da una nube di polvere cosmica, sembra nascondersi un buco nero supermassiccio.

L’oggetto è stato individuato dal Very Large Telescope Interferometer (VLTI) dell’European Southern Observatory (ESO), e i primi risultati di queste osservazioni stanno dando l’opportunità agli astronomi di approfondire le ricerche sui “nuclei galattici attivi”, corpi celesti molto luminosi e assai misteriosi.

Immagine catturata con lo strumento MATISSE sul Very Large Telescope Interferometer dell’ESO, mostra la regione più interna della galassia attiva Messier 77. Il punto nero indica la posizione più probabile del buco nero, mentre le due ellissi mostrano l’estensione, vista in proiezione, dello spesso anello di polvere interno (tratteggiato) e del disco di polvere esteso. Credit:
ESO/Jaffe, Gámez-Rosas et al.

I nuclei galattici attivi (AGN) sono grandi fonti di energia alimentate da buchi neri supermassicci situati all’interno delle galassie. Questi buchi neri mangiano letteralmente grandi quantità di polvere e gas cosmici. Prima di essere divorato, questo materiale incomincia ad orbitare a spirale in direzione del buco nero, rilasciando grandi quantità di energia che tendono a far eclissare la luce di tutte le stelle.

 

L’interesse degli astronomi per gli AGN nasce negli anni ‘50, quando questi oggetti luminosi sono stati individuati per la prima volta. Oggi, un team di ricercatori dell’ESO, guidato da Violeta Gàmez Rosas dell’Università di Leiden nei Paesi Bassi, ha compiuto dei passi fondamentali verso la comprensione del loro funzionamento (i risultati sono stati pubblicati oggi su Nature).

Magnifico scatto del Very Large Telescope Interferometer (VLTI) della galassia spirale barrata Messier 77. Crediti: ESO

Esistono diversi tipi di AGN. Ad esempio, alcuni rilasciano esplosioni di onde radio, mentre altri brillano intensamente in luce visibile; altri ancora, come in Messier 77, risultano più attenuati. Nonostante queste differenze però, tutti gli AGN presentano la stessa struttura di base: un buco nero supermassiccio circondato da uno spesso anello di polvere (assunzione del “Modello Unificato dei nuclei galattici attivi”).

Secondo questo presupposto, le differenze presenti tra gli AGN dipendono dall’orientamento da cui gli astronomi osservano dalla Terra il buco nero e lo spesso anello di polveri. Ovvero, il tipo di nucleo galattico che vediamo dipende da quanto l’anello oscura il buco nero dal nostro punto di vista, in alcuni casi nascondendolo completamente.

Illustrazione artistica del nucleo galttico attivo di Messier 77. Credit:
ESO/M. Kornmesser e L. Calçada

In passato, gli scienziati hanno trovato delle prove a sostegno del Modello Unificato, tra cui ad esempio della polvere calda al centro di Messier 77. Nonostante questo però, rimane il dubbio se una simile polvere riscaldata possa celare del tutto un buco nero e quindi di conseguenza spiegare perché questo AGN brilla meno in luce visibile.

 

«La vera natura delle nubi di polvere cosmica e il loro ruolo come fonte d’alimentazione del buco nero sono questioni centrali nelle ricerche sugli AGN», spiega Gàmez Rosas, «Anche se il nostro singolo risultato ancora non può rispondere a tutte le domande, siamo riusciti a compiere uno step in più per contribuire alle ricerche che vanno avanti da decenni».

Le osservazioni sono effettuate grazie allo strumento MATISSE (Multi AperTure Mid-Infrared SpectroScopic Experiment) installato sull’VLTI nel deserto dell’Atacama. MATISSE combina la luce infrarossa raccolta da tutti e quattro i telescopi dell’ESO, usando una tecnica chiamata interferometria. In questo modo, gli scienziati hanno scansionato con un’alta risoluzione il centro di Messier 77, posto a 47 milioni di anni luce di distanza dalla Terra nella costellazione della Balena.

Grafico che mostra l’ubicazione della galassia attiva di Messier 77 nella costellazione della Balena. Credit: ESO, IAU and Sky & Telescope.

«MATISSE è in grado di vedere un’ampia gamma di lunghezze d’onda infrarosse, il che ci consente di vedere attraverso la polvere e di misurare con precisione le temperature», aggiunge il coautore dello studio Walter Jaffe, professore ordinario presso l’Università di Leiden, «Le immagini ottenute descrivono in dettaglio le variazioni di temperatura e l’assorbimento delle nubi di polvere intorno al buco nero».

 

Combinando quindi i cambiamenti nella temperatura della polvere (a circa 1200 °C) con le mappe di assorbimento, gli astronomi hanno costruito un quadro dettagliato della distribuzione della polvere e hanno individuato il punto in cui dovrebbe trovarsi il buco nero. La distribuzione della polvere nel centro di NGC 1068 sembra confermare il Modello Unificato.

«I nostri risultati dovrebbero portare ad una migliore comprensione del funzionamento interno degli AGN», conclude Gàmez Rosas, «Questi studi potrebbero anche aiutarci a capire meglio la storia della Via Lattea, che altrettanto ospita nel suo centro un buco nero supermassiccio».

Immagine della DSS (Digitized Sky Survey) che mostra la galassia a spirale Messier 77 e dintorni. Credit: NASA/ESA, Digitized Sjy Survey 2.

 

Bruno Lopez, Principal Investigator di MATISSE presso l’Observatoire de la Côte d’Azur di Nizza in Francia, conclude: «Messier 77 è un importante prototipo di AGN e un oggetto d’indagine interessantissimo sul quale concentrare il nostro progetto di ricerca, per ottimizzare MATISSE e altri strumenti all’avanguardia dell’ESO».

Fonti:

Release: https://www.eso.org/public/italy/news/eso2203/?lang

Nature (February 2022): “Thermal imaging of dust hiding the black hole in the Active Galaxy NGC 1068” (doi: 10.1038/s41586-021-04311-7).

L’avventurosa storia dei meteoriti ferrosi di Capo York – Prima Parte

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Come il fallimento di alcune spedizioni polari portò al rinvenimento di uno dei più grandi oggetti metallici mai caduti dal cielo.

La montagna di ferro degli Inuit

Risale forse a 10.000 anni addietro l’ingresso nell’atmosfera terrestre di un frammento di nucleo asteroidale, con massa stimata intorno a qualche centinaio di tonnellate, che si frantumò in atmosfera prima di cadere su un’area del diametro di circa 20 km presso Capo York in Groenlandia. In questa località, i sei più grandi meteoriti qui scoperti raggiungono complessivamente il peso di ben 58 tonnellate.

I meteoriti recuperati da Robert Peary a Capo York, esposti al pubblico in una sala dell’American Museum of Natural History di New York (http://lesinfosdelolo.free.fr/?p=120)

I primi saranno individuati dagli Eschimesi, insediatisi intorno all’anno 1000 d.C. in questa inospitale regione artica. Vivendo in completo isolamento da altre civiltà, trassero da essi il metallo utile per fabbricare rudimentali arpioni e coltelli.

Una delle prime persone a guidare l’attenzione degli esploratori europei verso queste strane pietre fu Zakaeus, un appartenente alla comunità Inuit, che nel 1817 salì di nascosto a bordo di una baleniera ormeggiata nella Disko Bay. Raggiunta la Scozia, il giovane clandestino imparò la lingua inglese, iniziò a dipingere e conobbe l’esploratore artico John Ross che l’anno seguente lo arruolò per la spedizione diretta a Thule: località scelta come base di partenza per cercare la rotta tra Oceano Atlantico e Oceano Pacifico. Il tanto agognato passaggio a nord-ovest, infatti, avrebbe permesso collegamenti molto più rapidi con la costa occidentale del continente americano.

La Groelandia

Giunto nelle sperdute terre ghiacciate della Groenlandia, Ross incontrò una tribù di Inuit che utilizzava dei piccoli utensili di ferro: un fatto assai strano perché nell’area non esistevano minerali contenenti quel metallo, ma soprattutto mancavano i mezzi e la tecnologia necessari a estrarlo.

Tramite l’interprete Zakaeus, l’esploratore apprese che arpioni e coltelli erano stati ottenuti martellando a freddo i frammenti prelevati da una fantomatica “montagna di ferro” che immaginò essere un meteorite.

Uno degli arpioni utilizzati dagli Eschimesi, con la parte metallica ottenuta martellando a freddo frammenti di un grande meteorite ferroso (https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/d/d5/Meteorite_iron_harpoon.jpg)

Le analisi eseguite su questi oggetti rivelarono elevati contenuti di nichel, elemento presente in concentrazioni piuttosto modeste nei minerali di origine terrestre. Questo confermò che le scorte metalliche degli Inuit provenivano dallo spazio.

Barattando pellicce con coltelli e arpioni portati dagli equipaggi delle baleniere, gli indigeni abbandonarono lo stretto riserbo a lungo mantenuto su tale argomento e Robert Peary riuscì a farsi accompagnare finalmente là dove si trovavano i meteoriti.

Un nucleo di ferro

I meteoriti ferrosi offrono un’opportunità unica per esaminare il nucleo di un grande asteroide differenziato: ossia di un corpo roccioso che, quando si trovava ancora allo stato fuso, ha subito una separazione legata alla differente densità dei costituenti.

Gli urti subiti da un grande asteroide, cui si riferisce questa ricostruzione di fantasia, portano alla luce il suo nucleo dal quale si possono staccare meteoriti ferrosi come quelli di Capo York (credits NASA/JPL-Caltech)

Questo processo ha portato alla formazione di un nucleo composto principalmente da ferro e nichel, circondato da un guscio costituito in prevalenza da silicati di metalli che, avvicinandosi alla superficie, sono via via più leggeri.

Gli innumerevoli urti intervenuti al termine della solidificazione, inoltre, intaccano sempre più in profondità il corpo celeste,  generando così la grande varietà di meteoriti conosciuta.

Una moltitudine di frammenti vaga nello spazio e alcuni entrano nell’atmosfera terrestre, ma le sollecitazioni termiche e meccaniche ne riducono drasticamente le dimensioni prima di toccare eventualmente il suolo.

A parità di dimensioni iniziali, però, i meteoriti ferrosi hanno normalmente una maggiore coesione rispetto a tutti gli altri e ciò spiega perché spetta proprio a loro il primato in termini di grandezza.

Il più importante rappresentante di questa categoria oggi in cattività, ossia sistemato in un luogo molto lontano da quello di arrivo, si trova insieme ad alcuni compagni di viaggio nell’apposita sala realizzata all’interno dell’American Museum of Natural History di New York.

La seconda parte del racconto, legata al ritrovamento e successivo trasferimento in America dei meteoriti di Capo York, sarà pubblicata sul nostro sito (www.coelum.com) in data 21/02

Un po’ di storia – meteoriti, tesori scesi dal cielo

Nella storia della civiltà l’impiego dei metalli scandì alcune tappe fondamentali come l’Età del bronzo (iniziata intorno al IV millennio a.C.) e l’Età del ferro a partire dal XII secolo a.C. nel Mediterraneo Orientale.

La rarità del ferro metallico in natura contribuì a mantenere ben separati questi periodi e rese necessario estendere allo spazio interplanetario l’origine delle leghe ferrose impiegate da alcune antiche civiltà, risalenti all’età del bronzo, per realizzare manufatti destinati all’uso rituale.

Sumeri e Ittiti, a conferma di tale provenienza, chiamavano il ferro “metallo del cielo”, mentre gli Assiri usavano il termine “metallo di dio” e gli Egizifulmine del cielo”. Ulteriori indicazioni giungono da un testo ittita dove si precisa che, se l’oro proviene da Birununda e il rame da Taggasta, il ferro arriva dal cielo.

In effetti, confrontando la composizione dei manufatti rinvenuti dagli archeologi negli scavi con quella dei meteoriti ferrosi, si trova una tale somiglianza da spiegare la loro apparente incongruenza storica. La collana di pietre preziose e oro trovata nel 1911 a sud del Cairo, in una tomba risalente al 3200 a.C. circa, per rammentare solo uno degli esempi più noti, ha delle perline di composizione simile a quella dei meteoriti metallici.

La lama del pugnale trovato nella sepoltura di Tutankhamon fu ricavata da un meteorite ferroso (www.history.com)

Riconduce alla medesima provenienza la lega usata per forgiare il pugnale di Tutankhamon, faraone d’Egitto nel XIV secolo a.C., dove, oltre al ferro, si trova un 10% circa di nichel e tracce di cobalto. Le decorazioni eseguite sulla lama, inoltre, rivelano la grande maestria degli artigiani nel lavorare questo metallo all’epoca molto più prezioso dell’oro e quindi destinato alla realizzazione di oggetti per i corredi funerari di personaggi molto importanti.

L’usanza di impiegare i meteoriti metallici per gioielli oppure strumenti rituali fu diffusa anche all’esterno dell’area mediterranea, come testimoniano i frammenti di collana realizzati dai nativi americani che tra il 100 a.C. e il 400 d.C. abitavano i territori compresi nell’attuale stato dell’Illinois. Recenti indagini correlano questa collana con il meteorite Anocka caduto nel Minnesota, a oltre 700 km di distanza, confermando l’importante ruolo giocato dal metallo arrivato dal cielo nelle credenze magiche delle antiche popolazioni.

Si discosta sostanzialmente da ogni ritualità, invece, l’impiego pratico dei meteoriti ferrosi di Capo York che, per secoli, gli Inuit della Groenlandia destinarono alla costruzione di arpioni e coltelli indispensabili a sopravvivere nelle proibitive condizioni ambientali del loro mondo ghiacciato.

 

Psyche: poco ferro da queste parti

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Il gigante di ferro (16) Psyche sembra non essere così ricco di metallo come in realtà si pensava.

Infatti, uno studio condotto della Brown University ha rilevato che all’interno dell’asteroide ci sarebbe più roccia di quanto si fosse ipotizzato in precedenza.

(16) Psyche orbita intorno al Sole nella fascia di asteroidi della Fascia Principale tra Marte e Giove, ed è il più grande degli asteroidi di tipo M, i quali sono composti principalmente da metalli, specialmente ferro e nichel (per sapere di più sugli asteroidi del nostro Sistema Solare, andate a dare un’occhiata anche alla rubrica “Mondi in miniatura – Asteroidi, Febbraio 2022“).

Per ricavare informazioni riguardo la composizione degli asteroidi, gli astronomi studiano la luce riflessa di questi corpi. Si ipotizzava che (16)Psyche potesse essere il nucleo ferroso di un pianeta primordiale che avesse perso il mantello e la crosta rocciosa a seguito di un’antica collisione.

Illustrazione artistica della superficie metallica dell’asteroide Psyche. Credit: NASA
Tuttavia, le analisi sulla massa e la densità di Psyche raccontano una storia diversa.

La modalità con con cui la gravità dell’asteroide trascina i corpi vicini suggerisce che la massa di questo asteroide sia molto meno densa rispetto a un oggetto composto interamente di ferro. Perciò, se (16)Psyche fosse davvero tutto di metallo, in questo caso dovrebbe essere altamente poroso. Un po’ come una spugnetta di lana d’acciaio!

 

«Con questo studio volevamo vedere se fosse possibile per un ammasso di ferro come (16)Psyche mantenere una porosità vicina al 50%», afferma Fiona Nichols-Fleming, autrice dello studio (pubblicato sul JGR: Planets) e dottoranda alla Brown University, «Quello che però abbiamo scoperto è che sembra essere molto improbabile».

Il team di scienziati ha ideato un modello di calcolo, basato sulle proprietà termiche note del ferro metallico, per stimare come si sarebbe evoluta nel tempo la porosità dell’asteroide. Il modello ha mostrato che per mantenere la sua struttura “bucherellata”, la temperatura interna (16)Psyche dovrebbe scendere al di sotto di 800 Kelvin già poco dopo la sua formazione. Con temperature superiori, infatti, il ferro sarebbe così malleabile che la gravità stessa dell’asteroide potrebbe far collassare la maggior parte degli spazi presenti tra i pori, compattandolo. I ricercatori affermano anche che sia estremamente improbabile che un corpo delle dimensioni di (16)Psyche possa essersi raffreddato così rapidamente. Inoltre, qualsiasi altro evento, come un enorme collisione con un altro oggetto, avrebbe potuto riscaldare facilmente l’asteroide al di sopra di 800 K.

Illustrazione artistica di un mantello roccioso di un asteroide. Credit: NASA
I risultati quindi suggeriscono che l’asteroide non è un corpo poroso interamente composto di ferro. È possibile piuttosto che ci sia una componente rocciosa nascosta che ne riduce la densità.

Ma allora domanda sorge spontanea: perché la sua superficie sembra essere metallica se vista dalla Terra?

«Ci sono poche possibili spiegazioni», commenta Nicholos-Fleming, «Una di queste potrebbe essere la presenza di vulcani che eruttano ferro».

 

E’ possibile che su (16)Psyche si siano verificati dei fenomeni vulcanici, durante i quali il materiale roccioso si sia differenziato dal ferro. Questa intensa attività vulcanica potrebbe aver portato in superficie grandi quantità di ferro sopra alla mantello roccioso.

Qualunque sia la soluzione al mistero, gli scienziati avranno presto un quadro più chiaro sui segreti di (16)Psyche, visto che entro la fine di questo anno, la NASA prevede di lanciare una sonda che si incontrerà con l’asteroide dopo un viaggio di quattro anni.

 

«Questa nuova missione sarà qualcosa di entusiasmante: (16)Psyche è un oggetto così bizzarro», conclude Nicholos-Fleming, «Quindi qualsiasi cosa scoprirà la missione sarà un nuovo punto di partenza per ampliare le ricerche sul Sistema Solare».

Volete saperne di più su Psyche? Il gigante di ferro torna online a Marzo con la rubrica di Coelum “Mondi in miniatura – Asteroidi di Marzo 2022”.

Fonti:

Release: https://www.brown.edu/news/2022-02-14/psyche

Advancing Earth and Space Science (February 2022):Porosity Evolution in Metallic Asteroids: Implications for the Origin and Thermal History of Asteroid 16 Psyche” by Fiona Nichols-Fleming,
Alexander J. Evans, Brandon C. Johnson, Michael M. Sori.

Bernardinelli-Bernstein: la cometa più grande mai osservata

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La cometa Bernardinelli-Bernstein spodesta dal primo posto delle comete più grandi mai osservate la rivale Hale Bopp, scoperta nel 1995 con sigla 2014 UN271, infatti sembra avere un diametro di ben 137 km!

Gli astronomi Pedro Bernardinelli, studioso della University of Washington, e Gary Bernstein, cosmologo della University of Pennsylvania, la individuarono nel set di dati del Dark Energy Survey, dai loro cognomi il nome della cometa, e le prime immagini risalgono all’anno 2014, ma all’epoca la cometa era troppo distante per essere misurata adeguatamente, ed avere quindi una stima corretta delle sue reali dimensioni.

Immagine della cometa C/2014 UN271 (Bernardinelli-Bernstein) scattata dal telescopio da 1 m dell’Osservatorio Las Cumbres a Sutherland, in Sud Africa, il 22 giugno 2021. Credit: progetto LOOK, Osservatorio Las Cumbres.

L’oggetto proviene dalla Nube di Oort, ai confini del Sistema Solare e la sua orbita impiega 5,5 milioni di anni per essere completata. Bernardinelli-Bernstein sta viaggiando in questo momento in direzione del nostro Sole e si prevede che raggiungerà il punto più vicino alla Terra nel 2031.

Il team di ricerca, che ha misurato le dimensioni della cometa, è guidato da Emmanuel Lellouch, astronomo dell’Observatoire de Paris, e per le analisi sono stati sfruttati i dati catturati dall’Atacama Large Millimeter Array in Sud America, risalenti all’agosto 2021, quando la cometa si trovava a 19,6 AU di distanza (AU è la distanza media tra la Terra e il Sole crca 150 milioni di km). Per calcolarne il diametro gli astronomi si sono concentrati sulle radiazioni a microonde proveniente dalla massa dell’oggetto.

 

«E’ davvero emozionante riuscire a misurare una cometa così distante» dichiara Emmanuel Lellouch, «Quando Bernardinelli-Bernstein si avvicinerà alla Terra, probabilmente si ridurrà significativamente. Infatti, man mano che una cometa si avvicina al Sole, la sua coda di polvere e gas si espande, mentre il suo corpo principale si restringe».

In futuro la cometa non sarà visibile ad occhio nudo, ma studiandone le caratteristiche gli scienziati si aspettano di trovare indizi per conoscere meglio la Nube di Oort. Il team prevede di usare i telescopi dell’Atacama per investigare la composizione chimica, la temperatura e la forma della cometa durante il suo passaggio.

Fonti:

Astronomy & Astrophysics (January 2022): Size and albedo of the largest detected Oort-cloud object: comet C/2014 UN 271” (Bernardinelli-Bernstein) by E. Lellouch, R. Moreno, D. Bockelée-Morvan, N. Biver, P. Santos-Sanz.

STARLINK: lo spettacolo prima della fine

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… dall’osservazione diretta
di Claudio Pra

Serata del 3 febbraio 2022

Sto seguendo sul canale di Space X il lancio della missione STARLINK G4-7, più volte rimandata nelle giornate precedenti. Il Falcon 9 si solleva e in breve si avvia verso l’orbita prevista. Fra poche ore, un po’ prima dell’alba, mi alzerò per guardare direttamente la cinquantina di STARLINK rilasciati nello spazio.

So infatti, per esperienza, che a poche ore dal lancio danno il massimo spettacolo perché vicinissimi fra loro, indistinguibili singolarmente, ma visibili globalmente come una scia luminosa. Odiati a ragione da astronomi e astrofili sono però affascinanti da osservare, specialmente in determinate condizioni, e così, alle 5:28 della mattina successiva, sono sotto casa con lo sguardo verso Albireo (la bellissima stella doppia del Cigno) nelle cui vicinanze sarebbero dovuti comparire i satelliti.

 

Mi aspetto come in altri casi una scia eterea e invece escono improvvisamente dall’ombra terrestre, luminosissimi, formando una scia compatta come mai avevo visto prima d’ora e che dà vita ad un treno celeste che si dirige verso l’orizzonte di nordest. Dopo un minuto circa scompaiono dietro il crinale di una montagna.

Bellissimo davvero!

Ho anche scattato una foto che li incornicia in un degno scenario. Euforico, decido di osservarli anche il giorno seguente, quando sarebbero dovuti risultare ancora piuttosto compatti, meno luminosi, ma in grado di dare ancora spettacolo.

Così sabato 5 febbraio verso le 5:30 sono ancora sotto il cielo in attesa dell’evento.

Arriva l’ora prevista e stavolta non avvisto nulla. Aspetto con pazienza ma nessuna scia luminosa, compatta o eterea compare in cielo. Strano, stranissimo, penso! Mi arriva un messaggino dell’amico Antonello, impegnato a sua volta nell’osservazione da un altro luogo. Mi scrive che non ha visto nulla e mi chiede se io ho visto invece qualcosa. Rispondo di no e concordiamo che la cosa è inspiegabile. Me ne faccio comunque una ragione dato che ho ancora negli occhi quel trenino luminoso, quasi magico, sicuramente indimenticabile del giorno precedente.

 

Solo qualche giorno dopo leggo la notizia della tempesta geomagnetica che ha colpito quel trenino facendolo deragliare, con il rientro e la distruzione in atmosfera dei suoi vagoni. Quel inutile attesa del secondo passaggio ora ha una spiegazione e acquista valore l’osservazione di quel primo e unico spettacolare transito, il più bello tra quelli che ho avuto la fortuna di osservare finora.

Evento unico ed inaspettato, che chissà quando ricapiterà!

Incontri con l’autore: in diretta con Alessandro Mura

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Appuntamento il 16 Febbraio alle 21:15

In diretta con Coelum: Alessandro Mura, vice responsabile dello strumento JIRAM, spettrometro a bordo della missione NASA-JUNO.

Alessandro Mura è autore dell’articolo “JUNO – Giunone scruta sotto le nubi di Giove” pubblicato sul n. 254 di Coelum Astronomia. Una diretta imperdibile! Un’occasione per sbirciare sotto le nubi del nostro gigante gassoso.

Sarà possibile seguire la diretta sui tutti i nostri canali social!

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Parker Solar Probe fotografa Venere

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L’obiettivo della missione Parker Solar Probe si sa è quello di indagare la composizione dell’atmosfera solare, nella sua traiettoria però la sonda si è avvicinata anche più volte al caldissimo pianeta Venere e dalle immagini catturate durante il fly-by del 2021 sono arrivate piacevoli sorprese. L’analisi delle indagini è stata poi pubblicata mercoledì 9 febbraio sulla rivista scientifica Geophysical Research Letters.

Immagine scattata dalla sonda Parker Solar Probe, che ha sorvolato Venere per la quarta volta nel febbraio 2021. Le telecamere di WISPR hanno catturato queste immagini, che mostrano la superficie notturna del pianeta. Credit: NASA/APL/NRL

«Siamo entusiasti delle informazioni fornite finora da Parker Solar Probe», afferma Nicola Fox, direttore della divisione per la eliofisica presso la NASA, «Parker continua a sorprenderci e siamo davvero ottimisti sul fatto che queste nuove analisi possono far avanzare la ricerca su Venere in modi inaspettati».

 

Infatti, immagini della superficie del gemello della Terra possono aiutare gli scienziati a comprendere meglio la sua geologia e l’evoluzione del pianeta.

«Venere è il terzo oggetto più luminoso che possiamo osservare nel cielo, e fino a poco tempo fa sapevamo ben poco di cosa ci fosse al di sotto della spessa atmosfera», aggiunge Brian Wood, autore principale dello studio e fisico presso il Naval Research Laboratory di Washington, DC. «Ora finalmente possiamo ammirare questa superficie misteriosa in una lunghezza d’onda visibile».

WISPR: strumentazione dai super-poteri

Wide-Field Imager ha scattato le prime immagini venusiane nel luglio del 2020, quando la sonda Parker ha intrapreso il suo terzo sorvolo sul pianeta. WISPR è stato ideato per catturare i dettagli del vento solare, ed alcuni scienziati hanno creduto che lo strumento fosse anche in grado di analizzare la sommità delle nubi di Venere.

Immagine di Venere in luce visibile del luglio 2020. Lo strumento WISPR ha rilevato un bordo luminoso attorno al pianeta, che è stata interpretata come luce emessa da atomi di ossigeno negli alti strati dell’atmosfera. Al centro dell’immagine si presenta un’ombra scura che corrisponde alla regione continentale dell’Aphrodite Terra. Mentre le scie luminose in primo piano, sono in genere causate da una combinazione di particelle cariche – chiamate raggi cosmici – , generate dalla luce solare riflessa da granelli di polvere spaziale. Credit: NASA/APL/NRL

«Inizialmente, l’obiettivo era quello di misurare la velocità delle nuvole», dichiara lo scienziato responsabile del progetto WISPR Angelos Vourlidas e ricercatore presso il Johns Hopkins University Applied Physics Laboratory, «Ma WISPR è andato oltre, regalandoci le prime immagini del suolo di Venere».

Il risultato è stato talmente sorprendente che gli astronomi hanno deciso di riaccendere le telecamere al quarto passaggio di Parker nel febbraio 2021.

Ferro incandescente

Sfruttando le lunghezze d’onde che sconfinano nel vicino infrarosso, e concentrando le telecamere di Wide-Field Imager durante la fase notturna del pianeta, è stato possibile osservare che la superfice di Venere è brillante ed incandescente, come un pezzo di ferro appena uscito da una fucina.

Immagine ottenuta dai radar della missione Magellan compiuta negli anni ’90. Questi scatti hanno fornito la prima visione globale di ciò che era al di sotto delle spesse nubi venusiane. Credit: Magellan Team/JPL/USGS

«Anche di notte la superficie di Venere si trova a circa 860 °C», aggiunge Wood, «Fa così caldo che la superficie rocciosa è visibilmente luminosa».

WISPR ha raccolto una gamma di lunghezze d’onda da 470 nm a 800 nm. Parte della luce visibile individuata è il vicino infrarosso: una lunghezza d’onda che non possiamo vedere, ma ci permette di misurare il calore del suolo venusiano.

Venere sotto una nuova luce.

Le prime immagini della superficie di Venere risalgono al 1975, quando il lander Venera 9 è atterrato sul pianeta. Da quel momento negli anni ’90 sono state costruite delle mappe del suolo sfruttando dei radar, mentre la navicella spaziale Akatsuki della JAXA ha ottenuto delle immagini ad infrarosso nel 2016. Ora anche gli scatti di Parker si aggiungono a questi incredibili successi.

Immagini della superficie di Venere riprese dal programma Venera dell’Unione Sovietica negli anni ’70 e ’80. Queste foto sono state catturate dalle navicelle spaziali Venera 9 e 10. Credit: NASA/NSSDCA/Courtesy of the USSR

Le telecamere di WISPR ci hanno fornito ulteriori dettagli della regione continentale di Aphrodite Terra, dell’altopiano di Tellus Regio e le pianure di Aino Planitia. Combinando queste immagini con quelle ottenute nel passato, gli scienziati possono analizzare con più precisione la composizione mineralogica di Venere: informazioni utilissime per comprendere l’evoluzione del pianeta. Venere si è formato assieme alla Terra e a Marte, ma oggi il pianeta risulta completamente diverso dagli altri due fratelli rocciosi. Si sospetta che il vulcanismo venusiano abbia avuto un ruolo fondamentale nel plasmare la superficie e contribuire alla densa atmosfera. Le immagini di Parker potrebbero svelare nuovi misteri su questo antico processo.

 

Il futuro della ricerca su Venere

I recenti successi di Parker Solar Probe stanno ispirando altre missioni volte ad approfondire la ricerca su Venere. L’ESA e la NASA già raccolgono molti dati tramite le missioni BepiColombo e Solar Orbiter.

Per la fine del 2022 sono anche diretti verso Venere i veicoli spaziali come DAVINCI e VERITAS. Queste missioni aiuteranno a campionare con più precisione la densa atmosfera venusiana, oltre a favorire il rimappaggio della superficie con una risoluzione più elevata.

 

«Le prossime missioni su Venere avranno la necessità di rispondere alla domanda: perché la superficie venusiana è così inospitale?», afferma Lori Glaze, direttore della Planetary Science Division presso la NASA «I risultati di Parker hanno anche messo appunto una nuova tecnologia per il rilevamento da satellite, sulla quale bisogna, a nostro modesto parere, investire quanto prima».

Fonti:

Release:https://www.nasa.gov/feature/goddard/2022/sun/parker-solar-probe-captures-its-first-images-of-venus-surface-in-visible-light-confirmed

Geophysical Research Letters (Febraury 2022): “Parker Solar Probe Imaging of the Night Side of Venus” by Brian E. Wood, Phillip Hess, Jacob Lustig-Yaeger, Brendan Gallagher, Daniel Korwan, Nathan Rich, Guillermo Stenborg, Arnaud Thernisien, Syed N. Qadri, Freddie Santiago, Javier Peralta, Giada N. Arney, Noam R. Izenberg, Angelos Vourlidas, Mark G. Linton, Russell A. Howard, Nour E. Raouafi.

Starlink: 40 satelliti bruciati nell’atmosfera

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Ben 40 su 49 satelliti Starlink persi a causa di una tempesta solare

Un lancio sventurato quello risalente allo scorso giovedì 3 febbraio quando, a bordo di un Falcon 9, erano partiti 49 satelliti Starlink dal Launch Complex 39A (LC-39A) presso il Kennedy Space Center in Florida.

Sfortunatamente, il giorno successivo al lancio, i satelliti appena schierati in orbita bassa sono stati investiti da una tempesta geomagnetica. I tecnici hanno immediatamente avviato le manovre per deorbitare i satelliti, portandoli in una modalità sicura in cui sarebbero volati di taglio (come se ruotassimo un foglio di carta), per ridurre così al minimo la resistenza e per “prendere riparo dalla tempesta” nel modo più efficace possibile.

Un’operazione che però non è andata a buon fine.

«L’analisi preliminare ha mostrato che l’aumento della resistenza alle basse quote ha impedito ai satelliti di lasciare la modalità provvisoria per iniziare le manovre di sollevamento dell’orbita e quindi 40 satelliti sono stati fatti rientrare nell’atmosfera terrestre» l’annuncio direttamente dalla compagnia SpaceX.

A contatto con l’atmosfera, i satelliti hanno preso fuoco e si sono disintegrati.

Immagine scattata sopra i cieli di Porto Rico: il probabile impatto infuocato dei detriti di Starlink a contatto con l’atmosfera. Credit: Sociedad de Astronomia del Caribe.

Qui il video a cura della SAC (Sociedad de Astronomia del Caribe) del probabile impatto di uno o più satelliti Starlink con l’atmosfera.

Le impetuose tempeste geomagnetiche: un problema da non sottovalutare

Queste tempeste sono un risultato dell’attività solare che va a disturbare la magnetosfera terrestre, con possibilità di creare danni alle apparecchiature tecnologiche posizionate in orbita intorno alla Terra e alle strumentazioni terrestri, oltre che rappresentare un rischio per gli astronauti a bordo della ISS.

 

«Queste tempeste provocano il riscaldamento dell’atmosfera e l’aumento della densità atmosferica alle basse altitudini», commenta SpaceX nella nota sul lancio dello scorso 3 febbraio «Il GPS di bordo ci ha suggerito che la velocità di escalation e la gravità della tempesta hanno causato un aumento della resistenza atmosferica fino al 50% in più rispetto ai lanci precedenti».

La deorbitazione dei 40 Starlink è stata totalmente controllata dai tecnici della compagnia di Elon Musk e non ha comportato alcun rischio di collisione con altri satelliti. Inoltre, per progettazione, questi “svaniscono” al contatto con l’atmosfera, quindi di fatto non sono stati creati detriti e nessuna parte dei satelliti ha colpito il terreno.

 

«Questo evento isolato dimostra quanto il team di Starlink sia competente nel garantire che il sistema sia all’avanguardia nella mitigazione dei probabili detriti in orbita», conclude SpaceX.

Illustrazione grafica della dispiegazione in orbita della flotta dei satelliti Starlink. Credit: SpaceX

Attualmente SpaceX ha lanciato sui 2000 satelliti dall’inizio del programma Starlink, anche se non tutti sono operativi. Si prevede che la “costellazione” di satelliti diventi ancora più grande, trovando poco riscontro in una buona parte del mondo astronomico, che temono, tra altre cose, anche per l’aumento dell’inquinamento luminoso.

Fonti:

Release: https://www.spacex.com/updates/

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INFN: Giornata Internazionale delle Donne nella Scienza 2022

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Domani 11 febbraio è il WomenInScienceDay, ed anche quest’anno l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) celebra l’evento con una serie d’iniziative con l’intento di promuovere la equa partecipazione di donne e ragazze nelle scienze, in materia d’istruzione, formazione e occupazione.

Se volete partecipare attivamente a questa ricorrenza, ecco un elenco di proposte organizzate e promosse dall’INFN:

I Laboratori Nazionali di Frascati organizzano l’evento online “Towards Inclusive Science”, in diretta dalle 9.30 sul canale YouTube dei LNF, che vedrà donne e uomini del mondo della ricerca coinvolti a raccontare successi e sfide di studenti delle Scuole secondarie di secondo grado.

Il Gran Sasso Science Institute e l’Università degli Studi dell’Aquila organizzano la conferenza “ResearchHER, prospettive di scienza”. L’evento si terrà online alle 10.00 presso l’Auditorium dell’Università, con ospiti Lucia Votano, Direttrice dei Laboratori Nazionali del Gran Sasso dell’INFN; Giuliana Galati, fisica delle particelle, divulgatrice scientifica e membro del CICAP; Serena Giacomin, climatologa e meteorologa per le reti Mediaset e DeAgostini; e Lorenzo Gasparrini, filosofo, formatore femminista e attivista.

 

A Cagliari e presso l’Università di Roma la Sapienza si terranno delle edizioni speciali delle International Masterclasses organizzate da IPPOG. A questa edizione parteciperanno 82 studentesse e studenti provenienti dalle scuole sarde, per svolgere attività sperimentali sulla fisica delle particelle e l’astrofisica.

Le Sezioni INFN di Roma3, Napoli e il Gruppo Collegato di Cosenza organizzano le International Masterclasses for girls. Quest’anno i partecipanti potranno assistere da remoto alla presentazione della fisica e sociologa Ilenia Picardi, dal titolo “Equità di genere nella scienza: le sfide per le ragazze nelle STEM”.

L’Università degli Studi di Roma Tor Vergata, in collaborazione con la Sezione INFN di Roma 2, proporranno agli studenti l’incontro online “STEM: Protagoniste di una grande storia”, a cura dell’associazione ValoreD.

La ricercatrice Carla Aramo, delle Sezione INFN di Napoli, parteciperà alla campagna online organizzata dalla Collaborazione Pierre Auger; mentre Iaia Masullo parteciperà all’evento “Scienza: sostantivo femminile”, organizzato dall’Associazione di Promozione sociale Social Project, presso Villa Bruno a San Giorgio a Cremano.

 

A Pavia sarà organizzato un side-event della Notte dei Ricercatori. L’iniziativa è ideata da Silvia Bortolussi, ricercatrice della Sezione INFN di Pavia e dell’Università di Pavie, e Ilaria Canobbio, ricercatrice dell’Università di Pavia.

La Sezione INFN di Lecce, in collaborazione con il dipartimento di Matematica e Fisica dell’Università del Salento, celebrerà la giornata con l’evento “Dottorande nella scienza: conversazione online”, che sottolinea l’importanza del ruolo delle donne e delle giovani ragazze all’interno della comunità scientifica e nel settore tecnologico.

Alle 17.00 di venerdì 11 febbraio l’European Gravitational Observatoru (EGO) e la Collaborazione Virgo celebreranno la giornata con un evento online dal titolo “Women listening to cosmo. A Q&A with Virgo scientist”.

Per saperne di più:

Release: https://home.infn.it/it/news-infn/4697-le-iniziative-infn-per-la-giornata-internazionale-delle-donne-nella-scienza-2022

 

 

 

 

 

 

 

 

Proxima Centauri: scoperto nuovo esopianeta

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Tramite il Very Large Telescope (VLT) in Cile, gli astronomi dell’European Southern Observatory (ESO) hanno individuato un nuovo pianeta intorno a Proxima Centauri, la stella più vicina al nostro Sistema Solare.

Si classifica come terzo pianeta rilevato attorno questa stella.

Con solo 1/4 della massa terrestre, è anche uno degli esopianeti più leggeri mai trovati.

Immagine del cielo intorno alla stella luminosa Alpha Centauri AB, che mostra anche la stella nana rossa molto più debole, Proxima Centauri. L’illustrazione è stata creata da immagini raccolte dal Digitized Sky Survey 2. Credit: ESO

«La scoperta mostra che il nostro vicino stellare più prossimo sembra essere pieno di nuovi mondi interessanti, alla portata di ulteriori studi ed esplorazioni future», spiega João Faria, ricercatore presso l’Instituto de Astrofísica e Ciências do Espaço in Portogallo, e autore principale dello studio pubblicato oggi su Astronomy & Astrophysics.

 

Proxima Centauri è la stella più vicina al Sole, situata a poco più di quattro anni luce di distanza. Il pianeta scoperto è stato chiamato Proxima d, ed orbita attorno alla sua stella ad una distanza di circa quattro milioni di chilometri, ovvero a meno di un decimo della distanza tra Mercurio e il Sole. Il pianeta orbita tra la stella e la zona abitabile del sistema (l’area attorno ad una stella dove può esistere acqua liquida sulla superficie di un pianeta) e sembra impiegare solo cinque giorni per completare un’orbita attorno a Proxima Centauri.

Una lista di nuovi esopianeti

Questo sistema planetario ospita già altri due pianeti: Proxima b, un pianeta con una massa paragonabile a quella della Terra che ruota intorno alla stella ogni 11 giorni, e Proxima c, che possiede un’orbita della durata di almeno cinque anni.

Il grafico mostra la grande costellazione meridionale del Centauro (Il Centauro), mettendo in evidenza la maggior parte delle stelle visibili ad occhio nudo in una notte chiara e buia. La posizione della stella Proxima Centauri è contrassegnata da un cerchio in rosso. Credit: ESO

Proxima b è stato scoperto alcuni anni fa utilizzando lo strumento HARPS, installato su un telescopio da 3,6 m. Successivamente la scoperta è stata confermata nel corso del 2020, quando gli scienziati hanno osservato il sistema con uno strumento installato sul VLT, che permetteva di avere una migliore risoluzione: l’Echelle Spectrograph for Rochy Exoplanets and Stable Spectroscopic Observations (ESPRESSO).

 

E’ stato proprio durante queste osservazioni che gli astronomi hanno individuato i primi segnali di Proxima d. Il segnale però era troppo debole, e il team ha dovuto effettuare un follow-up con ESPRESSO, per confermare se si trattasse o meno di un pianeta o semplicemente di qualche cambiamento di Proxima Centauri.

Un pianeta piuma

Quindi con un quarto della massa della Terra, Proxima d è l’esopianeta più leggero mai misurato, superando per giunta un altro pianeta recentemente scoperto nel sistema planetario L 98-59. Per le osservazioni è stata utilizzata la tecnica della velocità radiale, la quale tende a rilevare le minuscole oscillazioni nel movimento di una stella, create dall’attrazione gravitazionale di un pianeta in orbita. L’effetto della gravità di Proxima d è così piccolo che fa sì che Proxima Centauri si muova avanti e indietro a circa 40 cm al secondo (1,44 km all’ora).

Illustrazione artistica di Proxima d all’interno del sistema planetario di Proxima Centauri. Si ritiene che il pianeta sia roccioso e che abbia una massa di circa un quarto di quella della Terra. Credit: ESO

«Questo è un risultato estremamente importante», afferma Pedro Figueira, scienziato responsabile della manutenzione e applicazione di ESPRESSO in Cile, «Mostra che la tecnica della velocità radiale ha il potenziale per svelare una nuova popolazione di pianeti che potrebbero potenzialmente ospitare la vita come la conosciamo».

Il lavoro di ESPRESSO sulla ricerca di altri mondi sarà completata dall’Extremely Large Telescope (ELT), attualmente in costruzione nel deserto di Atacama, che sarà cruciale per scoprire e studiare molti altri pianeti intorno alle stelle a noi più vicine.

Fonti:

Release: https://www.eso.org/public/news/eso2202/?lang

Astronomy & Astrophysics (February 2022): “A candidate short-period sub-Earth orbiting Proxima Centauri”, DOI: 10.1051/0004-6361/2021142337

Fusione nucleare: è record! Creata una mini-stella

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«Abbiamo dimostrato che possiamo creare una mini-stella all’interno della nostra macchina, tenerla lì per cinque secondi e ottenere prestazioni elevate, il che ci apre a possibilità davvero nuove»

Sempre più vicini alla fusione nucleare: l’energia che alimenta le stelle

Un grande passo avanti per la ricerca scientifica, con un record senza precedenti.

La notizia ci giunge dal Culham Centre for Fusion Energy con sede a Oxfordshire, nel Regno Unito, in particolare dal JET (Joint European Torus) un enorme reattore a fusione nucleare, attualmente il più grande al mondo.

Battendo un suo precedente record del 1997, all’interno del JET sono stati prodotti 59 megajoule di energia in cinque secondi (11 megawatt di potenza): più del doppio del precedente primato del ’97. Non è un’enorme produzione di energia, puntualizzano gli scienziati, ma può dimostrare il potenziale delle centrali elettriche e il ruolo cruciale nell’affrontare i cambiamenti climatici attraverso un’energia sicura e sostenibile a basse emissioni di carbonio.

Guarda il video “Making a mini-star on Earth” (credits: www.euro-fusion.org)

«Gli esperimenti JET ci hanno avvicinato di più all’energia da fusione», ha affermato il dott. Joe Milnes, capo delle operazioni presso il laboratorio del reattore, che parla della creazione di una mini-stella all’interno del reattore.

L’obiettivo? Produzione di energia “pulita”

credits: ec.europa.eu

Per energia di fusione intendiamo infatti quella che alimenta le stelle. Questo risultato da record ci avvicina sempre di più a valutare la fusione nucleare come mezzo sicuro, efficiente e a basse emissioni di carbonio, come fonte di energia da utilizzare per affrontare la crisi climatica.

«Il risultato ottenuto è pienamente in linea con le previsioni teoriche e che conferma le motivazioni alla base del progetto ITER per garantire energia sicura, sostenibile e a bassa emissione di CO2» è stato affermato ieri in conferenza stampa.

ITER è un progetto unico che mira a costruire la macchina per la fusione più grande al mondo.

Cofinanziato dalla Commissione Europea, il consorzio Eurofusion [consorzio europeo per lo sviluppo della fusione nucleare] vede la partecipazione di 4.800 tra esperti, studenti e personale in staff da tutta Europa, con una forte presenza di ricercatori italiani.

Fonti

Major breakthrough on nuclear fusion energy
Fusion energy record demonstrates powerplant future

Detriti in caduta libera

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Divoratrice di pianeti

Cosa accade a un sistema planetario alla morte della sua stella ospite?

Utilizzando raggi X (in grado di rilevare materiale roccioso e gassoso) un team di scienziati della University of Warwick ha osservato per la prima volta i detriti dei pianeti distrutti precipitare in una nana bianca. I risultati della ricerca sono stati pubblicati oggi 9 febbraio su Nature e corrispondono alla prima misurazione diretta dell’accrescimento di materiale roccioso attorno una nana bianca, confermando decenni di prove indirette.

Un fato segnato

Il destino di molte, compreso il nostro Sole, è quello di diventare una nana bianca.

Quando una stella muore, il sistema planetario che vi ruotava attorno viene travolto dall’atmosfera della stella in espansione questo dice la teoria ed è quanto veniva confermato da osservazioni spettroscopiche a lunghezze d’onda ottiche e ultraviolette in grado di rilevare nelle atmosfere delle stelle agenti inquinanti ferrosi.

Rappresentazione grafica del disco di detriti in orbita intorno a G29-38. Credit: NASA/JPL-Caltech

Per decenni, gli astronomi hanno raccolto solamente prove indirette con le indagini spettroscopiche arrivando a dimostrare che le atmosfere di quasi la metà delle nane bianche osservate contenesse elementi pesanti come ferro, calcio e magnesio.

 

Oggi, invece, grazie a questa nuova ricerca sono state raccolte e confermate le prime vere e proprie osservazioni dirette.

«Abbiamo finalmente visto del materiale entrare nell’atmosfera di una nana bianca. Mai è stata fatta un’osservazione simile ed è un risultato piuttosto notevole», dichiara il dott. Tim Cunningham del Dipartimento di Fisica della University of Warwick, «Una nana bianca è una stella che ha consumato tutto il suo carburante, distruggendo e sconvolgendo la vita di qualsiasi corpo che le orbita intorno. Quando il materiale residuale di questi corpi viene attirato nella stella ad una velocità sufficientemente alta, colpisce la superficie, formando del plasma riscaldato. Questo plasma si deposita poi sulla superficie e mentre si raffredda emette raggi X che possono essere rilevati dai nostri strumenti».

Strumenti all’avanguardia

I raggi X sono creati da elettroni che si muovono molto velocemente, e in astronomia sono fondamentali per rilevare oggetti particolari come buchi neri e stelle di neutroni. Purtroppo però sono molto fragili e nel percorso fino alla Terra possono subire molte deviazioni.

 

E’ per tale motivo che per questa ricerca gli astronomi di Warwick hanno dovuto sfruttare il potente telescopio a raggi X Chandra puntato sulla nana bianca G29 – 38.

Rappresentazione grafica di detriti planetari in viaggio verso una nana bianca. Credit: University of Warwick/Mark Garlick

Cunningham conclude: «La cosa davvero eccitante di questo nuovo studio è che stiamo lavorando ad una lunghezza d’onda completamente diversa rispetto al passato, che ci consente di accedere a nuove scoperte. Oggi finalmente abbiamo le prove concrete che confermano la teoria sulla fine dei sistemi planetari vicini alle stelle morenti. Una nuova tecnica d’indagine che ci permetterà di intuire il destino di altri migliaia di sistemi planetari conosciuti, incluso quello del nostro Sistema Solare »

Fonti:

Nature (Febraury 2022): “A white drawf accrediting planetary material from X-ray obersavations” DOI: 10.1038/s41586-021-04300.

N.B: La ricerca ha ricevuto finanziamenti dal Levehulme Trust; il Science and Technology Facilities Council (STFC), dal UK Research and Innovation e dal European Research Council.

Vortici e aurore pulsanti su Saturno

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A caccia di aurore! … sì, ma su Saturno

Enormi e spettacolari aurore planetarie rilevate sul pianeta Saturno e alimentate da un meccanismo atmosferico sconosciuto.

È quanto rivela uno studio della University of Leicester, pubblicato recentemente sul Geophysical Research Letters.

Generalmente le aurore vengono formate da potenti correnti che fluiscono nella magnetosfera. Queste correnti possono essere supportate dall’interazione con le particelle cariche provenienti dal Sole (come sulla Terra) o da materiale vulcanico eruttato da un satellite in orbita intorno al suo pianeta (come per Giove).

 

Ma questa ultima scoperta potrebbe cambiare quanto già si conosceva sulle aurore planetarie e, allo stesso tempo, rispondere ai misteri sollevati nel 2004 dalla sonda Cassini della NASA: perché non siamo in grado di misurare la durata di un giorno su Saturno?

Leggi anche: L’ultimo saluto a Cassini di Coelum Astronomia

Esempio di vortici all’interno dell’alta atmosfera di Saturno che spingono la ionosfera a muoversi. Questo sistema ruota attorno al polo del pianeta, guidando le correnti, che poi si estendono nella magnetosfera circostante, producendo l’aurora luminosa e i cambiamenti del campo magnetico osservati da Cassini. Credit: This animation generated by James O’Donoghue at JAXA and Tom Stallard at the University of Leicester.

Non perdere l’animazione della NASA dei vortici di Saturno direttamente sul nostro canale YouTube!

(credits: NASA/JPL-Caltech/SSI/Cassini Huygens imagery)

Imprevedibili moti di rotazione

Durante il suo primo viaggio, Cassini tentò di misurare la velocità di rotazione del pianeta tramite gli “impulsi” di emissioni radio emessi dall’atmosfera. Allora si scoprì che la velocità sembrava essere cambiata nel corso di due decenni, ovvero da quando Voyager2 nel lontano 1981 aveva sorvolato il pianeta gassoso.

Nahid Chowdhury, dottorando presso la University of Leicester e membro del Planetary Science Group della School of Physics and Astronomy afferma: «La velocità di rotazione interna di Saturno deve essere costante, ma numerose ricerche portate avanti negli anni hanno rilevato che numerose proprietà periodiche del pianeta tendono a cambiare nel tempo. La nostra comprensione della fisica di questi pianeti ci dice che la vera velocità di rotazione non può cambiare così rapidamente: qualcosa di unico e sconosciuto sta accadendo all’interno di Saturno».

 

La ricerca degli scienziati di Leicester rappresenta la prima ed indiscussa rilevazione del driver alla base del moto di rotazione del pianeta ad anelli, fornendo spiegazioni alle forze che si nascondono dietro alle aurore planetarie.

Sembra che le aurore di Saturno vengano alimentate da dei vortici posti ai poli del pianeta, responsabili anche della velocità di rotazione variabile nel tempo.

I ricercatori ritengono che il sistema sia guidato dall’energia della termosfera, con venti presenti nella ionosfera che si muovono tra 0,3 e 3,0 km/s.

Figura semplificata che mostra la direzione dei venti all’interno degli strati dell’atmosfera di Saturno. Credit: Nahid Chowdhury/University of Leicester

Il dott. Tom Stallard, professore associato di astronomia planetaria presso la University of Leicester, aggiunge: «Abbiamo osservato come le aurore planetarie pulsino e oscillino all’interno del campo magnetico, espandendosi nello spazio ed evidenziando una velocità di rotazione apparentemente mutevole. Per diversi anni si è speculato sul fatto che la luna vulcanica Encelado, o le interazioni con la densa atmosfera della luna Titano, potessero essere la causa scatenante dei vortici; ma ora gli studi si stanno concentrando solo su quante accade nell’atmosfera superiore di Saturno».

Simili scelte d’indagine hanno permesso finalmente di eliminare molta della confusione che si aveva rispetto alle variazioni sul moto di rotazione del pianeta.

 

Gli scienziati hanno misurato le emissioni ad infrarossi d’alta quota utilizzando l’Osservatorio Keck alle Hawaii e hanno incominciato a mappare i flussi variabili della ionosfera dal 2017.

In questo modo l’University of Leicester si è aperta allo studio del Sistema Solare e si prefigge di andare ancora oltre, sperando di svelare i segreti di oggetti celesti ancora più lontani.

Fonti:

Geophysical Research Letters (Dicember 2021): “Saturn’s Weather-Driven Aurorae Modulate Oscillations in the Magnetic Field and Radio Emission” by M. N. Chowdhury, T. S. Stallard, K. H. Baines, G. Provan, H. Melin, G. J. Hunt, L. Moore, J. O’Donoghue, E. M. Thomas, R. Wang, S. Miller, S. V. Badman.

Fuller Moon

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Le straordinarie immagini del fotografo Andrew McCarthy offrono uno spettacolo incredibile della superficie lunare, cogliendo dettagli mai osservati fino ad ora. Gli scatti sono stati ottenuti utilizzando un software 3D e 200.000 foto, sovrapposte poi l’una sull’altra per rivelare ogni grotta o montagna del paesaggio lunare.

Le fotografie mostrano ogni montagna e grotta nel paesaggio lunare, rendendo la luna più accessibile all’occhio umano. Credit: Andrew McCarthy

Il fotografo americano ha dichiarato: «Estrapolando ogni imperfezione della superficie della Luna, si può realmente mostrare quanto sia variegato il suolo lunare. Gli altopiani sono completamente craterizzati, mentre i mari si presentano con un basalto liscio ed uniforme. Con questi scatti spero d’interessare il grande pubblico ai futuri viaggi d’esplorazione sul nostro satellite».

Il fotografo americano Andrew McCarthy

Per realizzare le immagini finite, McCarthy ha sovrapposto le foto nel suo software tridimensionale tramite dei dati raccolti direttamente dalla NASA.

 

«Ho effettuato gli scatti durante le due settimane di luna crescente del mese di gennaio», conclude McCarthy, «Scegliendo le immagini con il maggior contrasto, ho allineato i diversi frame per evidenziare la ricca varietà della superficie. Non è stata una impresa facile! Giorno dopo giorno la Luna cambiava posizione, e ho dovuto quindi mappare le immagini su una sfera 3D per assicurare che tutti gli scatti fossero allineati correttamente».

L’astrofotografo McCarthy ha allineato migliaia di immagini delle fasi lunari per ottenere una risoluzione mai vista prima. Credit: Andrew McCarthy

Il suo lavoro sta affascinando un vastissimo pubblico di appassionati.

 

Potete trovare le foto della FULLER Moon sul profilo Instagram @cosmic_background, oppure sul sito di Andrew McCarthy: https://cosmicbackground.io/search?q=fuller+moon&options%5Bprefix%5D=last

BUONA OSSERVAZIONE!

Regolamento Community e Aree di Discussione

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Regole per il corretto utilizzo delle aree di discussione e la community di Coelum

L’accesso alle aree di discussione è volontaria, ma l’adesione alla Community di Coelum impone l’accettazione e il rispetto delle regole di comportamento sotto elencate.

  1. Oggetto

Le aree di discussione (bacheche o commenti) sono un punto di incontro e confronto democratico su temi riguardanti l’astronomia, l’aereospazio e la passione per l’osservazione in genere

L’obiettivo degli spazi di discussione è quello di creare un ambiente virtuale di scambio di esperienze ed opinioni fra tutti i lettori di Coelum iscritti alla Community.

2. Contenuti delle discussioni ammessi e vietati

Il rispetto degli altri è una regola fondante di questa comunità. Per questo motivo sono vietati i messaggi offensivi, violenti e volgari e verranno allontanati gli utenti il cui unico scopo è creare scompiglio e/o infastidire l’attività della comunità.
In particolar modo sono vietati i messaggi:

  • di incitamento all’odio razziale;
  • contenenti espressioni e/o immagini eversive, violente e blasfeme;
  • contenenti espressioni e/o immagini comunque idonei a ledere la sensibilità altrui;
  • contenenti volgarità e/o espressioni offensive indirizzate a iscritti o terze persone;

Sono, inoltre, da ritenere assolutamente vietate le discussioni inerenti a:

  • spam;
  • sesso e pornografia;
  • attività di pirateria informatica (hacking, cracking, streaming illegale, ecc.);
  • attività delittuose secondo l’ordinamento giuridico italiano;

Infine, data la natura di questa community, è preferibile evitare discussioni di natura politica e religiosa.

Sono vietati gli interventi di natura palesemente “concorrenziale” nei confronti di Coelum Astronomia (ad es. “vi invito a discuterne sul mio forum…”) o di altre attività anche non simili (ad es. “leggete il mio articolo dove vi spiego come fare…”) oppure promuovere l’abbandono della community a favore di altri siti di contenuti simili a quelli offerti sul sito www.coelum.com. Tali interventi sono considerati, a tutti gli effetti, spam e verranno trattati come tale.
Sono esplicitamente vietati, inoltre, i link relativi a:

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  • materiale protetto da copyright;
  • contenuti violenti, eversivi, blasfemi e/o comunque contrari all’ordinamento giuridico italiano o al buon gusto;

 

INOLTRE è vietato

  • creare discussioni e/o postare risposte il cui contenuto è il semplice frutto di “copia e incolla” di materiale presente in altri siti.
    Tale attività può considerarsi legittima solo riguardo a contenuti liberamente distribuibili e nei limiti delle licenze stabilite dall’autore. In ogni caso è sempre necessario inserire la fonte del contenuto.
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Tutti i messaggi inseriti in violazione dei punti precedenti potranno essere modificati, spostati o cancellati dai membri dello Staff i quali, a propria discrezione, potranno provvedere ad inviare un richiamo all’utente tramite PM (Messaggio Privato) oppure all’interno della discussione. Nei casi più gravi (violazioni gravi oppure continue e perpetrate nonostante i richiami dello Staff) il responsabile potrà essere allontanato dal Forum (ban).

3. Rispetto dei regolamenti

La vita ed il buon funzionamento dello spazio di discussione della Community di Coelum sono regolate da questo regolamento il cui rispetto costituisce il punto di partenza sul quale costruire una pacifica e proficua convivenza tra i vari partecipanti alle discussioni.

Gli utenti della Community sono tenuti a leggere con cura il presente Regolamento Generale

4. Norme di chiusura

La redazione di Coelum  si riserva il diritto, a proprio insindacabile giudizio e senza preavviso alcuno, di:

  • eliminare/modificare/spostare discussioni e messaggi;
  • escludere taluni utenti (ban) dall’utilizzo del forum;
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Anche se gli amministratori e i moderatori cercheranno di mantenere il Forum il più pulito possibile da tutti i messaggi sgradevoli, è impossibile per noi controllare ogni messaggio. Tutti i messaggi esprimono il punto di vista dell’autore, né gli editori di Coelum Astronomia e néi gestori del sito web (sviluppatori del software che gestisce la nostra community) saranno ritenuti responsabili per il contenuto di qualsiasi messaggio.

Per comunicazioni scrivere a coelumastro@coelum.com

En route to the Moon again. This time to stay there! Pt. 2

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The Transfer Lunar Injection is one of the most critical phases of the Artemis Mission.

The timing in the ignition of the engines is in fact essential to intercept the Moon along its orbit around the Earth. In this way, the spacecraft can enter the lunar gravitational sphere of influence, a region of space in which the attraction of our satellite is dominant compared to that of the Earth. A delay (or an advance) of a few minutes in the Transfer Lunar Injection maneuver can lead to a trajectory error such that the spacecraft will not enter the lunar gravitational sphere but will be lost drifting beyond the orbit of our satellite. The exact moment in which to start the engines to perform the Transfer Lunar Injection is for this reason calculated with great care by the engineers in the years before the mission, taking into account the lunar motions.

After this real topical moment, the third stage will be abandoned and the phase of the trip, called Transfer Lunar Orbit, will start, which within three days will bring the capsule insight of our satellite. At that point, the engines will be turned on again to slow down the spacecraft and to put it into circumlunar orbit. This maneuver is called Lunar Orbit Insertion.

There may be slightly different trajectories depending on the mission but in any case, the approach used is the one just described for a simple reason: the safety of the crew. In case a malfunction of the propulsion system prevents the spacecraft to enter into lunar orbit, with this type of trajectory the spacecraft will be able to return to earth spontaneously, without the need of any propulsive action but simply using the lunar gravity with a Gravity Assist maneuver. In this case, we speak of the free-return trajectory.

Immagine dell’allunaggio della missione Apollo. Credit: NASA

The Apollo missions from 8 to 11 all flew on this type of trajectory, while the subsequent ones used hybrid trajectories. The reason for this change was that the free-return trajectories, while safer, only allowed descent to the Moon at the equatorial region. Since the landing sites of the missions following 11 were located at higher latitudes, it was necessary to adopt this type of solution. In a hybrid trajectory, the spacecraft initially flies a common free-return, but during the crossing it is abandoned to enter an optimal trajectory depending on the desired landing site. As soon as the free-return is abandoned, the spacecraft loses the great advantage of being able to count on a spontaneous return to earth.

The idea behind this strategy, which was used in the Apollo program, was to remain on a free-return orbit until all systems were verified and it was ensured that there was no malfunction. If any anomaly had occurred during these checks, the spacecraft would still have been able to return spontaneously by performing a fly-by with the Moon.

After checking the status of all systems, the free-return was abandoned and the spacecraft would enter on a different trajectory that would allow it to reach the predetermined landing sites. In case some problem occurred in this second phase, it would still be possible to put the spacecraft back on a free-return using the propulsion system of the Lunar Module (LEM), as a backup to the propulsion system of the service module.

Immagine del Lunar Module (LEM) che sorvola la superficie lunare. Credit: NASA

An example of the effectiveness of this strategy is the Apollo 13 accident. In that case, the loss of the command module occurred when the spacecraft had already left the free-return trajectory, so the crew used the Lunar Module to return to it. Actually, on that occasion the LEM engines were turned on also during the spontaneous return, to shorten the return of 10 hours and to move the landing point from the Indian Ocean to the Pacific, where most of the American help was concentrated.

In short, after more than fifty years things have not changed at all; the first Artemis mission will see the Orion capsule reach the Moon using the same trajectories of that time.

With one difference …

after having circumnavigated our satellite, releasing at the same time the 13 Cubesat satellites, which represent the secondary scientific payload, Orion will enter on a particular orbit, called Distant Retrograde Orbit.

This orbit, never used before, is extremely stable with respect to orbital perturbations because it interacts with the Lagrangian points L1 and L2 of the Earth-Moon system, and it will be the orbit that in the next missions will follow the Lunar Gateway, the Lunar Space Station, which will be built starting from 2023. This station will support all Artemis missions starting from Artemis 4 and will provide support for all future missions to the Moon and then to Mars.

The presence of the lunar station will allow to completely change the approach to landings compared to the Apollo era. In the past, in fact, the spacecraft used by the Apollo astronauts were able to carry a much greater amount of propellant than the Orion. This resulted in a greater thrust provided by the engines that allowed, with the Lunar Orbit Insertion maneuver, to reach a very low lunar orbit, from which to start directly the descent maneuvers. The philosophy of the Artemis program will be instead to dock the Orion with the Gateway on a much higher orbit and from there descend to the surface with a dedicated vehicle (provided by SpaceX).

The orbital variant will take Orion 60,000 km away from the Moon. Thus beating the distance record achieved by Apollo 13 in 1970.

Immagine di un ritratto da astronauta. Credit: NASA

After six days, the Orion capsule will exit the Distant Retrograde Orbit with another lunar flyby, finally pushing it back on course for home.

After the usual three-day journey, near the Earth, the spacecraft will shed its Service Module and dive into our planet’s atmosphere travelling at 11 km per second. The heat shield of the capsule, so far never tested, will have to withstand temperatures of about 2,700 degrees Celsius.

After more than three weeks and a total distance covered over two million kilometers, the mission will end with a landing off the coast of Baja, California.

Will everything go well?

Of course, it will, and from the moment Commander Moonikin Campos emerges safely from the capsule we will begin to count the months until the launch of Artemis II, the mission that will take men to circumnavigate the Moon for the first time since 1972.

A mission that reminds us very closely of the fantastic feat of Apollo 8 at Christmas 1968.

So yes, we are convinced… Everything will be fine.

Pietro di Tillio, un italiano “su Marte”

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Prove generali per la missione umana su Marte

«Un pezzo di sogno che si concretizza».

Ad affermarlo è Pietro di Tillio, geologo, pescarese alla nascita e dal 2012 residente in America, selezionato dalla NASA con altri 3 volontari per partecipare al programma HERA: simulerà un viaggio verso Marte.

«Mi rende orgoglioso il fatto che tra dieci anni, quando la NASA inizierà a lanciare le missioni ufficiali verso Marte, avrò contribuito nel mio piccolo alla realizzazione di questo evento. Per quanto riguarda un futuro volo spaziale, è ciò che davvero vorrei realizzare. Ho fatto anche domanda come astronauta, alle proprie aspirazioni non bisogna mai porre limiti».

HERA ha avuto inizio il 28 gennaio e i volontari non avranno contatto con il mondo esterno (salvo rare eccezioni e comunicazioni con il centro di comando) fino al 16 marzo.

In cosa consiste il programma HERA?

HERA, acronimo di Human Exploration Research Analog: una simulazione, il più realistica possibile, dell’habitat dove gli astronauti vivranno nel lungo viaggio verso Marte. Si svolge al Johnson Space Center (JPL) della NASA a Houston, in Texas.

«Nonostante si tratti di una simulazione, l’obiettivo è quello di essere estremamente realistici, così da non avere sorprese nella vera missione», racconta Pietro di Tillio «HERA durerà 45 giorni, durante i quali i quattro membri dell’equipaggio, me compreso, saranno rinchiusi all’interno del modulo dove replicheranno la routine di lavoro e di vita degli astronauti diretti su Marte».

AD MAIORA SEMPER! – Pietro di Tillio, immagine da lui pubblicata e che lo ritrae accanto il modulo della missione HERA

In realtà il viaggio verso il pianeta rosso durerà ben oltre 45 giorni (dai 6 ai 9 mesi, ndr), ma ai fini della ricerca questo è stato giudicato un tempo ragionevole per valutare scenari specifici dell’impresa.

I ricercatori della NASA si concentreranno su quattro fattori principali: stress psicologico, lavoro di squadra, difficoltà di comunicazione con la Terra e, naturalmente, parametri medici. I test includono anche: l’utilizzo di nuove tecnologie, apparecchiature robotiche, veicoli, habitat, comunicazioni, produzione di energia, mobilità, infrastrutture e stoccaggio. Si osserveranno anche effetti comportamentali, come isolamento e confinamento, dinamiche di squadra, affaticamento nella dieta.

Comunicazioni “con la Terra” in ritardo anche di 5 minuti

«Il livello di resilienza psicologica richiesta da missioni di lunga durata come quelle dirette su Marte è piuttosto alto» specifica di Tillio «Lo spazio in cui l’equipaggio dovrà vivere e lavorare è molto limitato, e quindi sarà necessario capire come quattro persone, per quanto preparate, reagiranno alla reclusione prolungata. Un secondo fattore di complessità è la distanza dalla famiglia, con collegamenti estremamente ridotti e ritardati».

In una recente intervista, spiega che le comunicazioni con la sua famiglia (moglie e due figli) siano limitate a una volta a settimana e per soli 10 minuti. Inoltre verranno aggiunti graduali ritardi nella comunicazione, volti a simulare l’allontanamento progressivo dalla Terra. Si arriverà a un massimo di 5 minuti di ritardo.

«Cruciale, quindi, sarà l’interazione tra i membri del team. Il lavoro di squadra è fondamentale poiché l’equipaggio non dovrà solo condividere gli spazi della propria vita quotidiana, ma soprattutto collaborare per il successo della missione e per lo svolgimento dei vari esperimenti scientifici associati».

Banco di prova per missioni future

Il programma HERA è volto a simulare future missioni umane su Marte o sulla sua luna Phobos. Queste simulazioni realistiche implementano anche l’utilizzo della realtà virtuale, grazie ad appositi visori, e analizzano un ampio spettro di fattori influenti in questa tipologia di viaggio, tra cui la privazione della luce solare per tutto il tempo della missione. I volontari di Hera saranno monitorati 24 ore su 24, registrando l’evoluzione dei parametri biologici man mano che la missione procede.

La selezione dei membri della missione è stata durissima e, secondo di Tillio, un elemento che ha giocato molto è suo favore è stata la sua formazione da geologo.

«Le attuali missioni su Marte, infatti, studiano campioni della superficie marziana alla ricerca di tracce di acqua e vita (passata o presente) utilizzando i metodi della geologia. Ma poi di nuovo, tutte le scienze sono coinvolte in questo sforzo perché, alla fine, c’è un intero pianeta da scoprire

L’articolo di approfondimento sull’esperienza di Pietro di Tillio in arrivo sul Coelum, con un’intervista al termine della sua missione!

ISS dismessa per il 2031

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Dopo numerosi annunci e consecutivi rimandi, è stata finalmente decisa la conclusione della Stazione Spaziale Internazionale, definendo precise coordinate spazio-temporali. Lo scorso 31 gennaio, la NASA ha rilasciato un documento in cui spiega le modalità con cui l’ISS rimarrà attiva fino al 2031.

Sembra che diremmo addio alla stazione tramite un vero e proprio spettacolo: dal report si evince che la ISS precipiterà nell’Oceano Pacifico meridionale, in particolare presso il “Point nemo”, un’area marina ad est della Nuova Zelanda, dove già sono stati abbandonati altri veicoli spaziali “in pensione”.

Scatto della Terra compiuto dalla Stazione Spaziale in orbita: Credit: NASA

Storia dell’ISS

La Stazione Spaziale Internazionale è stata iniziata nel 1998 da una collaborazione tra la NASA, l’ESA, il programma spaziale russo Roscomos, l’Agenzia spaziale canadese e l’Agenzia di esplorazione aerospaziale giapponese. Fino ad oggi è stata la sede di un vero e proprio laboratorio in orbita, che fornisce molti sviluppi scientifici e tecnologici.

 

La sua permanenza nell’orbita terrestre dura da più di due decadi, e fino ad ora ha raccolto più di 3.000 attività scientifiche, a cui hanno collaborato ben oltre 4.200 ricercatori da 110 paesi di tutto il mondo.

Immagine della ISS dallo spazio. Credit: NASA

In un primo momento, l’avventura della stazione doveva concludersi nel 2024, ma a causa delle buone condizioni della struttura, l’amministrazione Biden ha deciso di prolungare la sua vita fino al 2030. In questo modo, la ISS è entrate nella sua terza decade, che la NASA annuncia essere il decennio dedicato all’avanzamento della ricerca scientifica, alla transizione commerciale e alla partnership internazionale, coinvolgendo ormai tutti i paesi che hanno preso parte al progetto.

POINT NEMO: il cimitero delle navicelle spaziali

Ma nel 2031 quale sarà la sorte dell’ISS dopo più di trent’anni di onorato servizio? Come qualsiasi altro satellite la stazione verrà rallentata, in modo tale da uscire dall’orbita terrestre, per poi precipitare attraverso l’atmosfera.

Illustrazione grafica di “Point Nemo”, cimitero marino per serbatoi di carburante in titanio e altri detriti spaziali ad alta tecnologia. Credit: NOAA

A questo punto l’ISS si inabisserà in un’area remota dell’Oceano Pacifico, ad est della Nuova Zelanda, chiamata “Point nemo”. Questo è il luogo ideale per far collassare simili strutture. Infatti, la zona marina d’interesse, essendo lontana da qualsiasi civiltà umana, è già luogo di deposito di diversi rottami spaziali: un vero e proprio “cimitero”.

 

Se mai vorremmo ancora ammirare quello che resta della Stazione Spaziale, nel 2031 non resterà altro che improvvisarsi subacquei e nuotare tra i detriti dell’ex-avamposto.

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