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Juno – n. 254 Coelum Astronomia

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Giunone scruta sotto le nubi di Giove.

Se vogliamo mantenere in salute il nostro pianeta, unico nel Sistema Solare a poter ospitare la vita, dobbiamo sforzarci di conoscere il più possibile tutti i suoi “fratelli” meno fortunati, gli altri sette pianeti che orbitano intorno al Sole.

Come dei novelli studiosi di una “fisiologia planetaria”, dobbiamo studiare i malati per imparare come mantenerci in salute. È necessario capire come i pianeti si siano evoluti, se mai alcuni di essi siano stati potenzialmente abitabili nel passato, come i quattro più piccoli (Mercurio, Venere, la Terra e Marte) siano stati guidati, nella loro evoluzione, dai quattro giganti (Giove, Saturno, Urano e Nettuno). Tra questi ultimi, il protagonista è senz’altro Giove. Tutte le teorie sulla nascita e l’evoluzione del Sistema Solare ruotano intorno alla sua “storia personale”, perché è probabilmente il primo a formarsi e quindi quello che più di tutti ha influenzato gli altri.

Sebbene molto possa essere compreso di un pianeta anche solo grazie all’osservazione da remoto, l’osservazione in-situ (ossia da vicino) ci offre informazioni altrimenti irraggiungibili. Possiamo studiarne la gravità e struttura interna, il suo campo magnetico, il suo ambiente; abbiamo la possibilità di osservare regioni non visibili da terra, come ad esempio i poli.

Già nel 1973 la NASA era riuscita a far volare la sonda Pioneer 10 fino a Giove, regalandoci alcune spettacolari immagini prima di proseguire il suo viaggio verso i pianeti più esterni. Avere una sonda in orbita intorno a Giove, però, offre ben altre potenzialità scientifiche, e allo stesso tempo richiede uno sforzo tecnologico ben più intenso.

Alla fine degli anni ‘70 la NASA iniziò a progettare una missione interamente dedicata a Giove: Galileo. Dopo Galileo, i cui risultati scientifici furono in parte compromessi da alcuni problemi tecnici, fu la volta di Juno, lanciata nel 2011 ed in orbita intorno a Giove dal 2016.

DALLA MITOLOGIA

Nel mito di Io e Zeus, questi nasconde i suoi segreti in una coltre di nubi, attraverso il quale Giunone (Juno, in inglese) si forza di scrutare. Chiamata così in onore della consorte del Dio greco, la sonda Juno osserva il pianeta Giove in maniera completa, anche al di sotto del folto strato di nubi che lo ricopre. Juno ne studia la magnetosfera facendo misure di campo magnetico, di particelle energetiche e di campi elettrici magnetici; osserva la sua aurora (cioè l’interazione della magnetosfera con l’alta atmosfera) e l’atmosfera superficiale fino a mille chilometri di profondità. Ha anche un Gravity Experiment, che permette di calcolare il campo gravitazionale del pianeta con l’obiettivo finale di spiegare se il pianeta abbia o meno un core (cioè un nucleo) solido. Tutte queste misure sono fondamentali per capire come il pianeta si sia formato.

L’aurora Nord di Giove e, nel riquadro, uno zoom sul footprint aurorale di Io, ottenuto da JIRAM. Credits: ASI / INAF / JIRAM -NASA / JPL-Caltech / SwRI

L’Articolo completo è disponibile su COELUM ASTRONOMIA N° 254 FEBBRAIO MARZO 2022.

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Cieli Perduti – Archeoastronomia: Le Stelle dei Popoli Antichi

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Grande appuntamento per i cultori della storia dell’Astronomia. Giovedì 20 Gennaio a Trieste: il Prof. Guido Cossard dell’Associazione di Ricerche e Studi di Archeastronomia Valdostana sarà protagonista di un incontro presso l’Antico Caffè San Marco (Via C. Battisti, 18 a Trieste) nell’ambito del ciclo di appuntamenti didattici “Ci sono più cose in cielo e in terra…”, organizzato dal Centro Studi Astronomici Antares Trieste assieme al prestigioso “Antico Caffè San Marco”.

Appuntamento nel quale il prestigioso ospite presenterà il suo bellissimo volume “CIELI PERDUTI – ARCHEOASTRONOMIA: LE STELLE DEI POPOLI ANTICHI”.

In questo speciale appuntamento, i presenti avranno la possibilità di spaziare dalle stelle all’archeologia, esplorare l’affascinante mondo dell’Archeoastronomia avendo come guida un noto esperto di questa disciplina, che mette in relazione gli studi astronomici con i contesti archeologici, offrendoci delle ipotesi su come gli antichi abitanti della Terra interpretavano i fenomeni celesti o osservavano i movimenti della volta celeste. Vi aspettiamo numerosi!

Per approfondimenti: 

Sito: http://www.centrostudiastronomici-antares-trieste.it/

 

ExoMars si prepara al lancio

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Verso Marte e oltre!

Il rover dell’ESA Rosalind Franklin ha completato con successo tutti i test funzionali e la manutenzione necessaria.

Strumenti ed equipaggiamento sono pronti per il volo: il 2022 non poteva incominciare meglio!

Il viaggio della missione ExoMars. Credit: ESA

«Il rover è pronto per la sua missione» ha dichiarato Pietro Baglioni, a capo del team ExoMars dell’ESA, «Il recente successo dei test di qualifica del paracadute ci dà la confidenza necessaria per poter iniziare la campagna di lancio nei tempi previsti».

Solo una volta ogni due anni si presenta la possibilità per un veicolo spaziale di raggiungere Marte, nel minor tempo possibile (circa nove mesi). Grande quindi l’entusiasmo per questa missione; in attesa del volo, Rosalind si trova in una camera ultra-pulita presso la sede di Thales Alenia Space a Torino. È infatti importante evitare ogni tipo di contaminazione prima della partenza. Accanto al rover, la sua futura compagna di viaggio: la piattaforma di atterraggio Kazachok.

Dopo un’ulteriore revisione finale verso Aprile di quest’anno, tutti i componenti del veicolo spaziale (ovvero modulo di trasporto Terra-Marte, modulo di discesa con piattaforma di atterraggio e rover) saranno spediti presso il sito di lancio a Baikonur nel Kazakistan.

Piattaforma Kazachock. A differenza del rover, che si sposterà andando in esplorazione ed effettuando diverse ricerche scientifiche, la piattaforma rimarrà sul sito di atterraggio per indagare il clima, l’atmosfera, le radiazioni e la possibile presenza di acqua (Credit immagine: ESA)

«Prima di questo ultimo viaggio, dovremmo caricare sul rover un software che faciliterà l’esplorazione autonoma di Marte», spiega Pietro Baglioni.

Primi passi in territorio marziano

Questa sarà la fase cruciale della missione.

Dopo il delicato momento di atterraggio del rover sulla piattaforma, l’uscita da Kazachok sarà la fase più attesa: un’operazione complessa, che gli ingegneri hanno studiato nei minimi dettagli già qui sulla Terra.

Nella sede di ALTEC, il gemello del rover Rosalind Franklin (chiamato Amelia), ha eseguito diversi test in un simulatore terrestre del pianeta rosso. Qui in arco di tempo di cerca 15 minuti, è stata simulata l’intera fase di sviluppo ed uscita del rover dalla piattaforma, ma in realtà su Marte tutto ciò durerà qualche giorno (all’incirca una settimana). Infatti, dopo l’atterraggio, il veicolo sarà sottoposto ad una serie di controlli e self test, prima di procedere al sollevamento delle ruote e al dispiegamento dei pannelli solari e dell’asta con le telecamere.

Amelia nel centro di simulazione ALTEC di Torino. Credit: ESA

Andrea Merlo, Capo della Robotica presso Thales Alenia Space, afferma: «L’uscita del rover su Marte è un’operazione delicata. Dobbiamo essere attenti e farlo funzionare molto lentamente, per garantire che tutte quante le strumentazioni funzionino in sicurezza».

Kazachok ha due rampe d’uscita: una anteriore e posteriore. Rosalind è progettato per percorrere anche pendenze assai ripide, ma spetta alla stazione di controllo terrestre decidere come far muovere il rover.

«Attendiamo questo momento da tanto tempo», racconta Pietro Baglioni, «Nel 2021, a causa dei disagi della pandemia di COVID-19 l’impegno per arrivare alla fine del progetto è stato notevole, con doppi turni e senza pause. Ma grazie alla collaborazione tra l’industria europea e quella russa, siamo giunti al capolinea».

Dietro le quinte

In fase di progettazione sono state riscontrate alcune problematiche. Per risolverle, ingegneri e tecnici hanno lavorato in parallelo sui vari moduli dello spacecraft, incluso il sistema paracadute e l’elettronica del modulo di discesa. Nel frattempo, a Baikonur sono iniziati i preparativi per la campagna di lancio ed il team responsabile per le operazioni è pronto presso il centro ESOC di Darmstadt in Germania.

Pietro Baglioni conclude: «Il 2023 è alle porte, e finalmente anche Rosalind potrà unirsi agli altri rover marziani con un laboratorio scientifico qualificato a bordo. E’ un passo importantissimo per l’industria spaziale europea».

Per approfondimenti:

Release:https://www.esa.int/Space_in_Member_States/Italy/Verso_il_lancio_di_ExoMars

Le supernovae di Leonida Rosino

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L’articolo completo sul n. 254 di Coelum Astronomia

Torniamo a ripercorrere la storia delle dieci supernovae scoperte da italiani nelle galassie del catalogo di Messier. Nel numero 249 di Novembre 2020 è stata trattata la prima supernova, la SN1957B scoperta dal prof. Giuliano Romano in M84. Proseguendo ora in ordine cronologico,  troviamo le quattro supernovae scoperte dal famoso astronomo prof. Leonida Rosino.

SN1960R in M85

La prima delle quattro supernova che analizziamo è la SN1960R che rappresenta la primissima supernova scoperta da Leonida Rosino e anche la seconda supernova in assoluto scoperta da un italiano dopo quella individuata il 18 maggio 1957 da Giuliano Romano.

Fu individuata nella famosa galassia lenticolare M85 posta nella costellazione della Chioma di Berenice a circa 55 milioni di anni luce di distanza e accompagnata a soli 30” ad Est dalla galassia a spirale NGC4394.

Nella notte fra il 18 e 19 gennaio 1961, precisamente alle 00:55 TU del 19 gennaio, il tecnico di turno in osservatorio Valerio Pertile eseguì una posa di 15 minuti sulla galassia M85 (NGC4382) utilizzando la pellicola Kodak 103a-O.

La mattina seguente l’immagine venne sviluppata e controllata da Leonida Rosino che notò subito un nuovo oggetto situato 8” ad Est e 132” a Sud dal centro di M85 e con una luminosità intorno alla mag.+14.

Venne perciò comunicata la scoperta telegraficamente alla Centrale Astronomica di Copenhagen, che il 23 gennaio emanò la circolare n. 1750 inviata ai più importanti osservatori mondiali, ufficializzando la scoperta.

Nella stessa data però il famoso astronomo svizzero di origini bulgare, Fritz Zwicky – che per primo coniò il termine “supernova” – trasferito negli Stati Uniti dal 1925, emanò a sua volta la circolare n. 88 del Technological Institute di California informando della scoperta fatta il 15 gennaio della supernova in M85 ad opera del suo allievo Gates, su una lastra del Palomar Observatory del 20 dicembre 1960 con l’oggetto che mostrava una luminosità pari alla mag.+12.

Questa comunicazione tardiva fatta di Zwicky innervosì non poco il nostro Rosino. In quegli anni infatti si sapeva molto poco sulla natura fisica delle supernovae ed era perciò importante che un oggetto così luminoso venisse seguito per ottenere un’accurata fotometria e dei preziosissimi spettri. Invece, com’era già successo per la scoperta della SN1957B in M84 da parte di Giuliano Romano, anche questa volta Zwicky mantenne riservata la notizia della scoperta fatta da Gates al Palomar Observatory.

Nella notte fra il 21 e il 22 gennaio (alle 3,30 TU del 22 gennaio) l’astronomo Francesco Bertola, che lavorò ad Asiago dal 1963 al 1972, utilizzando il telescopio Galileo, ottenne il primo spettro con una posa di 150 minuti su pellicola Kodak 103a-F.

Da un primo esame si pensò erroneamente che la supernova dovesse appartenere a quelle di tipo II. Furono però ripresi altri spettri il 26 gennaio, il 7-10-19 febbraio ed anche il 12 e 15 marzo e l’ulteriore studio di questi spettri ottenuti sempre da Bertola dimostrò che la SN1960R era in realtà una supernova di tipo Ia con il massimo di luminosità che si era verificato intorno al 19 dicembre 1960, quindi in corrispondenza dell’immagine ripresa a Monte Palomar.

Abbiamo provato ad entrare in possesso anche della lastra originale di scoperta ottenuta da Gates a Monte Palomar, e dopo essere stati sballottati fra vari indirizzi mail dello storico osservatorio americano, siamo entrati in contatto con la mitica Jean Muller che, per chi non la conosce, è la donna astronoma con il maggior numero di scoperte di supernovae – ben 107! – e seconda come numero totale soltanto al grande Fritz Zwicky.

Jean ci ha promesso che quando andrà a Monte Palomar (a causa del Covid gli accessi all’osservatorio sono purtroppo limitati) cercherà in archivio l’immagine di scoperta e l’eventuale spettro, ma ha tenuto a puntualizzare che probabilmente l’immagine non è più disponibile e se anche lo fosse, non è detto che sia ancora di buona qualità poiché fu realizzata su pellicola oltre sessant’anni fa. Aspettiamo comunque fiduciosi il risultato della sua ricerca, dovremo però attendere la prossima primavera.

Immagine dell’ultima supernova esplosa in M85 la SN2020nlb ottenuta in remoto dalla Namibia dall’astrofilo svedese di origini polacche Grzegorz Duszanowicz con un Celestron C14 F.7,3 + ccd SBIG ST-10XME, somma di 60 immagini da 30 secondi

SN1964F in M61

Proseguendo nell’analisi di queste quattro storiche supernovae, arriviamo alla SN1964F, la sesta supernova scoperta da Leonida Rosino e individuata nella stupenda galassia a spirale barrata M61, posta nell’ammasso della Vergine e distante circa 50 milioni di anni luce.

Considerata ad oggi la regina delle galassie Messier in fatto di esplosioni di supernovae (con ben 8 eventi conosciuti!) nel 1964 contava al suo attivo solamente due supernovae:

  • la SN1926A scoperta dagli astronomi tedeschi Maximilian Franz Wolf e dal suo allievo Karl Wilhelm Reinmuth
  • la SN1961I scoperta dall’astronomo americano Milton Lasell Humason.

Nella notte del 30 giugno 1964 alle ore 21:24 TU il tecnico di turno in osservatorio, ancora una volta Valerio Pertile, eseguì una posa di 15 minuti sulla galassia M61 (NGC4303) utilizzando la pellicola Kodak Panchrome-Royal.

Come da prassi operativa, la mattina seguente l’immagine venne sviluppata in camera oscura dai tecnici dell’osservatorio e controllata da Leonida Rosino che individuò facilmente una nuova stella di mag.+14 posta 25” Ovest e 3” Sud dal centro della galassia.

M61 era già stata ripresa anche il 3 giugno con il limite dell’immagine a mag.+17, ma la supernova non era visibile.

Il nuovo transiente fu seguito dall’Osservatorio di Asiago fotograficamente da Francesco Bertola con il telescopio Galileo da 122 cm subito dopo il tramonto dei giorni 1 – 3 – 8 – 11 – 16 luglio, evidenziando una leggera diminuzione di luminosità di circa mezza magnitudine, ma a causa della bassa altezza della galassia sull’orizzonte non fu possibile riprendere uno spettro. Cosa che invece riuscì oltre oceano dall’Osservatorio di Monte Wilson in California con lo storico telescopio Hooker da 2,5 metri. L’unico spettro ripreso permise di classificare la supernova di tipo II con il massimo di luminosità che si era verificato intorno al 13 giugno.

Immagine dell’ultima supernova esplosa in M61 la SN2020jfo ottenuta da Manfred Mrotzek dal Backyard Observatory in Buxtehude – Germania con un telescopio TEC 140 mm F.5,4 + ccd Atik 460EX

SN1972Q in M99

Arriviamo così alla terza supernova scoperta da Leonida Rosino in una galassia Messier, la diciassettesima delle 23 da lui scoperte.

Questa volta ci troviamo nella stupenda galassia a spirale M99. Distante circa 50 milioni di anni luce, anche se posta nella costellazione della Chioma di Berenice, M99 è una delle galassie più brillanti della ammasso della Vergine. Possiede una curiosa particolarità: una strana asimmetria dei suoi bracci. In particolare il braccio ad Ovest è più aperto rispetto agli altri e questo potrebbe essere dovuto ad una collisione avvenuta in passato con un’altra galassia.

Ad oggi sono quattro le supernovae conosciute esplose in questa fotogenica galassia, ma nel dicembre 1972 in M99 era stata registrata soltanto una supernova, la SN1967H scoperta il 2 luglio 1967 dal famoso astronomo svizzero Fritz Zwicky.

Nella notte del 14 dicembre 1972 alle ore 02:57 TU il tecnico di turno in osservatorio, questa volta Romeo Baù, eseguì una posa di 5 minuti sulla galassia M99 (NGC4254) utilizzando la pellicola Kodak 103a-O. Di prassi venivano sempre riprese due immagini dello stesso campo stellare e se il nuovo oggetto era presente in entrambi, era quasi certo che non si trattava di un difetto della pellicola. Questo metodo operativo, con la doppia immagine, viene adottato anche oggi con i moderni ccd proprio per escludere eventuali difetti o falsi positivi. I programmi professionali arrivano a riprendere anche tre o quattro immagini della solita galassia, essendo i tempi di posa ridotti a poche decine di secondi. L’individuazione del nuovo oggetto da parte di Rosino non fu però facile perché immerso nella condensazione del braccio Nord della galassia e con una luminosità pari alla mag.+15,8.

Il 16 dicembre la supernova fu immortalata con lo Schmidtgrande” 92/67 poi, a causa delle avverse condizioni meteo, si dovette aspettare il 6 gennaio 1973 con la supernova scesa sotto la sedicesima magnitudine e seguita ancora fotometricamente per tutto il mese di gennaio e febbraio, fino al 9 marzo, data dell’ultima ripresa con la supernova scesa ormai alla mag.+17,5.

Purtroppo a causa della luminosità della supernova prossima alla mag.+16 ed inoltre immersa in una condensazione dei bracci della galassia, non fu possibile riprendere lo spettro di conferma. Il limite spettroscopico del telescopio Galileo, che oggi con i moderni ccd arriva fino alla mag.+17, cinquant’anni fa con le pellicole fotografiche era molto inferiore. Stranamente lo spettro di questa supernova non fu ripreso neanche da altri osservatori dotati di telescopi di maggior diametro come per esempio Monte Palomar. Però seguendo l’evoluzione fotometrica fatta ad Asiago dalla data di scoperta fino al 9 marzo 1973 siamo quasi sicuri che la SN1972Q era una supernova di tipo II.

Immagine dell’ultima supernova esplosa in M99 la SN2014L ottenuta da Marco Burali dall’Osservatorio MTM con un telescopio Takahashi FRC 300 + ccd FLI 1001

SN1973R in M66

L’ultima supernova scoperta da Rosino in una galassia Messier fu la SN1973R.

Si tratta della sua diciottesima scoperta, individuata nella bella galassia a spirale barrata M66 posta a circa 35 milioni di anni luce nella costellazione del Leone. Ad oggi sono quattro le supernovae esplose in questa galassia e un LBV Supernova Impostor, ma fino al 1973 nessuna supernova conosciuta era stata individuata. Rosino perciò ottenne la primissima scoperta in questa fotogenica galassia, che è accompagnata dalla vicina M65 e dalla NGC3628 formando il famoso Tripletto del Leone, tanto caro agli astrofotografi.

Nella notte del 19 dicembre 1972 alle ore 01:14 TU il tecnico dell’osservatorio Angelo Rigoni eseguì una posa di 15 minuti sulla galassia M66 (NGC3627) utilizzando la pellicola Kodak Tri-X. Controllando l’immagine Rosino non ebbe difficoltà ad individuare una luminosa stella di mag.+14,5 posta 25” Nord e 49” Ovest dal centro della galassia. La precedente immagine di M66 ripresa ad Asiago risaliva al 1° dicembre con limite a mag.+17,5 ma con la supernova non ancora visibile.

Nel giugno del 1973 era stata inaugurata la stazione osservativa di Cima Ekar, per allontanarsi dal disturbo delle luci del centro di Asiago, con l’entrata in funzione del telescopio Copernico da 1,82 metri, che è tutt’ora il più grande telescopio operante sul territorio nazionale.

Nella notte del 28 e 29 dicembre e in quella del 18 gennaio 1974 ed anche il 14 marzo, con il telescopio Copernico furono ripresi gli spettri di questa supernova che risultò essere di tipo II. I gas eiettati dall’esplosione viaggiavano ad una velocità di circa 11.000 km/s, con il massimo di luminosità che doveva essere stato raggiunto pochi giorni prima, intorno al 14-15 dicembre, prossima alla mag.+14.

L’evoluzione fotometrica mostrò un rapido declino dalla fine di dicembre fino alla metà di gennaio per poi stabilizzarsi per circa 30 giorni alla mag.+16,5 in una specie di Plateau. Alla fine di febbraio la luminosità proseguì in un lento declino che la portò alla fine di maggio ad essere oltre la mag.+18,5.

Immagine dell’ultima supernova esplosa in M66 la SN2016cok ottenuta da Paolo Campaner con un riflettore da 400mm F/5.5 + ccd Atik428, somma di 10 immagini da 75 secondi

 

Integrazioni all’articolo di Giovanna Ranotto

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Quando scatto delle immagini del Sole, la nostra stella mi si presenta come un rosso e intenso quadro impressionista. I vortici continui della superficie mi incantano ogni volta. Per questo articolo, ho voluto proporvi tre immagini che mostrano la cromosfera della nostra stella, così come si presentava giovedì 28 ottobre 2021

Giovanna Ranotto, astrofotografa

L’articolo completo è disponibile sul n. 254 di Coelum Astronomia.

Segue l’integrazione all’articolo, completa dei passaggi da seguire per migliorare le immagini in post-produzione.

La post-produzione

Personalmente ho scelto SharpCap, un software intuitivo e gratuito, liberamente scaricabile dal sito ufficiale. Può essere utilizzato anche con webcam e frame grabber USB dedicati.

Scegliendo come soggetto il Sole è bene optare per l’acquisizione di video piuttosto che di singole immagini: ciò consente, nella successiva fase di elaborazione, di allineare e sommare i singoli fotogrammi di ogni ripresa video così da migliorare il rapporto segnale/rumore e ottenendo un’immagine finale più nitida e definita.

Elenchiamo i passaggi da seguire su questo software:

Fig. 1 Una volta selezionata la camera, le opzioni che di solito controllo sono Capture Format and Area e Camera Controls.

Con Capture Format and Area si impostano spazio colore, area di cattura (ovvero le dimensioni del video o dell’immagine in pixel), binning e formato in cui verrà salvato il video. Con Camera Controls invece modificherete esposizione e guadagno. Visto che il disco solare è molto più luminoso delle protuberanze visibili sul bordo, per l’esposizione occorrerà usare valori diversi: maggiori per le protuberanze, minori per il disco. Nel caso delle protuberanze, non bisogna esagerare con l’esposizione, altrimenti si rischia di saturare dettagli che potrebbero essere interessanti. Anche il guadagno non deve essere eccessivo, pena un forte aumento del rumore. Volutamente non inserisco valori numerici esatti, perché bisogna sperimentare finché non si trova una quadra che permetta di ottenere risultati gradevoli.

Fig. 2 Lanciare l’acquisizione del filmato cliccando su Start Capture.

Nella nuova finestra che si apre va indicato il nome del soggetto in Target Name oppure scrivendo direttamente nella casella apposita. Come numero di frames imposto 1000, il che equivale a una ripresa di circa un minuto. Non vado oltre perché poi rischio di avere una deriva dell’immagine se la montatura non è perfettamente stazionata al polo, il che rende più difficoltosa la successiva fase di elaborazione. In basso compariranno il numero di frame ripresi e in quanto tempo e il rate, cioè il numero di frame al secondo.

Una volta terminata l’acquisizione, in alto comparirà una notifica di acquisizione completata (Capture complete), evidenziata in colore verde.

Terminata questa parte, si procede con l’ultima fase di post-produzione.

L’elaborazione dei filmati

Si può iniziare l’elaborazione dei filmati, nel mio caso con AstroSurface, gratuito e progettato per girare sotto ambiente Windows. Per gli amanti di Linux l’opzione è passare attraverso il software Q4Wine.

Fig. 3 Come prima cosa aprite il video cliccando su Open FilesOpen SER or AVI

Ora spostatevi su Register nella finestra che si apre. Si aprirà a questo punto una nuova finestra, come mostrato di seguito.

Fig. 4 I numeri nei quadrati gialli indicano la sequenza dei passaggi da fare.

Non ci si può sbagliare, perché per esempio cliccando sulle opzioni di 2 se non si sono eseguiti prima i passaggi di 1 semplicemente non si può procedere. Trascinando il mouse create un rettangolo: se delle giuste dimensioni diventerà verde.

Questo rettangolo e l’area che AstroSurface controllerà per decidere quali sono i migliori frame del video da sommare: in pratica è soltanto un’anteprima che mostra come varia l’immagine cambiando i parametri. Se le modifiche all’immagine diventeranno effettive, verranno applicate a tutta l’immagine (non solo alla zona del rettangolo verde).

Come impostazioni lascio quelle di default (come mostrato in Fig. 4). Lanciate l’analisi premendo Analyse. Questo processo può richiedere un po’ di tempo.

Ora occorre impostare la griglia di punti di riferimento che servirà ad Astrosurface per allineare i vari frame del video: per fare questo scegliete Multi-Points, a meno che non abbiate immagini di cattiva qualità.

Al punto 4a non cambiate nulla. Al punto 5 scegliete tif come Output: in questo modo, se successivamente si dovesse processare ulteriormente l’immagine con altri software tipo GIMP o Photoshop, non si verifica una perdita di informazioni come invece avviene nel caso di formati immagini compressi come il jpeg.

Fig. 5 Infine cliccate su Stack per avviare allineamento e somma dei frame, anche questo processo richiede un po’ di tempo.

Una volta terminato il processo cliccate su Edit (come indicato qui sotto in Fig.6) per aprire le regolazioni per i Wavelets, che ci serviranno per rendere l’immagine più incisa e contrastata.

Le opzioni da regolare sono Sharpen LFSharpen HF. Anche in questo caso occorre disegnare un’area rettangolare trascinando il mouse.

Aumentando gradualmente i parametri, vi accorgerete come man mano l’immagine della cromosfera via via migliori; suggerisco di aumentare poco per volta i valori dei parametri. Se il risultato non vi soddisfacesse, cliccate sul bottone Reset per riportare i parametri ai valori originari.

Cliccate infine su Do All → Ok per confermare le vostre scelte e applicare le modifiche all’immagine. Infine salvate l’immagine cliccando su Files → Save As Image or ROI.

Hunga Tonga: l’Eruzione del Vulcano Sottomarino

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Lo scorso 13 gennaio, il satellite GOES West della NOAA ha catturato una nuova eruzione esplosiva del vulcano Hunga Tonga-Hunga Ha’apai, situato nel Regno polinesiano di Tonga nel Pacifico meridionale.

Secondo le prime analisi, l’eruzione ha avuto raggio di 260 km, emettendo una grande quantità di cenere, vapore e gas per oltre 20 km nell’atmosfera. È stata circa sette volte più potente della precedente eruzione del 20 dicembre 2021.

A seguito dell’esplosione si è verificato un maremoto presso Nuku’alofa, la capitale di Tonga, dove è stata misurata un’onda di tsunami di 30 cm. A preoccupare invece è lo tsunami che ha raggiunto il Giappone, con un’onda di 1,2 m nella remota isola meridionale di Amami Oshima. Lo ha reso noto l’agenzia meteorologica giapponese, aggiungendo che sono possibili onde alte fino a 3 metri.

Nelle immagini riprese da satellite possiamo vedere l’estensione del pennacchio di cenere e più onde di gravità che si propagano verso l’esterno. Del GOES-R Series, ovvero l’attuale generazione di satelliti meteorologici geostazionari, la strumentazione in grado di catturare immagini nella banda visibile del rosso è l’ideale per identificare dettagli dell’eruzione a piccola scala.

L’isola che non (c’era)

Hunga Tonga-Hunga Haʻapai, l’isola su cui si trova il vulcano, è di recente formazione. Il vulcano sottomarino ha raggiunto la superficie a seguito di una eruzione nel 2009, proprio a metà strada tra l’isola Hunga Tonga e Hunga Ha’apai (inizialmente erano divise!). Tra dicembre 2014 e gennaio 2015 una nuova eruzione ha infine unito le due isole.

Questa “nuova” isola è stata la prima del suo genere a formarsi durante l’era moderna dei satelliti. Pertanto, gli scienziati sono stati in grado di studiarne la nascita e l’evoluzione dallo spazio. Inoltre, dalla sua formazione, l’isola ha eruttato in modo intermittente, regalandoci incredibili immagini!

Il GOES West, noto anche come GOES-17, fornisce attualmente una copertura satellitare geostazionaria dell’emisfero occidentale, inclusi gli Stati Uniti, l’Oceano Pacifico, l’Alaska e le Hawaii. Lanciato per la prima volta nel marzo 2018, il satellite è diventato pienamente operativo nel febbraio 2019.

Si configura quindi come lo strumento perfetto per osservare l’evoluzione di questo incredibile vulcano sottomarino. E chissà ancora di quante altre spettacolari eruzioni di questo tipo…!

Per approfondimenti:

Release: https://www.nesdis.noaa.gov/news/hunga-tonga-hunga-haapai-erupts-again

Gruppo Astrofili Palidoro: “La prima Luna Piena del 2022 in diretta web”

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Il Gruppo Astrofili Polidoro si propone al pubblico con una diretta web della prima Luna piena del 2022.

Martedì 18 gennaio il nostro satellite sarà trasmesso dai propri telescopi dell’associazione tramite la relativa pagina di Facebook.

Tutti gli appassionati potranno ammirare l’evento comodamente seduti davanti al proprio pc. Basterà collegarsi alle ore 21.30 al seguente link: https://www.facebook.com/astrofilipalidoro

SOMS Circolo Galilei: “Donne e Scienza”

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Il SOMS Circolo Galilei propone un ciclo di conferenze scientifiche a tema “Donne e Scienza” per i primi mesi del 2022. Sarà un’occasione per avviare alcune riflessioni sulle questioni di genere in ambito scientifico, grazie ai contributi di alcune importanti relatrici che illustreranno i contenuti delle attività in cui sono impegnate e, contestualmente, le loro valutazioni sul problema della disparità di genere.

Si comincia il 18 Gennaio, con la prof.ssa Carlotta Sorba, storica dell’Università di Padova che racconterà “Storia di donne di Scienza“. La storia delle donne, accademiche e studentesse dell’Ateneo padovano, ma con uno sguardo ampio verso l’Italia e l’Europa, per far luce su una traiettoria fino ad ora poco indagata, che ha il suo inizio alla fine del Seicento; un percorso accidentato, visto che ancora oggi la presenza e il ruolo delle donne nelle università e nella scienza rimane una questione aperta e in buona parte da risolvere.  Saranno anche disponibili alcuni suoi libri. Inizio ore 20.45

L’incontro con la professoressa Sorba si terrà solo in videoconferenza accessibile sulla pagina YouTube del Circolo Galilei (https://www.youtube.com/channel/UClmcCdIqLo17JyI2ZNyECpg) e sulle pagine FaceBook del Circolo Galilei SOMS Mogliano e di Officina 31021

Per approfondimenti:

Sito: http://circologalilei.somsmogliano.it/2021/12/donne-e-scienza/

Le galassie sono tante, milioni di milioni

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Una mappatura da record per il Dark Energy Spectroscopic Instrument (DESI): in soli sette mesi è stata creata la mappa dell’Universo più grande e dettagliata di sempre!

Lo scopo del DESI è di creare una mappa tridimensionale dell’Universo raggiungendo regioni remote dello spazio e del tempo analizzando un database di dati relativi al redshift di galassie e quasar.

Finora sono state catalogate più di 7,5 milioni di galassie e ne sta aggiungendo altre a un ritmo di circa un milione al mese

Entro la fine della sua analisi, nel 2026, si prevede che DESI vanterà oltre 35 milioni di galassie nel suo catalogo, consentendo così un’enorme – e finora insuperabile – varietà di ricerca cosmologica e astrofisica.

Nell’immagine, uno spaccato della mappa 3D delle galassie dei primi mesi di lavoro del DESI. La Terra è al centro, con le galassie più lontane tracciate a distanze di 10 miliardi di anni luce. Ogni punto rappresenta una galassia. Questa versione della mappa mostra un sottoinsieme di 400.000 dei 35 milioni di galassie che saranno raccolti nella mappa finale.
Credits: D. Schlegel/Berkeley Lab utilizzando i dati di DESI
Ringraziamenti: M. Zamani (NOIRLab di NSF)

Scomponendo la luce di ciascuna galassia nel suo spettro di colori, DESI può determinare il redshift delle stesse, ovvero lo “spostamento verso il rosso” della frequenza dell’onda elettromagnetica. Questo parametro ci dice molto sulla distanza delle galassie catalogate: uno spettro elettromagnetico spostato verso il rosso indica infatti una lunghezza d’onda maggiore rispetto a quella di emissione, quindi un oggetto più lontano e “vecchio”.

Con una mappa 3D del cosmo in mano, i fisici possono tracciare ammassi e superammassi di galassie. Strutture che portano echi della loro formazione iniziale, quando erano solo increspature nel cosmo primordiale. Eliminando quegli echi, i fisici possono utilizzare i dati di DESI per determinare la storia di espansione dell’Universo.

DESI finora ha completato solo il 10% circa della sua missione quinquennale. Una volta completata, la mappa 3D finale fornirà una migliore comprensione dell’energia oscura e quindi fornirà a fisici e astronomi una migliore conoscenza del passato – e del futuro – dell’Universo.

«C’è molta bellezza racchiusa qui»

Così esordisce Julien Guy, scienziato del Berkeley Lab riferendosi a questa prima mappatura.

«Nella distribuzione delle galassie nella mappa 3D ci sono enormi ammassi, filamenti e vuoti. Sono le strutture più grandi dell’Universo. Ma al loro interno trovi un’impronta dell’Universo primordiale e la storia della sua espansione da allora».

Le scoperte del DESI hanno un fascino impareggiabile. Se questi sono solamente gli esordi della missione – tra l’altro ostacolata dai mesi di stop causa emergenza Covid – ci aspettiamo davvero grandi cose da questa incredibile tecnologia!

Per approfondire

DESI at Kitt Peak Has Mapped More Galaxies Than All Previous 3D Surveys Combined

Gigante gassoso nascosto in bella vista

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Un enorme pianeta gassoso, inizialmente sfuggito allo sguardo attento dei telescopi, è stato individuato da un astronomo dell’AUC Riverside e un gruppo di City Scientists (ovvero comuni cittadini che hanno partecipato alla ricerca, ndr).

L’esopianeta TOI-2180 b sembrerebbe avere lo stesso diametro di Giove, ma con una massa ben tre volte maggiore rispetto a quella del nostro gigante gassoso. Si ritiene che contenga 105 volte la massa della Terra, presentando elementi più pesanti dell’elio e dell’idrogeno.

I dettagli della scoperta sono stati pubblicati sull’Astronomical Journal.

Non si trova niente di simile nel Sistema Solare

Rappresentazione artistica di un esopianeta gigante gassoso che orbita attorno a una stella di tipo G, simile a TOI-2180 b. Credit: NASA

«TOI-2180 b è stata un’incredibile sorpresa», afferma l’astronomo dell’UCR Paul Dalba, che ha contribuito a confermare l’esistenza del pianeta, «Possiede infatti tre caratteristiche peculiari: ha un’orbita di diverse centinaia di giorni; è relativamente vicino al nostro pianeta Terra (379 anni luce sono considerati vicini per un esopianeta); possiamo osservarlo transitare davanti alla sua stella. È un caso molto raro individuare un pianeta che rientri in questi tre fattori».

Dalba spiega anche che il pianeta è particolare poiché impiega 261 giorni per completare un viaggio intorno alla sua stella: un tempo molto lungo rispetto a molti altri giganti gassosi conosciuti!

Per confermare la presenza di questo pianeta è stato messo in campo il satellite Transing Exoplanet Survey Satellite (TESS) della NASA. Il suo scopo è quello di ricercare esopianeti tramite cali di luminosità, che si verificano quando un pianeta passa di fronte ad una stella.

«In generale, la regola è che bisogna avere tre “cali” o “transiti” prima di confermare di aver travato un nuovo pianeta», prosegue Dalba, «Un singolo evento non è sufficiente, perché potrebbe essere causato da un telescopio di passaggio con un jittervariazione di segnale, ndr – o altri oggetti in transito».

Per queste ragioni solitamente TESS non si concentra su singoli eventi di transito, ma il gruppo di City Scientists invece sì.

Tom Jacobs, ex ufficiale di marina statunitense, esaminando i dati da satellite, ha osservato una debole variazione di luce della stella TOI-2180 in un’unica occasione. L’ex marines ha subito pensato che fosse un nuovo pianeta che transitasse davanti la stella e ha quindi contatto subito Dalba, specializzato nello studio dei pianeti che impiegano molto tempo per orbitare attorno alle loro stelle, per trovare una conferma alla sua ipotesi.

«Per svelare il mistero abbiamo utilizzato l’Automated Planet Finder Telescope dell’Osservatorio di Lick», racconta Dalba, «Abbiamo poi analizzato la spinta gravitazionale del gigante gassoso, che ci ha permesso di calcolare la sua massa e stimare con qualche probabilità la sua orbita».

Da quel momento, nella speranza di osservare un secondo transito, il team di ricercatori ha organizzando un sistema composto da 14 diversi telescopi in tre continenti nell’emisfero settentrionale. Così per 11 giorni nell’Agosto scorso, lo sforzo impiegato ha prodotto 20.000 immagini della stella TOI-2180, ma nessuna di queste sembra ancora confermare con certezza la presenza dell’esopianeta.

Tuttavia, i dati raccolti e analizzati hanno portato a stimare che TESS vedrà transitare il gigante gassoso a Febbraio di quest’anno. Non resta altro che attendere!

Fonti:

Release: https://news.ucr.edu/articles/2022/01/13/unusual-team-finds-gigantic-planet-hidden-plain-sight-0

The Astronomical Journal (January 2022): “The TESS-Keck Survey. VIII. Confirmation of a Transiting Giant Planet on an Eccentric 261 Day Orbit with the Automated Planet Finder Telescope” by Paul A. Dalba, Stephen R. Kane, Diana Dragomir, Steven Villanueva Jr., Karen A. Collins, Thomas Lee Jacobs, Daryll M. LaCourse, Robert Gagliano, Martti H. Kristiansen, Mark Omohundro.

Luci e Caos dal centro della Via Lattea

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Il nostro centro galattico non è così oscuro e profondo come si pensava. Alexis Andrés e il suo team di ricercatori dell’Università di Amsterdam ha osservato che Sagittario A* si illumina in modo irregolare di giorno in giorno, con intervalli che si dilatano su un range temporale a lungo termine.

Sono stati oggetto di esame i dati raccolti in 15 anni per giungere ad una simile conclusione. Lo studio è poi stato pubblicato recentemente sulla Monthly Notice della Royal Astromical Society.

Il buco nero al centro della Via Lattea è una enorme sorgente di onde radio, raggi X e raggi gamma (la luce visibile è bloccata dell’interposizione di gas e polvere). Gli astronomi sanno da decenni che Sagittario A* a queste altissime frequenze lampeggia ad intermittenza, emettendo esplosioni di radiazioni da dieci a cento volte più luminose dei normali segnali che si osservano solitamente in un buco nero.

Per sapere qualcosa in più sulla natura di questi bagliori, Andrés ha analizzato i dati messi a disposizione dal Neil Gehrels Swift Observatory della NASA, un satellite in orbita intorno alla Terra dedicato al rilevamento dei lampi di raggi gamma. Lo Swift Observatory osserva i raggi gamma dal buco nero dal 2006. La ricerca ha mostrati alti livelli di attività dal 2006 al 2008, con un forte calo dell’attività nei quattro anni successivi. Dopo il 2012 però la frequenza dei raggi di luce è aumentata di nuovo.

«La lunga ripresa di dati dell’Osservatorio Swift non è stato un evento accidentale», afferma la coautrice e precedente supervisore di Andrés, la dott.ssa Nathalie Degenaar anche lei dell’Università di Amsterdam, «Dalla ripresa dell’intensa attività ho chiesto regolarmente più tempo per compiere le osservazioni. Questo progetto richiede molto impegno e costanza, ma ci permette analisi mai tentate».

Infatti, nei prossimi anni il team di astronomi prevede di raccogliere dati sufficienti per escludere se le variazioni dei brillamenti di Sagittario A* siano dovute al passaggio di nubi o stelle gassose interposte sulla linea visuale fra noi e il buco nero, e contestualmente cercare altre cause dell’irregolarità nelle emissioni fino ad ora osservate.

«Il modo in cui si verificano esattamente questi brillamenti rimane infatti poco chiaro», conclude un altro membro della ricerca, il dott. Jakob van den Eijnden dell’Università di Oxford, «In passato si ipotizzava che i bagliori si diffondessero dopo il transito di nuvole gassose o stelle, ma non ci sono ancora prove evidenti in grado di confermarlo. Sarà necessario proseguire con le indagini per convalidare l’ipotesi secondo cui le proprietà dei gas presenti nel buco nero abbiano più o meno un ruolo di rilevanza nei brillamenti».

Per approfondimenti:

Coleum Viaggio al Centro della Via Lattea clicca qui

Realese: https://ras.ac.uk/news-and-press/news/black-hole-centre-milky-way-unpredictable-and-chaotic

Monthy Notices of the Royal Astronomical Society (Januart 2022): “A Swift study of long-term changes in the X-ray flaring properties of Sagittarius A* ” by A. Andrés, J. van den Eijnden, N. Degenaar, P. A. Evans, K. Chatterjee, M. Reynolds, J. M. Miller, J. Kennea, R. Wijnands, S. Markoff, D. Altamirano, C. O. Heinke, A. Bahramian, G. Ponti, D. Haggard.

Bizzarrie dell’Universo: esopianeti come palle da rugby

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Chi l’ha detto che i pianeti debbano essere tutti di forma sferica?

Bizzarro ci piace

L’attento sguardo del telescopio spaziale CHEOPS ci rivela infatti la strana forma di WASP-103b – un esopianeta collocato nella costellazione di Ercole – il quale è incredibilmente assomigliante a una… palla da rugby!

La particolare conformazione di questo esopianeta è spiegata dall’ESA, ente responsabile della missione CHEOPS:  WASP-103b orbita molto vicino alla propria stella (impiega infatti meno di un giorno a compiere un giro completo!) e le intense forze di marea esercitate hanno comportato questa caratteristica deformazione.

L’esopianeta è stato scovato osservandone il transito attorno la propria stella ospite: lo studio della curvatura della luce ha permesso poi di rivelare dettagli sulle sue dimensioni e di derivare uno specifico parametro – denominato Love number – che misura la distribuzione della massa all’interno del pianeta.

Di WASP-103b ora non solo conosciamo la forma bizzarra, ma sappiamo anche che la sua massa è di 1,5 volte più grande di quella di Giove, il suo raggio il doppio del nostro gigante gassoso e la temperatura 20 volte più alta rispetto a quella di quest’ultimo.

Cheops reveals a rugby ball-shaped exoplanet (credits ESA)

Il Love number per WASP-103b è vicino a quello di Giove, il che suggerisce che la struttura interna dei due pianeti sia simile, nonostante WASP-103b abbia il doppio del raggio.

«In linea di principio ci aspetteremmo che un pianeta con 1,5 volte la massa di Giove abbia all’incirca le stesse dimensioni, quindi WASP-103b deve essere molto gonfiato a causa del riscaldamento della sua stella oppure forse per altri meccanismi», afferma Susana Barros dell’Instituto de Astrofísica e Ciências do Espaço and University di Porto (Portogallo), a capo della ricerca.

«Se riusciamo a confermare i dettagli della sua struttura interna con osservazioni future forse potremmo capire meglio cosa lo rende così gonfiato. Conoscere le dimensioni del nucleo di questo esopianeta sarà anche importante per capire meglio come si è formato», conclude.

Ma le bizzarrie non finiscono qui!

C’è un’ulteriore curiosità che ha attirato l’attenzione del team di ricerca.

Le interazioni di marea tra una stella e un pianeta delle dimensioni di Giove che transita a una così breve distanza solitamente farebbero accorciare il periodo orbitale del pianeta, avvicinandolo gradualmente alla propria stella per poi essere inghiottito dalla stessa.

Tuttavia, le misurazioni di WASP-103b sembrano indicare che il suo periodo orbitale stia aumentando – piuttosto di diminuire – e che il pianeta si stia allontanando lentamente dalla stella. Questa rilevazione incredibile fa pensare che qualcosa di diverso dalle forze di marea stia influenzando il moto del pianeta.

Si aprono moltissimi scenari e ci si prepara a ulteriori calcoli e rilevazioni per confermare o meno questo trend. Una delle ipotesi in ballo è che ci sia una stella compagna di quella principale che possa deviare l’orbita di WASP-103b. Compito di CHEOPS sarà proprio di approfondire queste ipotesi. In suo aiuto giungerà presto anche il JamesWebb Space Telescope, come preannuncia proprio l’ESA in un recente tweet dell’11 gennaio:

Per approfondire:

Vuoi saperne di più sull’attività di CHEOPS, progetto dell’Agenzia Spaziale Italiana (ASI) e dello studio dei pianeti extrasolari? L’approfondimento sul sito dell’ESA dedicato a questa missione: Missione CHEOPS

L’emozione del lancio del telescopio spaziale e il primo esopianeta rilevato, raccontati sul sito di Coelum Astronomia.

CHEOPS non è nuovo a incredibili scoperte: Tripletta di mondi per il telescopio spaziale Cheops

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Cicloni di Giove simili ad un Oceano

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Il satellite della NASA, Juno, questa volta ha scattato particolari fotografie dei cicloni polari del pianeta più grande del nostro Sistema Solare. Tali immagini hanno fornito ad un team di oceanografi del materiale per un nuovo studio, pubblicato di recente su Nature Physics, che prova a descrivere la ricca turbolenza ai poli di Giove e le forze fisiche alla base della complessa meteorologia del pianeta.

L’autrice della ricerca, Lia Siegelman, oceanografa fisica presso la Scripps Institution of Oceanography dell’Università della California a San Diego, ha scelto di intraprendere questo tipo di studio dopo aver notato che i cicloni di Giove sembrano avere delle somiglianze con i vortici oceanici che ha approfondito durante il suo dottorato. Combinando le immagini da satellite e i principi della fluidodinamica, Siegelman e colleghi hanno fornito prove per un’ipotesi di lunga data, cioè che la “convenzione umida” – ovvero il fenomeno secondo cui l’aria più calda si alza e diventa meno densa – è alla base dei cicloni.

«Quando ho notato la ricchezza della turbolenza attorno ai cicloni, con filamenti e vortici più piccoli, mi sono subito ricardata della turbolenza che si vede nell’oceano attorno ai mulinelli», ha detto Siegelman, «Ad esempio, questi fenomeni sulla Terra sono particolarmente evidenti nelle immagini ad alta risoluzione delle fioriture di placton».

Tali similitudini potrebbero aiutare anche a capire i meccanismi fisici in gioco sul nostro pianeta.

«Studiare un pianeta così lontano e applicarvi una fisica che già conosciamo, è qualcosa di davvero affascinante», conclude Siegelman.

Juno è la prima navicella spaziale a catturare immagini dei poli di Giove. Questa è dotata di due sistemi di telecamere, uno per le immagini in luce visibile e un altro per le firme di calore, monitorate dal Jovian Infrared Auroral Mapper (JIRAM), uno strumento installato sul satellite e supportato dall’Agenzia Spaziale Italiana.

I ricercatori hanno così analizzato una serie di immagini ad infrarossi. Sono state calcolate la velocità e la direzione del vento, considerando anche il movimento compiuti delle nuvole. Successivamente è stato preso in esame lo spessore delle nubi; ed è stato riscontrato che le regioni più calde corrispondono a nuvole sottili, mentre le regioni più fredde rappresentano una fitta copertura nuvolosa, che ricopre l’atmosfera di Giove. Di conseguenza, sembra che all’interno dei cicloni, l’aria che sale rapidamente all’interno delle nuvole agisce come una fonte di energia che alimenta il sistema atmosferico a diversi livelli, raggiungendo anche i grandi vortici circumpolari e polari.

Otto di questi cicloni si verificano al polo nord di Giove, mentre altri cinque al polo sud. I ricercatori non sono sicuri sull’origine di tali fenomeni fisici e da quanto tempo circolino, ma ora sembra essere chiaro che la “convenzione umida” sia il meccanismo che li sostiene.

Juno continuerà ad orbitare attorno a Giove fino al 2025, fornendo al team di Siegelman ulteriori immagini che potranno essere usate per approfondire la ricerca. Il progetto è supportato anche dal National Science Foundation, con una prospettiva a lungo termine, così che altri nuovi e interessanti misteri di Giove potranno finalmente essere svelati.

Fonti:

Realese: https://scripps.ucsd.edu/news/ocean-physics-explain-cyclones-jupiter-0?_ga=2.38506915.1039773719.1641893993-1287429053.1641893993

Nature Physics (January 2022): “Most convection drives an upscale energy transfer at Jovian high latitudes” by Lia Siegelman, Patrice Klein, Andrew P. Ingersoll, Shawn P. Edwald, William R. Young, Annalisa Bracco, Alessandro Mura, Alberto Adriani, Davide Grassi, Christina Plainaki & Giuseppe Sindoni.

Per approfondimenti sul tema ricordiamo il dossier “JUNO” sul n. 254 di Coelum Astronomia.

Fiamme da Orione

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L’Atacama Pathfinder Experiment (APEX), telescopio gestito dall’ESO sul freddo altopiano di Chajnantor nel deserto di Atacama in Cile, ha catturato il pirotecnico spettacolo della Nebulosa Fiamma di Orione.

Nell’immagine rielaborata compaiono anche nebulose più piccole come la Nebulosa Testa di Cavallo, conosciuta grazie alle osservazioni dell’ex astronomo Thomas Stanke. Lui e il suo team hanno colto l’occasione per testare lo strumento SuperCam, installato su APEX. «Come amano dire gli astronomi, ogni volta che c’è in giro un nuovo telescopio o strumento, osserva Orione: ci sarà sempre qualcosa di nuovo e interessante da scoprire!», racconta Stanke. Gli studi effettuati con questa nuova tecnologia sono stati pubblicati sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

La regione di Orione è una delle più famose aree del cielo osservate, ed ospita nubi molecolari giganti – vasti oggetti cosmici costituiti in maggior parte da idrogeno. Queste nubi si trovano a 1300 e 1600 anni luce di distanza da noi e costituiscono uno dei vivai stellari più attivi nelle vicinanze del Sistema Solare. La Nebulosa Fiamma, scattata da APEX, ospita al suo centro un ammasso di giovani stelle che emettono radiazioni ad alta energia e che fanno risplendere i gas circostanti.

Chiaramente è uno oggetto celeste con molto da offrire. Infatti, Stanke e collaboratori, oltre alla nebulosa, hanno potuto ammirare anche un’altra vasta gamma di oggetti. Ad esempio, nell’elenco possono essere inserite le nebulose Messier 78 e NGC 2071 – nubi di gas e polvere interstellari che si ritiene riflettano la luce delle stelle vicine. L’equipe ha persino scoperto una nuova nebulosa: un piccolo oggetto ribattezzato con il nome di “Nebulosa Mucca”.

Le analisi sono state condotte come parte della survey ALCOHOLS (APEX Large CO Heterodyne Orion Legacy Survey), che ha esaminato le onde radio emesse dal monossido di carbonio (CO) nelle nubi di Orione. L’utilizzo di questa molecola serve per sondare vaste aree del cielo, consentendo agli astronomi di mappare grandi nubi di gas che danno vita a nuove stelle. Infatti, a differenza di quanto potrebbero suggerire le “fiamme” che emergono dalle immagini, le nubi sono in realtà molto fredde, con temperature in genere di solo poche decine di gradi sopra lo zero assoluto.

Questa regione del cielo è già stata scansionata molte volte in passato, a diverse lunghezze d’onda, ed ogni banda analizzata rivela sempre qualche nuova sorpresa. Un altro telescopio dell’ESO, il VISTA (Visible and Infrared Survey Telescope for Astronomy) vuole sfruttare la banda infrarossa per attraversare le spesse nubi di polvere interstellare ed individuare oggetti che altrimenti rimarrebbero nascosti.

Non resta far altro che puntare gli occhi al cielo ed attendere quale altro incredibile spettacolo Orione ha in serbo per noi!

Per approfondimenti:

Realese:

https://www.eso.org/public/italy/news/eso2201/?lang

Buon 2022 con il calendario Copernicus-Sentinel dell’Esa

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Dodici composizioni inedite delle immagini dei satelliti Sentinel, del programma Copernicus,nel calendario Esa 2022

I colori e l’originalità di un Kandinskij e il contenuto scientifico di un programma spaziale: si presenta così la raccolta di dodici immagini che l’Agenzia spaziale europea (Esa) ha selezionato per il suo calendario 2022.

Copernicus e i satelliti Sentinel

CopernicusSentinelCalendar 2022, questo il nome sceltodall’Esa. Le immagini, infatti, provengono dai satelliti Sentinel del programma Copernicus, il programma europeo di osservazione della Terra di cui l’Esa fa parte. Lo scopo è quello di monitorare il nostro pianeta e il suo ambiente a beneficio di tutti i cittadini dell’Ue e non solo, attraverso lo studio dell’atmosfera, dell’ambiente marino, delle terre emerse e dei luoghi in cui il cambiamento climatico è evidente (come ghiacciai e foreste), ma anche attraverso il monitoraggio e la gestione di situazioni emergenziali come le catastrofi naturali. I Sentinel, attualmente, contano sei missioni composte da una costellazione di due satelliti ciascuna, in modo da soddisfare esigenze di copertura del territorio e garantire osservazioni ripetute. La strumentazione di bordo è varia e specificamente progettata per studiare un aspetto del nostro pianeta e delle attività umane su di esso. Sentinel-2, ad esempio, in orbita polare, produce immaginia diverse lunghezze d’onda ead alta risoluzione della vegetazione, del suolo e della copertura idrica, mentre gli strumenti a bordo di Sentinel-3 misurano con precisione e affidabilitàla topografia della superficie marina,la temperatura e il colore della superficie del mare e della terra; lo scopo primario di questa missione è supportare i sistemi di previsione degli oceani, così come il monitoraggio ambientale e climatico. E sulle previsioni climatiche lavora anche Sentinel-5P (il precursore di Sentinel-5, attualmente in costruzione), che fornisce dati tempestivi sulla quantità divari tipi di gas e aerosol che influenzano la qualità dell’aria e il clima.

Famiglia Sentinel Credit ESA

Le immagini per il 2022

Ci sono un po’ tutti questi scenari nelle immagini prodotte dal programma Copernicus, mentre quelle scelte per il calendario sono per lo più focalizzate sulle attività umane, ciascuna rielaborata per portare in evidenza un aspetto e dare un messaggio, e ciascuna spiegata con una semplice didascalia contenente i dati scientifici, i luoghi, i colori, e la fonte.

Facciamo allora qualche esempio. Gennaio ci porta nel sud della Spagna, ad Alméria, città costiera costellata di serre dal tetto bianco, tanto da essersi guadagnata il nome di “Mar de plastico”. Qui, fra produttori locali e grandi multinazionali, si coltivano milioni di tonnellate di frutta e verdura che finisce, ogni giorno, anche nei nostri supermercati. Febbraio e ottobre, invece, sembrano davvero un quadro astratto. Si tratta però delle pianure del Texas e dell’Arabia Saudita: in particolare, la prima è una sovrapposizione di tre immagini satellitari che rappresentano tre diversi indici (uno giallo, uno verde e uno rosso) che misurano il tasso di crescita della vegetazione all’inizio della stagione. Gli stessi indici sono anche quelli che compongono la seconda immagine, che però risulta dalla sovrapposizione di scatti presi in tempi diversi. Il filo conduttore, ancora una volta, l’importanza dell’attività agricola nell’economia. E di agricoltura parla, in realtà, la maggioranza delle immagini scelte dall’Esa per il 2022: dai campi coltivati in Israele e sulla striscia di Gaza nel mese di marzo, all’Imperial Valley di giugno: una zona desertica in California che l’uomo – utilizzando l’acqua del fiume Colorado – è riuscito a rendere una delle regioni più produttive per uva, cotone, noci e frutta. In aprile, trovano posto anche le risaie che sostengono la popolazione del Vietnam, la cui evoluzione temporale negli ultimi mesi del 2019 è mostrata grazie a una serie di immagini radar sovrapposte.

L’anno si chiude, infine, in Sud Corea: in trasparenza, nel mare azzurro, si notano delle piccole e numerosissime tracce blu scuro. Si tratta di veri e propri campi subacquei in cui le alghe marine crescono sulle corde dell’acquacoltura: la Corea è la più grande consumatrice mondiale e la quarta produttrice di alghe, molluschi e piccoli pesci.

Per vedere tutte le immagini raccolte ed elaborate dall’Esa, e per scaricare il CopernicusSentinelCalendar 2022 potete visitare il sito dell’Agenzia spaziale europea, nella sezione che l’ente ha dedicato all’osservazione della Terra.

Per tutte le notizie Astronomia per la Terra segui la rubrica a questo link https://www.coelum.com/articoli/astronomia-per-la-terra

Incredible…One more impact on Jupiter! Pt. 2

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Discovered on March 25, 1993, by astronomers Eugene and Carolyn Shoemaker and by amateur David Levy examining some photographic plates of Jupiter’s surroundings, the comet immediately aroused the interest of the scientific community: it had never happened that a comet was discovered orbiting a planet and not directly around the Sun.

Captured by Jupiter presumably between the second half of the sixties and the early seventies, it travelled in two years a very long orbit, which took it from a minimum distance of 35000 km from Jupiter to a maximum of 25 million kilometers. The comet made several transits near the gas giant, during which it suffered the intense tidal forces responsible for the final fragmentation of a nucleus of at least two kilometers in diameter. In 1993 Shoemaker-Levy 9 appeared as a long line of bright dots, bathed in the luminescence of their tails and on a collision course with Jupiter.

The studies conducted on the orbit of the comet shortly after its discovery led to the conclusion that it would fall on the planet by July 1994. It was then started an extensive observational campaign that involved many instruments for the recording of the event; among these, the Hubble Space Telescope, the ROSAT satellite, and the Galileo probe, which was en route for a rendezvous with the planet planned for 1995.

The impacts occurred on the side of the planet opposite the Earth, but the Galileo probe was able to observe them directly from a distance of 240 million kilometers. The rapid rotation of Jupiter then made observable from Earth the signs of the entry of individual fragments in the upper atmosphere of the planet.

The first impact occurred at 20:13 UT on July 16, 1994, when fragment A of the nucleus hit the southern hemisphere of the planet at a speed of 60 km/s. The instruments on board of Galileo probe detected a fireball that reached the temperature of 24000°C.

Over the next six days, 21 distinct impacts were observed, with the largest coming on July 18 at 07:33 UT when fragment G struck Jupiter. This impact created a giant dark spot over 12,000 km across and was estimated to have released an energy equivalent to 6,000,000 megatons of TNT (600 times the world’s nuclear arsenal). Two impacts 12 hours apart on July 19 created impact marks of similar size to that caused by fragment G, and impacts continued until July 22, when fragment W struck the planet.

So great was the disruption caused in the Jovian atmosphere, that the scars of the event remained observable from Earth for several months. The direct observation of impact events on Jupiter has led to the growing awareness, even in public opinion, that the impact of a comet or asteroid on our planet would have potentially devastating consequences. Therefore, the possibility of such a fall has become something concrete, from which one must, as far as possible, guard against. The general public was very impressed by the event, and the media devoted a great deal of attention to Shoemaker-Levy 9.

The role played by non-professional astronomers in identifying the signs of impact is also significant, thanks to a reduction in the cost of advanced observation instruments.

In 2009 and 2010, in fact, other impacts were recorded: the first on July 19, 2009 (just 15 years after that of Shoemaker-Levy 9), when the Australian amateur Anthony Wesley noticed from his observatory in New Wales a conspicuous dark spot that lasted for several days, probably the residue from the fall of a small asteroid.

The second occurred a year later, on June 3, 2010, when the same Wesley and the Philippine Christopher Go independently photographed a small flash in the Southern Equatorial Band. The light emission lasted only a couple of seconds and did not leave obvious signs in the atmosphere, so that the fall was interpreted as that of an object of only 8-13 meters in diameter.

The third was even less obvious and was recorded on August 20 of the same year by the Japanese amateur Masayuki Tachikawa in the Northern Equatorial Band.

On 10 September 2012 at 11:35 UT amateur astronomer Dan Petersen detected from Racine, Wisconsin, a fireball on Jupiter that lasted 1 or 2 seconds. The fireball was created by a meteoroid less than 10 meters in diameter, quite similar to the flash observed on 20 August 2010.

On March 17, 2016, an impact fireball observed on Jupiter’s limb was recorded by Gerrit Kernbauer, Moedling, Austria. This report was later confirmed by an independent observation by amateur John McKeon. The size of impact object was estimated to be between 7 and 19 meters.

On May 26, 2017, amateur astronomer Sauveur Pedranghelu observed another flash from Corsica (France). The event was announced the next day, and was quickly confirmed by two German observers. The impactor had an estimated size of 4 to 10 meters.

In practice, after the impressive cometary collision of 1994, seven more impacts were recorded over 27 years, which forced astronomers to revise their estimates.

In a study published in 1988, the Japanese Nakamura and Kurahashi estimated that a comet with a diameter greater than 1 km could impact Jupiter every 500-1000 years, but obviously the statistics were revised in the light of the Shoemaker-Levy 9 event, so that soon were considered values between 50 and 350 years for an object of 0.5-1 km.

The evaluations fell even more after the impact of 2009, when always for an object of 0.5-1 km it came to assume a frequency of 10 years, and 1 year for a meteoroid of about 10 m in diameter. And obviously, they are further lowering in this period, after the two flashes of 2010.

In the end, it is understood that to get to a casuistry able to provide reliable data on the real rate of impact of meteoroids and comets on Jupiter, it will be necessary to monitor the planet constantly, and in this type of research could be the amateurs to do the lion’s share.

After all, it is clear that the increase of the findings in recent years, is not due to a random and abnormal increase of impacts, but to the increasing number of amateurs engaged in planetary observation and the increasing availability of astronomical instrumentation of absolute excellence.

The light emission that accompanies the entry of a meteoroid into the Jovian atmosphere lasts very few seconds (1-2 s) and is therefore necessary for continuous monitoring of the planet’s surface at high frequency for their detection. Professional astronomers agree that telescopes with a diameter between 15 and 20 cm are the ideal tools for their detection if equipped with webcams or other video recording tools.

So, what are we waiting for? Let’s all go and observe Jupiter!

Read more about Astronomy and Astrophysicshttps://www.coelum.com/articoli/astronomy-and-astrophysics-by-giovanni-anselmi

Che aria tirava negli anni ’80?

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Ciao popolo delle stelle!

L’atmosfera degli anni ‘80 era diversa da oggi, ma molto più genuina per lo spirito! 

Vi sto scrivendo davanti a War Games, uno dei film più fichi di quell’anno assieme al ritorno dello Jedi, pronti ad essere già leggenda.

Lo sapevate che nel 1983 è stato realizzato il linguaggio C++?Mamma mia che nostalgia …

E nello spazio cosa succedeva? Beh, passi da giganti! Ci fu infatti la prima prova sperimentale dell’evoluzione delle galassie.

C.G. Kotanyi dell’Istituto di Ricerche Spaziali di San Paolo, in Brasile, J.H. Van Gorkom, della University of Chicago, e R.D. Ekers, dell’Australia Telescope National Facility, scoprono delle anisotropie dell’emissione di raggi X della galassia NGC 4438, nell’Ammasso della Vergine.

Le anisotropie sono delle fluttuazioni dall’uniformità, come piccole increspature in un mare piatto.

Gli scienziati hanno concluso che quella galassia si trovava nella fase finale di trasformazione da spirale a ellittica, e questo fenomeno non era mai stato osservato.

Nel 1983 fu scoperto un buco nero extragalattico. Fu accertato infatti che la sorgente di raggi X LMC X-3, nella Grande Nube di Magellano, la galassia più vicina alla nostra, era un buco nero con una massa 10 volte maggiore di quella del Sole!

I buchi neri erano scuri come le morositas ma decisamente meno morbidi.

Mentre super Mario Bros dominava i pixel delle console domestiche, i primi protosistemi solari nella Galassia si rivelavano al mondo. Gli astronomi dell’Osservatorio di Nobeyama in Giappone comunicarono infatti proprio in quell’anno di aver scoperto con un radiotelescopio alcune nebulose oscure nelle costellazioni di Orione, del Toro, di Cefeo e di Cassiopea, che mostravano un sistema planetario del tipo del Sistema solare in fase di evoluzione; 

All’interno di Orione, a 1500 anni luce dalla Terra, una protostella con una massa pari a 35 volte quella del Sole stava nascendo.

Dal lato delle corse spaziali, venne lanciato il satellite IRAS (infrared astronomical satellite), frutto di una collaborazione tra Stati Uniti, Regno Unito e Paesi Bassi.

Da allora il satellite ha esplorato quattro volte il 96% del cielo, aumentando del 70% il numero delle sorgenti celesti infrarosse conosciute! Vi pare poco?

Tra le sue illustri scoperte ci furono 6 nuove comete e i dischi di materia intorno a molte stelle.

Fra le conquiste spaziali ci fu l’installazione del laboratorio spaziale europeo Spacelab 1.

Il 28 novembre la navetta spaziale statunitense Columbia portò in orbita il laboratorio spaziale Spacelab 1 ESA, con un equipaggio di 6 astronauti. Questa navetta conoscerà varie modificazioni (Spacelab 1, 2, 3, 4) e adattamenti funzionali per varie missioni specializzate, svolte in 14 anni di servizio, dal 1983 al 1997.

Infine, le sonde Venera 13 e 14 centrano i loro obiettivi sul pianeta più astioso del decennio.

Ed ora cari i miei cosmonauti togliete le cuffie e andate a cercare curiosità anni 80!

Scopri tutti gli articoli della serie NON SI ESCE VIVI DAGLI ANNI ’80: https://www.coelum.com/articoli/non-si-esce-vivi-dagli-anni-80

Incredible…One more impact on Jupiter! Pt. 1

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In mid-September, another asteroid plunged into the thick atmosphere of the giant of the Solar System, disintegrating in a flash of light. Since 1994, the year of the first incredible collision, that of the comet Shoemaker-Levy 9, this is the eighth event that testifies to the ability of Jupiter to attract comets and small asteroids. A phenomenon numerically in continuous ascent thanks to the always better techniques of digital shooting…

A phenomenon that deserves to be told in all its historical path.

It is September 13. In Brazil, the sun has just set. For many astronomy enthusiasts, it is the beginning of an observing night like many others. 

Jupiter is on the eastern horizon, about 25° high. José Luis Pereira, an astrophotographer from São Caetano do Sul, just south of São Paulo, begins to capture the planet in high resolution with his 275 mm diameter reflector telescope. As he has been doing since 2004, when he began a methodical monitoring activity of the gas giant.

The evening offers the meridian passage of the great red spot, but the seeing is not constant. After a few good images, the conditions worsen and the shots become muddy and poor in detail, so that the temptation comes to disassemble everything and go to bed waiting for better nights.

So the acquisition of footage is interrupted and the mouse moves the cursor to the button that would turn off the computer; but for some reason, Jose hesitates … and it is by chance, intuition, or simple dedication, he decides not to click, but to give himself another half hour of waiting.

Luck is on his side and the weather conditions miraculously begin to improve after a while: new shots begin.

The red spot is now close to the trailing edge, making the planet less spectacular, but patience, we must be content.

Here, however, the miracle happens! To his great surprise, during the filming of the first video, Pereira noticed a bright dot lighting upon the planet’s disk, but he didn’t pay much attention to it, partly because he was pressured by the weather conditions that were starting to deteriorate again and partly because he thought it might be some kind of artefact, linked to the recording parameters adopted.

Then he closes everything, and entrusts the analysis of the footage to software called DeTeCt, an open source for astronomy that checks each frame of the film and identifies any light anomalies distinguishing them from artefacts due to the acquisition or electronics of the instrumentation.  The software will take hours to do its job, and so Jose launches the program and goes to sleep.

The next morning, when he wakes up, Jose almost doesn’t remember what happened, but it is a screen of the program that makes him remember: an alert is trying to attract his attention on a flashing text that says: “probable detection of an impact on Jupiter. Frames 122-153”.

Very excited, Jose launches an alert via internet, so that other observers can confirm the discovery. The news bounced all over the world and thousands of visitors crashed his site, forcing him to deactivate it… but it was also the beginning of success that would be confirmed shortly after by the official confirmation. Other observers, in fact, rushed to check if the bright spot appeared in their footage of the same night, and other footage emerged where the impact was clearly visible. In short, Jose can rest assured, it is not a spurious signal: once again Jupiter was definitely hit by an object of cosmic nature!

An asteroid? A comet? This is not known. To know it, we should be able to observe the shape and distribution of the scars of the impact, or the dark spots that form in the agitated Jovian atmosphere as a result of the pulverization of the object. Residues that at the moment have not been found, which suggests that the impactor body, probably a small asteroid, should not be very large … at most about fifty meters in diameter.

At the moment therefore the community of amateur astronomers is committed not only to view images and videos of those moments to find traces of the glow, but is also invited to search for signs left by the alleged impact, which may have appeared, or appear in these nights, to confirm the nature of the glow.

OK guys, but wait a minute… What’s with all the excitement over a “pebble” slamming into Jupiter?

Well, it all probably has to do with the fact that the discovery of these events is almost all thanks to the observational network formed by a few thousand enthusiastic amateur astronomers. Then there are important issues involved, such as estimates of the frequency of impacts in the inner solar system. Which, of course, affects the estimate of the risk to our planet in this regard.

When estimating the probability of an asteroid impacting the Earth, one must not only consider the mere geometric cross-section of the planet, but also the gravitational cross-section. In the case of planet Jupiter, the gravitational field is very intense – due to the mass of 317 times that of Earth – consequently, its gravitational cross-section is much larger than that of Earth. For this reason, Jupiter is hit much more often than our planet and collisions occur at a minimum speed of 60 km/s, the escape velocity of Jupiter. In addition to the mass factor, the relative proximity to the inner solar system allows Jupiter to influence the distribution of minor bodies. For a long time, it was believed that these characteristics led the gas giant to eject from the system or to attract most of the stray objects in its vicinity and, consequently, to determine a reduction in the number of potentially dangerous objects for the Earth. Subsequent dynamical studies have shown that in reality Jupiter’s function as an “inner solar system shield” has often been overestimated. The situation is in fact much more complex: the presence of Jupiter, in fact, tends to reduce the frequency of impact on Earth of objects coming from the Oort Cloud (long-period comets), while it increases it in the case of asteroids and short-period comets, which are deflected towards Earth’s orbit!

For this reason, Jupiter is the planet in the solar system characterized by the highest frequency of impacts, which justifies its name of “sweeper” or “cosmic vacuum cleaner” of the solar system. Studies of 2009 suggest a frequency of one impact every 50-350 years, for an object of 0.5-1 km in diameter; impacts with smaller objects would occur with greater frequency, as is natural and as evidenced by the chronology of events that we are about to tell you.

The 1994 was a memorable year for planetary astronomy. For the first time, in fact, when comet Shoemaker-Levy 9 was captured by Jupiter and dismembered in at least 21 fragments that fell on the planet starting from July 16 of that year, it was possible to witness live the collision between two celestial bodies.

Unfortunately, the geometry of the collision was not conducive to direct observations from Earth, and impacts could be observed only by the Galileo probe. The only thing left for us earthlings to do was to follow the evolution of the scars left in the gaseous atmosphere of the planet, with perturbations so evident and contrasted that even very modest optical instruments allowed the observation.

It seemed an exceptional case, so that to find something similar we had to go back to December 1690, when Gian Domenico Cassini left to posterity a drawing of Jupiter’s disk on which appeared spots very similar to those left by the impacts of July 1994, and this belief on the rarity of these events lasted in practice until our days.

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Soli e incompresi – intervista a Amedeo Balbi

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Douglas Adams l’aveva messa sul ridere, come sempre:

Niente viaggia più in fretta della velocità della luce, con la possibile eccezione delle cattive notizie, che seguono leggi specifiche

Scriveva in “Praticamente innocuo”, il quinto libro della pentalogia della “Guida galattica per autostoppisti”.

Ma fin quando i presupposti descritti nell’opera dall’autore inglese non saranno dati – leggasi l’invenzione della propulsione d’improbabilità infinita, con possibilità di viaggiare da una parte all’altra dell’universo istantaneamente al prezzo dell’inattesa trasformazione “di interi pianeti in torte alla banana” (sì, è un libro da leggere!), dovremo verosimilmente abituarci a chiacchierare solo tra noi esseri umani. Perché l’universo è grande e la velocità della luce è estremamente bassa a confronto. Tanto che sarebbe scientificamente inutile sperare di vedere già solo le spunte blu su un messaggio inviato al vicino abitante di Vega prima di 50 anni. Immaginate poi se è uno che legge, ma non risponde…

E se anche dovessimo scoprire come aggirare il piccolo problema imposto dalla fisica e se dovessimo in più trovare qualcuno nell’immensità del cosmo con cui scambiare due chiacchiere, non è detto che si riuscirebbe mai a capirsi. Un aspetto che era stato solo marginalmente preso in considerazione dai pionieri del progetto Search for Extra-Terrestrial Intelligence (il SETI), concentratosi per decenni sulla ricerca di trasmissioni radio che potessero dare un indizio sull’esistenza di qualcun altro là fuori. Oggi la ricerca di vita intelligente ha cambiato un po’ prospettiva.

«Il problema del parlare con una civiltà extraterrestre si pone su più livelli», ci fa notare il fisico, professore universitario e divulgatore italiano Amedeo Balbi, autore di numerosi studi scientifici e saggi sul tema, tra cui il libro “Dove sono tutti quanti?”, incentrato proprio su questo tema. La prima cosa da fare sarebbe riuscire a capire se c’è qualcuno con cui scambiare un messaggio. Un’impresa in sé quasi proibitiva, commenta Balbi dall’altra parte della cornetta.

«Iniziamo dalla questione della sincronizzazione, ovvero se c’è in questo momento una civiltà intelligente pronta a comunicare con noi. È un problema serio e sorprendentemente non è mai stato analizzato troppo nei dettagli. Forse perché sembra quasi banale dirlo: per parlarsi deve esserci qualcuno in questo momento. Ma se questo qualcuno ha smesso di trasmettere segnali un miliardo di anni fa, noi non vedremmo nulla».

Il grosso problema è riuscire a capire quanto si possa sperare che vi sia una civiltà contemporanea abbastanza vicina a noi per riuscire a farsi viva. «La galassia è piuttosto grande se misurata su scala umana e anche il tempo trascorso prima del nostro avvento è enorme: sono passati miliardi di anni, che su scala cosmica non è però molto. È quindi del tutto possibile che nella nostra galassia vi siano state civiltà tecnologiche negli ultimi 10 miliardi di anni e che siano scomparse ben prima che noi potessimo rendercene conto».

La questione si complica ulteriormente considerando che dei 106 mila anni luce di diametro della galassia, il raggio utile per captare una trasmissione è di circa «un migliaio di anni luce. Se anche ci fosse qualcuno che sta trasmettendo, ma fuori da questo raggio, non vedremmo comunque nulla».

E allora come se ne esce?

«L’unica via d’uscita per sapere se almeno ci sono state altre civiltà tecnologiche è sperare che abbiano prodotto tracce capaci di durare milioni di anni dopo che la civiltà che le ha prodotte si è estinta – rileva Balbi -. In tal caso potremmo per lo meno sperare di poter fare una sorta di archeologia delle civiltà intelligenti nella galassia».

Ed è appunto in questa direzione che sembrano orientati i nuovi ricercatori del SETI: «Inizialmente si cercavano le trasmissioni radio, sull’esempio di quanto stava facendo allora la nostra civiltà ovvero inviare, volontariamente e involontariamente, segnali radiotelevisivi nello spazio. Per decenni la ricerca di vita extraterrestre si è dunque concentrata sulle analisi delle sorgenti radio provenienti dal cielo. Il problema è che oggi, dopo un centinaio di anni, per via dell’evoluzione tecnologica, anche noi stiamo smettendo di trasmettere. Diventeremo quindi invisibili all’esterno da questo punto di vista». Se dunque, come avvenuto sulla Terra, la finestra di visibilità nelle onde radio delle civiltà intelligenti è misurabile in un centinaio di anni, è fondamentale individuare tracce più persistenti per avere qualche speranza di trovarle.

«Negli ultimi dieci anni, con nuove generazioni di scienziati e con nuove scoperte, si è elaborato un piano diverso. Si pensa ad esempio di cercare tracce nell’atmosfera di un pianeta capaci di “tradire” la presenza di vita industriale. Pensiamo ad esempio cosa abbiamo fatto noi negli ultimi 250 anni. Inoltre l’atmosfera potrebbe dire addirittura se un pianeta è pieno di vita ben prima che questa diventi intelligente: un astronomo alieno che avesse osservato la Terra negli ultimi due miliardi di anni, da quando insomma c’è stato l’aumento di ossigeno nell’atmosfera, si sarebbe potuto rendere conto abbastanza facilmente di essere di fronte a un pianeta abitabile e abitato. L’altra possibilità per trovare tracce di vita intelligente presente o passata è ipotizzare che anche altre civiltà abbiano messo in orbita molti satelliti artificiali. Questi, specialmente se parcheggiati su orbite lontane dal pianeta, potrebbero essere individuati quando passano davanti alla loro stella».

Anche queste semplici scoperte indirette, secondo Balbi, sarebbero già un evento straordinario. Soprattutto perché avverrebbero contro ogni probabilità.  «Già solo prendendo in considerazione il problema della sincronizzazione e quello delle distanze ci si accorge che sarà difficilissimo trovare qualcuno – commenta -. Facciamo due calcoli: supponiamo, in maniera esageratamente ottimista, che nella Via Lattea vi siano 10 civiltà tecnologiche in questo momento. Disponendole in modo aleatorio nella galassia, la loro distanza media sarà di circa 10mila anni luce». Quindi ben oltre il limite di rilevabilità attuale.

Tanto basterebbe per spegnere ogni entusiasmo. Ma c’è altro.

Anche ipotizzando di riuscire ad aprire un canale di dialogo, «il problema quasi insormontabile sarebbe poi capirsi, perché non vi sarebbe una base comune semantica e culturale. Già solo sulla Terra vi sono state enormi difficoltà a decifrare linguaggi antichi di cui era andato perso il vocabolario. Difficoltà che sarebbero immensamente superiori con una civiltà evoluta su un altro pianeta, con condizioni di partenza potenzialmente molto diverse da quelle che abbiamo avuto noi sulla Terra». Il risultato potrebbe essere una logica, un’organizzazione del pensiero e una visione dello spazio e del tempo profondamente diversi dai nostri. Tanto diversi da impedirci di capirli. «Gli ottimisti qui – spiega Balbi – si affidano al fatto che una civiltà tecnologica abbia necessariamente avuto a che fare con la stessa fisica e chimica e quindi guardano alla matematica come possibile Stele di Rosetta. Personalmente temo sia una speranza un po’ tirata per i capelli».

Insomma, facciamo notare al nostro interlocutore, siamo destinati a essere soli.

«Non siamo soli, ma sicuramente siamo molto isolati – replica Balbi -.  Se, come è ragionevole credere, le civiltà intelligenti sono un fenomeno raro nell’universo, allora sono diluite nel volume della galassia e nel tempo cosmico.  E non sapremo mai che sono esistite».

Quindi non vale la pena cercare? Ci domandiamo!

«No, al contrario. Il mio non è un discorso disfattista. Sono cosciente che le probabilità siano molto basse, ma se non cerchiamo nemmeno, le probabilità allora saranno sicuramente zero».

Intervista tratta dal n. 273 della rivista “Meridiana” a cura di Luca Berti – Società Astronomica Ticinese

Non si esce vivi dagli anni ’80. Pt 2

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Buongiorno popolo delle stelle! Oggi parliamo dell’anno 1982, agli albori degli anni 80. Mentre Bladerunner e Tron sbancavano i botteghini e Up where we belong cantata da Joe Cocker e Jennifer Warnes facevano struggere milioni di fan appresso a Richard Gere, l’universo stava per essere svelato come una banana da un macaco affamato. E gli scienziati lavoravano senza sosta per essere sempre un passo avanti, come in un’eterna corsa verso il futuro.

Proprio nel 1982 fu scoperta la prima pulsar ultrarapida o pulsar millisecondo, una nuova classe di pulsar caratterizzate dal fatto di essere associate con stelle di neutroni con un periodo di rotazione molto piccolo (da 1 e 10 millisecondi!) e con un campo magnetico 1000 volte più debole rispetto a quello delle pulsar normali che, tutto sommato, è comunque imponente.

Nel frattempo, i radioastronomi canadesi e statunitensi fra una big bubble e l’altro scoprirono, grazie ai radiotelescopi di Algonquin, nel Canada, e di Haystack, negli USA (no, quello di Contact è il radiotelescopio di Arecibo), la presenza della molecola HC11N, il Cianopentaacetilene, all’interno dell’involucro di polvere e gas che circondava la stella CW Leonis, nella costellazione del Leone. Con i suoi 1.5 nm, era la molecola organica più grande fra quelle mai osservate.

In contemporanea, Malcolm Hartley, un astronomo australiano scoprì due comete gemelle che sembravano procedere a braccetto, mentre fotografava la costellazione della Vergine con il telescopio da 1,2 m di Siding Spring. E’ vero, erano due oggetti piuttosto deboli, rispettivamente, di magnitudine 14 e 17 ma ehi, negli anni 80’ la meraviglia era di casa. Il 1982 era anche l’anno delle sonde su Venere, come Venera 13 e Venera 14.

Fonte NASA

Le missioni statunitensi Pioneer-Venus rivelarono infatti che la struttura delle nubi che circondano il pianeta è capovolta rispetto alla Terra. Infatti, lo strato esterno è una accozzaglia di polveri e vapori spesso 15 km e, al di sotto di esso, vi è uno strato di vapori di acido solforico di 9 km che si protrae fino al suolo. Altro che effetto serra! Scoprì inoltre che la crosta di Venere era più spessa di quella terrestre e, a differenza di questa, non era fratturata in zolle tettoniche.

L’era delle missioni spaziali si avvaleva delle scoperte scientifiche più recenti. Nello stesso anno infatti fu osservato il primo flare su una stella, YZ Canis minoris, distante 20 anni luce e una delle più vicine al Sole. Questa scoperta era di interesse in quanto i flare, specie quelli solari, sono fonte di gravi disturbi alle radiocomunicazioni con la Terra. Infine, il 1982 ci regalò anche la scoperta, nella costellazione del Toro, di due stelle nell’infrarosso, grazie alla tecnica dell’interferometria speckle applicata al telescopio da 2,2 m del Mauna Kea Observatory alle Hawaii. L’astronomia infrarossa è importante nei processi di formazione stellare. Infatti, la luminosità infrarossa sarebbe dovuta alla nube di polvere e di gas da cui esse si sono originate. Infine, per chiudere in bellezza, il 1982 vede il primo ritrovamento di Allan Hills A81005, il primo meteorite lunare mai scoperto sulla Terra e l’avvistamento della cometa di Halley, scorta per la prima volta nel cielo di ritorno dopo 70 anni.

Negli anni ‘80 non si aveva paura di nulla, eravamo delle mine vaganti, non si avevano sovrastrutture imponenti ed il pensiero ed i sogni correvano liberi. Come dice Floris, “gli anni ‘80 sono stati molto importanti perché ci hanno permesso di pensare senza scatole precostituite e che ci hanno permesso di fare delle scelte. Ed è in fondo questo quel che fa paura”.

Aggiornamento WEBB telescope: apertura parasole

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Configurazione finale JWST arrivato al punto lagrangiano L2

In queste ore si sta completando la fase di apertura del parasole del James WEBB telescope. Posizionato dietro gli strumenti avrà il compito di riparare il telescopio dal calore non solo del Sole ma anche delle radiazioni riflesse della Terra e della Luna.

Il dispiegamento iniziato lo scorso 31 dicembre dopo un giorno di pausa per permettere ai tecnici di riposare, nel primo gennaio, è ripreso oggi e tutto procede senza incidenti.

Sembra funzionare tutto per il meglio per il gioiello WEBB, così dopo le buone notizie sulle perfette manovre di allineamento della traiettoria e sul risparmio del carburante che potrebbe consentire una durata della missione scientifica fino a 10 anni, si sta completando un’altra importantissima fase.

Ricordiamo che il James WEBB è diretto verso il punto lagrangiano L2 da dove opererà per i prossimi anni.

Nella foto la configurazione del telescopio e del suo parasole una volta raggiunta la posizione finale.

In questo video l’animazione che mostra il sistema di apertura e distensione del parasole https://youtu.be/W0dXEH6UQxg

Fonte: NASA JWST

Bestiario Matematico di Paolo Alessandrini

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Il bestiario, diviso in tre principali sezioni, rispettivamente dedicate alle bestie numeriche, alle creature di tipo geometrico e agli esseri più astratti, legati a teoremi, ragionamenti e strutture, per sfatare il più grande dei miti sulla matematica: che sia solo calcolo. Questa tassonomia dei più comuni, ma allo stesso tempo particolari, oggetti del mondo dell’analisi, della geometria e della logica permette così anche di indagare in parte il lavoro di ricerca dei matematici, nel libro chiamati matemaghi: in più capitoli infatti viene indagata non solo la bestia in questione, ma anche chi è stato in grado di domarla e con che modalità.

Il libro, suddiviso in tredici capitoli, riesce a spaziare tra la nascita dello zero ad alcuni dei numeri più grandi a cui i matematici hanno dato un nome, ad esempio il googol; a passare dalle geometrie non euclidee ai frattali; a trattare l’ampio discorso su cosa sia una dimostrazione e su come dovrebbe essere fatta, se solo attraverso l’ingegno umano o anche avvalendosi di mezzi numerici (calcolatori, computer, algoritmi e programmi). Con leggerezza, ma anche il giusto livello di accuratezza e approfondimento fornito dalle appendici di ogni singolo capitolo al termine del libro, questo bestiario potrebbe essere perfetto come prima lettura matematica, per approcciarsi a molte delle branche della matematica e scoprire che magari ne esiste qualcuna anche di inaspettata e interessante.

Un libro che potrebbe affascinare e accompagnare tutti gli studenti delle superiori intenti, in particolare in questo periodo dell’anno, alla ricerca del percorso di laurea che fa al caso loro: potrebbe risultare ottimo con un docente di matematica o fisica al loro fianco, per poter aiutare gli studenti a districarsi in questa selva oscura da cui emergono bestie matematiche, ma anche per dare un quadro sui possibili campi di applicazione della matematica. Potrebbe essere un ottimo strumento per parlare di ricerca di frontiera, considerando che alcuni degli argomenti trattati potrebbero essere considerati ancora problemi aperti.

Rimarranno forse delusi i matematici scoprendo che conoscono già la maggior parte delle bestie presentate: lo zero, i numeri razionali e quelli irrazionali, il Googol, l’infinito di Cantor, le geometrie non euclidee, i frattali, gli scacchi, il Gioco della Vita di Conway, il Mostro. Ma potrebbe essere anche un buon momento per fermarsi e riflettere, soprattutto per chi conosce e usa anche quotidianamente questi oggetti, su quanta strada si sia già fatta all’interno del mondo delle bestie matematiche, sia a livello personale che collettivo.

Ma a voi l’ultimo verdetto! Sicuramente questo bestiario è un libro che ogni persona interessata alla matematica dovrebbe avere nella propria libreria, anche solamente per il gusto di ricordarsi di aver ormai addomesticato quelle bestie.

Biografia

Paolo Alessandrini, docente di matematica e ingegnere informatico, è autore di articoli e libri di matematica ricreativa. Cura il blog di matematica Mr. Palomar e collabora a progetti di carattere didattico e divulgativo. Per Hoepli è autore di Matematica Rock (2019).

Domande Bestiario Matematico – Paolo Alessandrini

  • Già il titolo del libro risulta essere estremamente accattivante: “Bestiario matematico”. Prima di tutto vorrei lasciarti spiegare da dove viene l’ispirazione per il titolo, nonché tema che lega tutti i 13 capitoli, e come un bestiario possa essere collegato al mondo della matematica.

Vedi, la matematica non è un posto tranquillo. Ci sono molti territori “selvaggi”, dai quali fanno capolino nozioni che vanno al di là del senso comune, conclusioni apparentemente paradossali o contraddittorie, problemi che nel corso della storia si sono dimostrati refrattari alla risoluzione, concetti vertiginosi che a lungo hanno suscitato sconcerto oppure non sono stati affrontati profondamente, e così via. Questi “lati oscuri” della matematica mi hanno sempre affascinato molto di più delle aree più ovvie e rassicuranti, e ho pensato che potessero costituire un buon argomento per un libro.

Per rendere la trattazione più accattivante, ho avuto l’idea di utilizzare una cornice pseudo-narrativa, un’ambientazione metaforica: rappresentare la matematica come una sorta di terra fatata, i concetti strani e sconcertanti della matematica come creature selvagge che la popolano, e i matematici come “matemaghi” impegnati a stanare, catturare e addomesticare le bestie ricorrendo alle loro arti magiche.

Sulla base di questa suggestione, il titolo “Bestiario matematico” mi è apparso quasi scontato, inevitabile. Credo anch’io che sia stata una scelta fortunata, che ha attratto molti potenziali lettori.

  • Nel libro parli di moltissime delle creature che ogni matemago ha incontrato almeno una volta nella vita: qual è stata la bestia matematica più interessante da studiare nel corso della tua carriera? E quale quella più difficile da ammaestrare e raccontare in questo libro?

Per motivi di spazio, ho dovuto fare una cernita tra tutte le creature che potevano legittimamente occupare un posto in un bestiario matematico. Sono comunque contento di averne descritte molte: il libro è suddiviso in tre parti, rispettivamente dedicate alle bestie numeriche, alle creature di tipo geometrico e agli esseri più astratti, legati a teoremi, ragionamenti e strutture.

È molto difficile eleggere una sola bestia come la più interessante: scrivendo il libro mi sono affezionato a molti di questi animali matematici, forse a tutti.

In ogni caso, tra tutte le famiglie di creature trattate nel volume, mi piace citarne qui un paio.

In una rivista di astronomia come questa, può aver senso parlare dei numeri di grossa taglia: l’universo fisico è un posto molto grande e per descriverlo è spesso necessario utilizzare numeri grandi. Ma non si creda che soltanto le distanze astronomiche e i conteggi di stelle e galassie richiedano numeri considerevoli. Anche il microcosmo del nostro corpo racchiude quantità colossali: si pensi al numero di cellule contenute in un essere umano o al numero di connessioni neuronali presenti nel nostro cervello.

Un’altra famiglia numerica di cui tratto nel libro è quella dei numeri cosiddetti “normali”. L’aggettivo non tragga in inganno: si tratta di numeri decisamente singolari. All’interno della loro parte decimale, quella che segue la virgola, si possono ritrovare tutte le sequenze di cifre possibili e immaginabili, e ciascuna con la medesima frequenza.

Ma questi numeri hanno la prerogativa straordinaria di contenere al loro interno qualsiasi cosa: codificati secondo una qualche chiave, in un numero normale troverete sicuramente il vostro numero di telefono, il numero di telefono di tutte le persone del pianeta, la formazione dell’Italia dei Mondiali dell’82, il testo completo di questo articolo e di tutti gli articoli usciti su tutti i numeri di Coelum, il contenuto di tutti i libri del mondo già pubblicati, quello dei libri che devono ancora uscire, e così via.

Le bestie più difficili da ammaestrare? Be’, forse i gruppi, di cui parlo negli ultimi due capitoli, e in particolare l’esemplare più sconcertante di questa famiglia, il cosiddetto “gruppo Mostro”. Scoperto negli anni Settanta del secolo scorso dai matemaghi Robert Griess e Bernd Fischer, ed esplorato più in dettaglio dalla “rockstar” della matematica John Conway, il Mostro è una struttura algebrica spaventosamente gigantesca, complicatissima e incredibilmente simmetrica: rappresenta il più grande tra i gruppi finiti semplici, una sottofamiglia che gli studiosi dei gruppi hanno scandagliato in profondità soprattutto tra il 1950 e il 1980.

Come molte altre creature, anche il gruppo Mostro ha un posto d’onore nel bestiario matematico. Ma non tanto per la sua dimensione o per la sua complessità: piuttosto, per il fatto che esso sia un gruppo semplice, cioè non scomponibile in gruppi più piccoli, e anche per il fatto strabiliante che il Mostro si è rivelato al centro di un’incredibile rete di collegamenti con altri territori della matematica e perfino della fisica.

  • Una cosa che ho particolarmente apprezzato del libro è stata il fatto che i capitoli trattano molti argomenti differenti della matematica, spaziando dall’analisi, alla logica alla geometria. Il capitolo però che mi ha colpito di più è stato quello sui teoremi e sul metodo matematico, in cui hai provato a spiegare a parole alcuni degli strumenti che i matematici utilizzano effettivamente più spesso durante il loro lavoro. Come mai questa scelta? E perché è importante trasmettere che la matematica non sia tanto fare calcolo quanto creare un sistema basato su ciò che è dimostrabile?

Mi è sembrato appropriato includere nel mio bestiario, oltre ai concetti e alle idee più strane e sorprendenti della matematica, anche alcune delle dimostrazioni che hanno permesso ai matematici di accertare la validità di certe affermazioni. Come a dire: tra le bestie interessanti si trovano non soltanto le verità matematiche, ma anche alcuni dei ragionamenti che hanno condotto alle verità stesse.

Mi sono soffermato in particolare sulle dimostrazioni particolarmente lunghe e complicate, per esempio quella del teorema dei quattro colori e quella del cosiddetto “teorema enorme”, corrispondente dalla classificazione completa dei già citati gruppi finiti semplici.

Come racconto nel libro, un teorema è un animale fatto di tre parti. L’ipotesi, cioè la premessa sulla quale poggia l’asserzione matematica, corrisponde alle robuste zampe della bestia. La tesi, ovvero la conseguenza logica che il teorema afferma come vera se consideriamo vera l’ipotesi, è la testa o il muso dell’animale, cioè la sua parte più rappresentativa. Ma un teorema deve avere anche un corpo, che rappresenta il collegamento tra zampe e testa: ecco la dimostrazione, cioè la sequenza di deduzioni logiche che dall’ipotesi conducono in maniera rigorosa alla tesi.

La scelta di dedicare un intero capitolo a questo genere di bestie è certamente motivata dal fatto che la matematica, come giustamente dicevi, non è un insieme di regole utili per guidarci attraverso calcoli complicati e sterili, ma è innanzitutto un insieme di idee e concetti sui quali i matematici formulano affermazioni: e queste affermazioni, per essere validate, devono essere dimostrate attraverso un procedimento rigoroso.

Il matemago in erba che si addentra nella terra fatata della matematica troverà, sulle prime, molte difficoltà nel domare le bestie selvagge che popolano quel territorio. Tuttavia, se guidato in modo adeguato, non tarderà a vedere i suoi incantesimi premiati dal successo. E soprattutto, riuscirà ad apprezzare la straordinaria bellezza mozzafiato delle creature che sarà stato in grado di catturare e addomesticare.

Per maggior informazioni ed acquistare il libro sono disponibili 👉👉👉qui

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Sito personale: http://www.paoloalessandrini.it

Il cielo di Gennaio 2022

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Il mese di Gennaio ci regala molte ore di buio e un gran numero di costellazioni che possiamo ammirare nell’arco della notte. Nella prima serata, volgendo lo sguardo verso ovest, scenderanno lentamente all’orizzonte quelle autunnali più orientali (Pesci, Pegaso e Balena), mentre, nella seconda parte della notte, vedremo alzarsi a est le prime costellazioni tipicamente primaverili.

Grandi protagoniste saranno Cancro e Leone sin dalle prime ore di buio, mentre a dominare è ancora Orione a sudest insieme a Cane Maggiore e Minore e Sirio; nel punto più alto della sfera celeste (Zenit) brilla Perseo accompagnato dall’Auriga e, poco più in basso, Gemelli e Toro.

Per approfondire: Le Costellazioni di Gennaio 2022 a cura di Teresa Molinaro

COSA OFFRE IL CIELO

Effemeridi Pianeti Gennaio 2022

Mercurio

Per tutto il mese difficilmente osservabile, lo scorgeremo basso all’orizzonte all’approssimarsi del tramonto nella prima metà del mese. Sarà in congiunzione con una sottilissima falce di Luna crescente il giorno 4, da ammirare per brevissimi istanti da dopo le 17. 

In occasione dell’Epifania sarà invece in congiunzione con Saturno, entrambi bassi all’orizzonte e visibili al calar del Sole per pochi fortunati minuti.

Il giorno 23 del mese segnerà invece la transizione del pianeta dal cielo serale a quello mattutino, con un transito di poco più di 3° di separazione dal Sole, rendendolo così inosservabile per diverse settimane.  

Venere

Falce di Venere di Roberto Ortu – da Photo Coelum

A sua volta, anche Venere sarà poco visibile: basso sull’orizzonte ovest, inseguirà il Sole per tutta la prima metà del mese. Il giorno 9 il pianeta sarà in congiunzione con la nostra stella e solo da dopo il 12/01 farà timidamente capolino alle prime luci dell’alba, annunciando il suo passaggio a stella del mattino.

Marte

Per tutto il mese di Gennaio, il pianeta rosso ci allieterà con la sua presenza nei momenti subito antecedenti l’alba. Il primo giorno dell’anno si accompagnerà a una quasi invisibile Luna, ormai prossima al novilunio. 

Il giorno 29 lo troveremo nuovamente in una bella congiunzione con il nostro satellite e in un ottimo allineamento con Venere.

Giove

I primi due mesi di questo 2022 segneranno l’ultimo periodo in cui sarà possibile osservare Giove la sera, subito dopo le ultime luci del giorno. Anticiperà infatti sempre di più il suo tramonto, avvicinandosi alla congiunzione con la nostra stella, che avverrà a Marzo.

Il giorno 6 segnaliamo un bel allineamento tra Giove, in congiunzione con la Luna, Saturno e Mercurio più in basso. Dalle 17:30 avremo a disposizione poche manciate di minuti per uno scatto suggestivo, poco prima che Mercurio tramonti.

Saturno

Ci avviciniamo al periodo in cui il nostro “signore degli anelli” sarà difficilmente osservabile, godiamoci quindi questi ultimi giorni della sua presenza in cielo nelle ore serali! In particolare segnaliamo un bellissimo quadro celeste il giorno 4 Gennaio, con la triangolazione di Saturno, Mercurio e una sottilissima falce di Luna crescente per brevi istanti intorno le 17:30.

Urano e Nettuno

L’11/01 la Luna si affiancherà a Urano, con poco più di 2°55’ di separazione. Mentre il giorno 18 il pianeta invertirà il suo moto retrogrado, terminando il suo movimento verso ovest attraverso le costellazioni e tornando invece al più consueto movimento verso est. Questa inversione di direzione è un fenomeno a cui sono sottoposti periodicamente tutti i pianeti esterni del Sistema Solare pochi mesi dopo aver superato l’opposizione.

Nettuno, allineato a Giove, seguirà il gigante del cielo per tutto il mese, accompagnando, invisibile alla vista, ad ogni tramonto.

SOLE

Effemeridi Sole Gennaio 2022

All’inizio del mese la nostra stella si troverà nella costellazione del Sagittario, per poi transitare nel Capricorno il giorno 21.

La durata del giorno aumenterà di 48 minuti dall’inizio del mese e il 4 gennaio la Terra si troverà al perielio, con una minima distanza dal Sole pari a 147104813 km.

LUNA

Effemeridi Luna Gennaio 2022

Come ogni mese Francesco Badalotti ci guida nell’osservazione del nostro satellite. Il suo approfondimento all’articolo Luna di Gennaio 2022

FaseDataOreSorgeCulminaTramontaDistanza dalla TerraDiametro Apparente
Luna Nuova02/0119:33
Primo Quarto09/0119:1111:5718:1800:52389700 km30’66
Luna Piena18/0100:4917:2700:33 +70°08:36395055 km30’25
Ultimo Quarto25/0114:4100:2105:59 +33°11:26378248 km31’59
Luna CrescenteDal 3 al 17
Luna CalanteDal 19 al 31
Perigeo01/0123:59358036 km28’3
Apogeo14/0110:26405804 km
Perigeo30/0108:09362249 km27’6
tabella riassuntiva delle fasi lunari

COMETE

Disponibile un approfondimento sulle comete visibili in questo mese a cura di Claudio Pra: Le Comete di Gennaio 2022: Dopo la Leonard

La C/2021 A1 Leonard si avvicina infatti al perielio, che avverrà il 3 Gennaio, e si farà ricordare come la cometa più luminosa del 2021 ed una delle più luminose degli ultimi anni.

ASTEROIDI

Consultabile anche la rubrica di approfondimento sugli asteroidi che possiamo osservare in questi giorni di Gennaio, a cura di Marco Iozzi:  Mondi in miniatura – Asteroidi, Gennaio 2022

TRANSITI NOTEVOLI ISS

Siete a caccia dell’International Space Station? Tutti i transiti osservabili nel nostro Paese disponibili nella rubrica Coelum a cura di Giuseppe Petricca: Transiti ISS notevoli per il mese di Gennaio 2022

SCIAMI METEORICI

Le Quadrantidi 3-4 Gennaio, cenni storici

Antonio Brucalassi… questo nome vi dice qualcosa?

No, quasi sicuramente no; anche perché, malgrado molte fonti lo riportino come “astronomo”, in realtà Brucalassi (1797-1866) era  solo un filosofo naturale ad ampio spettro, come si usava al tempo: un po’ scienziato e un po’ letterato. E se  viene citato in una rivista di astronomia è solo perché verso le cinque del mattino del 2 gennaio 1825, dalle campagne di Arezzo notò un’insolita quantità di meteore staccarsi in cielo dalla costellazione del Quadrante murale, con l’aggiunta dell’esplosione di un bolide enorme. Circostanza questa meravigliosamente descritta in un resoconto pubblicato sul Giornale di scienze, lettere e arti di Firenze.

Brucalassi fu il primo a segnalare il fenomeno (anche se qualcuno tenta tuttora di dare il merito all’astronomo belga Adolphe Quetelet, che in realtà suggerì soltanto che lo sciame potesse ripetersi ogni anno), e si può dire che quella notte cominciò la storia delle Quadrantidi, un sciame di meteore che torna a manifestarsi ogni anno i primi giorni di gennaio.

La cosa buffa è che così, come Antonio Brucalassi non era un astronomo, anche Il Quadrante murale non è (più) una costellazione. Come è capitato a molti altri asterismi, del resto… Nomi cancellati dal cielo dopo una breve stagione di gloria.

Andava di moda tra gli astronomi del 18° secolo, epoca di illuminismo e di cieca fiducia nel positivismo scientifico, inventarsi nuove costellazioni a cui di solito veniva dato il nome degli strumenti di cui si servivano nei loro osservatori. Il francese Nicolas-Louis de Lacaille, per esempio, ne battezzò ben 14 con nomi quali Compasso, Macchina pneumatica, Telescopio, Reticolo, Telescopio, ecc. Piccole e debolissime costellazioni, che però hanno avuto la fortuna di conservare il loro status fino ai giorni nostri. Altrettanto bene non è andata per il Quadrante murale,  fortemente voluto da Jérôme Lalande nel 1795, ma che fu soppressa, insieme a molte altre, quando nel 1930 l’Unione Astronomica Internazionale decise di standardizzare gli ottantotto nomi e i confini delle costellazioni moderne.

Le Comete di Gennaio 2022: Dopo la Leonard

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Prima delle protagoniste del mese però, ancora due parole sulla C/2021 A1 Leonard sono doverose, anche se al momento della stesura di questo resoconto è ancora potenzialmente visibile e magari capace di riservare sorprese. In tanti sono rimasti delusi, perché è stata una cometa elusiva, che è cresciuta in luminosità proprio quando le condizioni osservative si sono fatte difficili. È però andata oltre le previsioni dato che un probabile outburst verso metà dicembre l’ha portata a brillare di terza magnitudine, forse addirittura qualcosa in più.

Purtroppo in quel momento si è mostrata appena dopo il tramonto in un cielo molto chiaro ed in procinto di tramontare, cosa che l’ha resa obbiettivo di pochi, ma ciò ne fa comunque un oggetto di tutto rispetto. Pensavamo di averla salutata il 12 dicembre, giorno del suo massimo avvicinamento alla Terra ed ultima giornata in cui si mostrava in un cielo buio ed invece è rimasta inaspettatamente protagonista anche la settimana successiva, quando personalmente le ho dato la caccia in molte serate, riuscendo prima a fotografarla e poi ad osservarla in condizioni estreme il 17 dicembre, giorno in cui si trovava a poco più di cinque gradi da Venere (foto in testa a questo articolo). In quel caso, con un binocolo 20×90, l’ho percepita come un minuscolo sbuffetto appena staccato dal fondo cielo. Avviata verso il perielio del 3 gennaio vedremo, come già ricordato sopra, se avrà ancora qualcosa da mostrare ed in ogni caso la ricorderemo come la cometa più luminosa del 2021 ed una delle più luminose degli ultimi anni.

Passiamo ora agli oggetti di gennaio:

La 67P Churyumov-Gerasimenko, ormai in allontanamento ed ai saluti, si mantiene ancora discretamente luminosa (attorno alla nona-decima magnitudine) e quindi varrà la pena cercarla. La potremo trovare nel Cancro, nei dintorni della stella 48 Cancri di quarta grandezza, osservabile già proficuamente intorno alle 22.00 e poi per tutta la notte.

Forse però l’oggetto più interessante del mese, osservabile qualche ora prima (verso le 18.00 a inizio mese e alle 19.00 a fine gennaio) è un’altra periodica, la 19P/Borrelly, che si avvia verso il perielio previsto per il primo febbraio. Nel corso del mese risalirà dalla Balena, partendo non molto distante da Diphda (Beta Ceti) fino ai pesci, aumentando la propria luminosità dall’iniziale decima magnitudine fino attorno all’ ottava. Cometa storica scoperta oltre un secolo fa, il 28 dicembre 1904 dall’astronomo francese Alphonse Louis Nicolas Borrelly, ripassa dalle nostre parti ogni circa sette anni.

Dopo cena, nella costellazione dei Gemelli, potremo cercare la C/2019 L3 ATLAS, che dovrebbe brillare di decima mag. Già visibile da tempo, non ha variato molto la sua luminosità, mostrandosi molto piccola e compatta. Raggiungerà il perielio il 9 gennaio.

Infine prima dell’alba, al del termine della notte astronomica, potremo dare la caccia alla C/2017 K2 Pan STARRS nell’Ofiuco, posizionata non distante dalla stella alfa Ras Alhague, inizialmente un po’ bassa sull’orizzonte ma in seguito sempre più alta.

Questa cometa, secondo le previsioni, è attualmente l’oggetto in prospettiva più luminoso nel 2022. Verso metà anno dovrebbe infatti brillare di un’ottima sesta magnitudine. Ne riparleremo, ma intanto cominciamo a seguire la sua crescita. A fine mese dovrebbe aver raggiunto la decima magnitudine.

SUPERNOVAE: aggiornamenti di Gennaio 2022

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Adesso la situazione è ben diversa con molte realtà impegnate in questo tipo di ricerca, in primis il nostro ISSP, purtroppo però l’agguerrita concorrenza dei programmi professionali, che si avvalgono anche del satellite Gaia, ha lasciato ai volenterosi astrofili, impegnati in questo tipo di ricerca, soltanto le briciole. Dobbiamo per fortuna constatare che in giro per il mondo ci sono degli astrofili che hanno saputo difendersi egregiamente dallo strapotere dei programmi professionali. In testa alla classifica delle scoperte amatoriali del 2021 troviamo l’intramontabile giapponese Koichi Itagaki con 6 centri al suo attivo. La seconda piazza, con 4 scoperte, è invece occupata dal programma di ricerca supernovae dell’emisfero meridionale denominato BOSS, con il suo leader Stuart Parker, che mette insieme astrofili neozelandesi ed australiani. Infine sul terzo gradino del podio, con 3 scoperte, troviamo i cinesi del programma XOSS capitanati da Xing Gao.

A livello italiano dobbiamo comunque segnalare la scoperta di una Nova Extragalattica da parte del team dell’Osservatorio di Monte Baldo (VR), membro ISSP, composto da Flavio Castellani, Raffaele Belligoli e Claudio Marangoni che nella notte del 26 gennaio 2021 hanno individuato una nuova stella di mag.+17,6 nella famosa galassia di Andromeda M31. Nei giorni seguenti la scoperta l’oggetto, denominato AT2021bfs, ha subito un forte incremento di luminosità superando la mag.+16 nei primi giorni di febbraio. Nella notte del 4 febbraio, dall’Osservatorio di Okayama in Giappone con il telescopio Seimei da 3,8 metri è stato ottenuto lo spettro di conferma evidenziando che eravamo di fronte ad una classica Nova Fe II.

Sempre a livello italiano dobbiamo segnalare anche due scoperte di supernovae realizzate dall’astrofilo romagnolo Mirco Villi. Queste due scoperte potremmo definirle ibride, perché realizzate da un astrofilo, ma ottenute con strumentazione professionale dell’osservatorio americano sul Mount Lemmon in Arizona del programma CRTS Catalina Real-Time Transient Survey. In questi ultimi anni Mirco Villi ha instaurato una proficua collaborazione con i professionisti americani del Catalina ottenendo numerose scoperte. La prima è stata scoperta nella notte del 14 novembre, a mag.+20,5 nella galassia a spirale UGC6053 posta nella costellazione del Leone, al confine con quella del Sestante, distante circa 360 milioni di anni luce da noi. L’immagine di scoperta è stata ottenuta col il telescopio Cassegrain di 1,5 metri di diametro, uno dei tre strumenti del CRTS dedicati alla ricerca di nuovi transienti. Purtroppo nessun osservatorio professionale ha ottenuto uno spettro di conferma e pertanto a questa possibile supernova è stata assegnata la sigla provvisoria AT2021aetx. La seconda, anche questa molto debole al momento della scoperta con una luminosità pari alla mag.+20,1 è stata individuata nella galassia a spirale UGC2393 posta nella costellazione del Perseo a circa 500 milioni di anni luce di distanza. A differenza della precedente, luminosità del nuovo oggetto è aumentata fino a raggiungere intorno alla fine di novembre il massimo di luminosità con una magnitudine di circa +16,5. Nella notte del 23 novembre l’astrofilo bellunese Claudio Balcon ha ottenuto lo spettro di conferma che ha permesso di classificare la supernova di tipo Ia molto giovane, scoperta circa due settimane prima del massimo di luminosità. Alla supernova è stata quindi assegnata la sigla definitiva SN2021aeuq.

Se il 2021 è stato un anno avaro di soddisfazione per chi fa ricerca di supernovae, situazione completamente diversa è invece per la spettroscopia italiana di supernovae, che grazie al bravo astrofilo bellunese, sta vivendo un periodo di grandi soddisfazioni e successi. Claudio Balcon è riuscito infatti ha classificare per primo nel TNS Transient Name Server in questo 2021 ben 27 supernovae ed occupare saldamente la vetta della classifica amatoriale di classificazioni di supernovae. Nessun astrofilo al mondo è riuscito a fare meglio di lui. Grazie ai moderni CCD ed agli spettroscopi a bassa risoluzione, alla portata di astrofili evoluti, nel campo della spettroscopia anche gli astrofili possono dare un contributo importante alla ricerca. Basti pensare al fatto che nel 2021 sono state scoperte oltre 20.000 supernovae e soltanto poco più di 2.000 sono state classificate spettroscopicamente, quindi circa il 10%. Naturalmente molte scoperte realizzate con potenti telescopi professionali non sono alla portata della modesta strumentazione degli astrofili, però come dimostrato da Claudio Balcon, ci sono diversi transienti che raggiungono magnitudini interessanti e quindi con una certa rapidità ed un pizzico di fortuna, anche gli astrofili possono raggiungere dei traguardi molto gratificanti.

L’anno appena terminato non ha visto purtroppo la scoperta di supernovae nelle galassie Messier, le più ambite ed appariscenti, però ci ha regalato due supernovae molto luminose. Stiamo parlando, in ordine cronologico, della SN2021rhu individuata nella notte del 1° luglio dal programma professionale americano di ricerca supernova denominato Zwicky Transient Facility (ZTF) nella galassia a spirale NGC7814 posta nella costellazione di Pegaso a circa 50 milioni di anni luce di distanza. Questa galassia è vista di taglio ed assomiglia alla famosa galassia Sombrero M104, tanto da essere indicata a volte come “la piccola sombrero”. Appena 13 ore dopo la scoperta, con il telescopio da 2,5 metri del Caucasus Mountain Observatory in Russia, è stato ottenuto lo spettro di conferma, classificando il transiente come una supernova di tipo Ia scoperta circa due settimane prima del massimo di luminosità e con i gas eiettati dall’esplosione che viaggiavano ad una velocità di circa 16.000 km/s. Il massimo di luminosità è stato raggiunto intorno al 16 luglio con la supernova che ha raggiunto la notevole mag.+12,1.

La seconda supernova, che in realtà è diventato l’oggetto più luminoso del 2021, è stata la recente SN2021aefx individuata nella notte dell’11 novembre dal programma professionale di ricerca supernovae denominato DTL40, utilizzando il telescopio robotico da 0,4 metri al Cerro Tololo in Cile, nella stupenda galassia a spirale NGC1566 distante circa 60 milioni di anni luce nella costellazione meridionale del Dorado. Nella stessa notte della scoperta, con il Southern African Large Telescope da 10 metri di diametro, in Sudafrica, è stato ripreso lo spettro di conferma che ha permesso di classificare il nuovo transiente come una supernova di tipo Ia scoperta circa 20 giorni prima del massimo di luminosità e con i gas eiettati dall’esplosione che viaggiano all’impressionate velocità di circa 28.000 km/s. La luminosità della supernova è aumentata progressivamente fino a toccare il massimo intorno alla fine di novembre, raggiungendo la notevole mag.+11,8. Peccato che una supernova così luminosa, posta in una stupenda e fotogenica galassia come NGC1566, non sia visibile dal nostro emisfero.

Come sappiamo tutte le supernovae di tipo Ia raggiungono il massimo di luminosità alla solita magnitudine assoluta di circa -19 e pertanto in base alla magnitudine apparente può essere calcolata con precisione la distanza della galassia ospite. Qualcuno allora si domanderà perché la SN2021aefx ha raggiunto una luminosità maggiore rispetto alla SN2021rhu anche se NGC1566 è circa 10 milioni di anni luce più lontana della NGC7814? La risposta è presto data: la SN2021aefx, esplosa nella parte periferica della galassia NGC1566, non ha subito assorbimenti da polveri ed ha potuto raggiungere indisturbata la sua massima luminosità. La SN2021rhu invece situata molto vicino al nucleo ha subito un forte assorbimento dovuto alle polveri della galassia ospite, che hanno tolto alla supernovae oltre mezza magnitudine. Senza questo assorbimento la SN2021rhu sarebbe diventata la supernova più luminosa dell’anno, essendo di fatto nel 2021 la supernova di tipo Ia esplosa più vicina a noi.

Transiti ISS notevoli per il mese di Gennaio 2022

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La ISSStazione Spaziale Internazionale sarà rintracciabile nei nostri cieli in orari mattutini nelle prime due settimane di Gennaio e serali nelle seconde due. Questo primo mese del nuovo anno sarà caratterizzato da molti transiti notevoli con magnitudini elevate e quindi auspichiamo come sempre in cieli sereni!

Si inizierà il giorno 04 Gennaio, dalle 06:24 alle 06:32, osservando da NO a ESE.

La ISS sarà ben visibile da tutto il Paese, in particolare in nordest, con una magnitudine massima che si attesterà su un valore di -3.4.

Si replica il 06 Gennaio, dalle 06:26 verso ONO alle 06:33 verso SE.

Visibilità perfetta dalle regioni occidentali e dalle Isole Maggiori, con magnitudine di picco a -3.6.

Osservabile senza problemi, meteo permettendo!

Passiamo al giorno successivo, il 07 Gennaio, con un transito parziale dalle 05:41 in direzione SE e alle 05:46 in direzione SE.

Visibilità migliore dal centro sud Italia, con magnitudine di picco di -3.6 non appena la ISS uscirà dall’ombra della Terra.

Saltando poco meno di due settimane, il 20 Gennaio la ISS tornerà a solcare i nostri cieli, questa volta con transiti serali.

Transiterà infatti dalle 18:24 alle 18:31, da OSO a NE. Magnitudine di picco a -3.6, osservabile da tutta la nazione.

Il penultimo transito notevole di questo mese sarà nuovamente apprezzabile da tutta Italia e osservabile quasi da orizzonte.

Il transito è previsto il 21Gennaio dalle 17:36 alle 17:45, da SO a ENE con magnitudine massima di -3.7.

L’ultimo transito del mese, il 23 Gennaio, sarà visibile dalle 17:37 verso OSO alle 17:46 verso NE.

La ISS sarà visibile al meglio dal centro Nord, meteo permettendo. Magnitudine di picco a -3.2.

GiornoOra InizioDirezioneOra FineDirezioneMagnitudine
0406:24NO06:32ESE-3.4
0606:26ONO06:33SE-3.4
0705:41SE05:46SE-3.6
2018:24OSO18:31NE-3.6
2117:36SO17:45ENE-3.7
2317:37OSO17:46NE-3.2
N.B. Le direzioni visibili per ogni transito sono riferite ad un punto centrato sulla penisola, nel centro Italia, costa tirrenica. Considerate uno scarto ± 1-5 minuti dagli orari sopra scritti, a causa del grande anticipo con il quale sono stati calcolati.

Mondi in miniatura – Asteroidi, Gennaio 2022

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Parlare di asteroidi significa sondare delle origini del Sistema Solare.

Immaginiamo di disporre di una macchina del tempo, che ci possa trasportare in sicurezza e a piacimento in un qualsiasi momento vogliamo.  Per risalire alle origini del Sistema Solare, è necessario impostare l’orologio della nostra macchina del tempo a circa 5 miliardi di anni fa: allora, niente di ciò che conosciamo esisteva ancora e il nostro stesso Sole era nei primi stadi della sua infanzia, una sfera rarefatta di gas e polveri. Al suo interno, nell’arco di alcuni milioni di anni, i moti vorticosi ereditati dalla nube progenitrice avrebbero generato un nucleo di condensazione ed un disco in lenta rotazione attorno a quel grumo iniziale. I granelli di polvere, che all’inizio avevano dimensioni infinitesimali (un diametro di un millesimo di millimetro), si sarebbero uniti in corpi di dimensioni mano a mano più grandi, attraverso processi le cui fasi sono ancora oggetto di studio e le cui dinamiche non sono ancora state comprese fino in fondo; tuttavia, quello che è importante è che migliaia di miliardi di infinitesimi granelli di polvere si aggregarono fino a dare forma ad una moltitudine di planetesimi (gli embrioni di quelli che definiremo poi i pianeti) e di asteroidi.

Negli ultimi anni è molto cresciuta l’attenzione nello studio degli Asteroidi, specialmente per quelli che possono rappresentare un potenziale, catastrofico, pericolo di impatto per il nostro pianeta. Lo studio dei NEO (Near Earth Object) è tra i campi in cui la collaborazione tra astrofili e professionisti è più stretta e proficua. Tra i fautori di questa importante sinergia si annoverano figure di spicco di livello internazionale, come l’astronomo Fabrizio Bernardi, scopritore dell’asteroide Apophis e responsabile del programma NeoDys.

A caccia di asteroidi!

L’osservazione degli asteroidi è sicuramente alla portata della strumentazione di un astrofilo.

Gli asteroidi più luminosi posso essere osservati in visuale, sotto cieli scuri, con telescopi di almeno 20/25 cm di apertura, mentre per quelli più deboli è necessario utilizzare un buon strumento dotato di camera CCD oppure CMOS. Innanzitutto sarà necessario prepararsi alla sessione osservativa, conoscendo in anticipo la posizione precisa dell’oggetto che vogliamo immortalare: allo scopo si potrà utilizzare il servizio online reso disponibile dal Minor Planet Center, dal quale è possibile generare le effemeridi di precisione, che ci consentiranno di andare a colpo sicuro nella nostra “caccia”. In alternativa, per la generazione delle effemeridi sarà possibile utilizzare un programma di planetario: in tal caso dovremo avere l’accortezza di aggiornare i parametri orbitali del programma.

L’osservazione degli Asteroidi introduce una piccola “complicazione” nei tempi di esposizione, dovuta alla velocità angolare che caratterizza questi oggetti. Un esempio nelle immagini di seguito:

L’asteroide (197) Arete ripreso la notte dell’11 Dicembre 2021 nell’ambito di una sessione di fotometria asteroidale. Si può notare l’aspetto puntiforme dell’oggetto, dovuto a dei tempi di esposizione tra i 4 e i 5 minuti.

Vari sono i software che possono essere utilizzati per l’elaborazione delle immagini nelle quali sono presenti i nostri soggetti, Deep Sky Stacker ne è un esempio. In questo caso il software utilizzato è Thyco Tracker (per la riduzione astrometrica, è scaricabile in versione di prova gratuita).

(197) Arete come appare in una integrazione con tempi di esposizione ben maggiori: in questo caso di 45 minuti. La traccia è evidentissima e rende bene l’idea del movimento dell’asteroide.

Sarà necessario quindi trovare un compromesso: vogliamo che l’oggetto nelle nostre immagini appaia puntiforme come una stella oppure desideriamo evidenziarne il movimento, facendolo apparire come una piccola “strisciata” sullo sfondo delle stelle di campo?

Nel primo caso utilizzeremo un tempo di esposizione perfettamente calibrato con il rateo di moto angolare dell’oggetto e, se questo è sufficientemente luminoso, apparirà nelle singole immagini come una stella tra le tante. Nel caso si preferisse mettere in evidenza il movimento, utilizzeremo tempi di esposizione più lunghi, in modo che si percepisca la traccia del movimento, e nelle nostre immagini l’asteroide apparirà come una piccola striscia luminosa di forma più o meno allungata, in base alla durata dell’esposizione.

Cosa osservare a gennaio 2022

L’orbita di (7) Iris e la sua posizione al 13/1/2022. (https://www.spacereference.org/solar-system#ob=7-iris-a847-pa)

(7) Iris è un asteroide di fascia principale che compie un’orbita intorno al Sole ogni 1.350 giorni (3.70 anni) ad una distanza compresa tra le 1.84 e le 2.93 unità astronomiche (rispettivamente, 275.260.081 Km al perielio e 438.321.759 Km all’afelio).

Deve il suo nome a Iride, personaggio mitologico, personificazione dell’arcobaleno e messaggera degli dei. Scoperto da John Russell Hind il 13 di Agosto del 1847, questo grande asteroide (con i suoi 199 Kilometri di diametro è più grande del 99% degli Asteroidi ad oggi conosciuti) sarà in opposizione (ovvero si troverà alla minima distanza dalla Terra) il 13 Gennaio del 2022. In questo frangente raggiungerà la massima brillantezza con una magnitudine di 7.7. Ipotizziamo quindi di volerlo riprendere tra le notti del 12 e del 14 (Gennaio) quando solcherà il cielo muovendosi di 0,70 secondi d’arco al minuto.

Per far si che l’oggetto mantenga un aspetto puntiforme nelle nostre immagini, dovremo utilizzare dei tempi di esposizione non più lunghi di 4 minuti. In quel lasso di tempo l’asteroide avrà infatti percorso una distanza angolare inferiore al nostro valore di campionamento, che risulterà quindi troppo piccola per essere rilevata. Al fine di ottenere invece la bella traccia che metta in risalto il movimento, dovremo poter esporre (od integrare, grazie a questa tecnica è infatti possibile “simulare” esposizioni molto lunghe attraverso la somma di un buon numero pose brevi) per un tempo più lungo e con 40 minuti di posa vedremo (7) Iris trasformarsi in una bella striscia luminosa di 28 secondi d’arco.

L’orbita di (68) Leto e la sua posizione al 19/1/2022. (https://www.spacereference.org/solar-system#ob=68-leto-a861-hb)

(68) Leto è un asteroide di fascia principale che compie un’orbita intorno al Sole ogni 1.700 giorni (4.65 anni) ad una distanza compresa tra le 2.27 e le 3.30 unità astronomiche (rispettivamente, 339.587.165 Km al perielio e 493.672.971 Km all’afelio). Deve il suo nome a Leto, madre di Apollo e di Artemide.

Scoperto dall’astronomo tedesco Karl Theodor Robert Luther  il 29 Aprile 1861, questo grande asteroide (122 Km di diametro) sarà in opposizione il 19 Gennaio del 2022, momento nel qualeraggiungerà la massima luminosità brillando di magnitudine di 11.4.

Il suo moto sarà di 0,58 secondi d’arco al minuto, quindi, per far si che l’oggetto mantenga un aspetto puntiforme nelle  nostre immagini, in questo caso, potremo utilizzare tempi di esposizione fino a 4/5 minuti. Per ottenere  una traccia di movimento dovremo esporre (o integrare) per un tempo più lungo, e con 40 minuti di posa vedremo (68) Leto trasformarsi in una bella striscia luminosa di 23 secondi d’arco. 

L’orbita di (925) Alphonsina e la sua posizione al 10/1/2022. (https://www.spacereference.org/solar-system#ob=925-alphonsina-a920-aa )

(925) Alphonsina è un asteroide di fascia principale che compie un’orbita intorno al Sole ogni 1.620 giorni (4.44 anni) ad una distanza compresa tra le 2.48 e le 2.92 unità astronomiche (rispettivamente, 371.002.718 Km al perielio e 436.825.780 Km all’afelio). Appartiene alla famiglia di asteroidi Hansa e misura 58 Kilometri di diametro.

Deve il suo nome in onore di due re, Alfonso X e Alfonso XIII. Scoperto dall’astronomo Catalano Josep Comas i Solà il 13 Gennaio 1920, sarà in opposizione il 10 di Gennaio del 2022 brillando ad una magnitudine di 11.6. 

Il  moto dell’oggetto sarà di 0,77 secondi d’arco al minuto, quindi, con tempi di esposizione fino a 4 minuti ne preserveremo l’aspetto puntiforme. Volendo ottenere  una traccia di movimento dovremo esporre (o integrare) per un tempo più lungo, e con 40 minuti di posa vedremo (925) Alphonsina trasformarsi in una bella striscia luminosa di 30 secondi d’arco.

NOTA: Per integrazione si intende una tecnica di post-produzione che consiste nell’allineamento e nella somma di diverse immagini ottenute con pose che possono essere molto brevi, anche dell’ordine di pochi secondi. Ne scaturirà un immagine composita, il cui tempo complessivo di esposizione sarà uguale alla somma del tempo di posa delle singole immagini, e il cui rapporto segnale rumore risulterà migliore, rispetto a quello delle singole immagini.

Selezione di asteroidi (luminosi) in opposizione il 1 gennaio 2022

(22) KalliopeMagnitudine: 10
(136) AustriaMagnitudine: 13
(207) HeddaMagnitudine: 13
(438) ZeuxoMagnitudine: 13
(550) SentaMagnitudine: 13
(554) PeragaMagnitudine: 11
(787) MoskvaMagnitudine: 13
(916) AmericaMagnitudine: 14
(5392) ParkerMagnitudine: 14

Non si esce vivi dagli anni ’80. Pt 1

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Ciao a tutti, popolo delle stelle! Oggi comincerò parlando del 1981, il mio anno di nascita. Sedetevi comodi, togliete le reebok pump, mettete le cuffie del vostro walkman e lasciatevi trasportare in un mondo retrò ma non troppo, mentre le mie parole vi portano fra cieli lontani, nuove scoperte e sogni adolescenziali.

Cominciamo allora parlando della prima missione operativa della navetta spaziale statunitense Columbia, noto ai più come Space Shuttle. Siamo in aprile e un veicolo spaziale destinato a fare la storia dei viaggi spaziali con astronauti e materiale si accinge a partire da una base terrestre per arrivare fino ad un altro veicolo spaziale, una stazione orbitale, per poi fare rotta verso casa, con “The winner takes it all” degli Abba che suona in sottofondo. Eh sì, perché dopo una serie di lanci e voli sperimentali, fatta una gavetta di 2 anni, avveniva la prima missione operativa, con ben due astronauti: il pilota Robert Crippen e il comandante John Young. La missione si svolgeva in un’orbita circumterrestre. Lo Space Shuttle opererà sino al luglio 1999, compiendo complessivamente 23 voli che videro alternarsi equipaggi e missioni, permanendo complessivamente in orbita ben 206 giorni. Mica pizza e fichi! Sempre nello stesso anno, William B. Hubbard, astronomo della University of Arizona a Tucson, scopre il terzo satellite di Nettuno: un macigno dal diametro pari a 160 km, a cui venne dato il nome Proteo. La missione Voyager 2, successivamente, nel 1989, scoprirà altri 6 nuovi satelliti ed un secondo anello parziale attorno al pianeta, che sarà confermato nel 1984 da parte dell’ESO (European Southern Observatory) di La Silla in Cile.

Il cielo del 1981 continuava a donare sorprese. In quell’anno furono scoperte quattro galassie lontanissime, distanti circa 10 miliardi di anni luce. La scoperta fu annunciata dagli astronomi Hyron Spinrad, della University of California, a Berkeley, e John Stauffer, della Smithsonian Institution di Washington (DC). Erano gli oggetti celesti più lontani mai scoperti sinora.

E mentre al CERN di Ginevra si verificavano le prime collisioni tra protoni e antiprotoni, ottenute grazie al raffreddamento stocastico, milioni di ragazzi si accingevano a giocare al Donkey Kong, uscito nel luglio dello stesso anno e dove faceva la sua prima apparizione la leggenda: Super Mario. Nelle loro magliette a righe gialle e marroni che li facevano assomigliare a caramelle mou, i ragazzi di quell’epoca sognavano il grande spazio, mentre la sonda Voyager 2 raggiungeva il punto di massimo avvicinamento a Saturno (101000 km) prima di proseguire nel suo “Grand Tour” verso Urano e Nettuno.

Fonte:NASA

Le scoperte scientifiche in quell’anno furono un po’ offuscate dagli avvenimenti dall’enorme risonanza mediatica, due fra tutti le nozze di Carlo d’Inghilterra e Diana Spencer e l’attentato a Papa Wojtyla. Ma ehi, erano appena cominciati gli anni ’80. Chi lo sapeva dove la nave avrebbe condotto la ciurma? Si veleggiava a vista, con i piedi puntati a terra e lo sguardo allo spazio e credetemi quando vi si dice che gli anni ’80 hanno segnato un’epoca. Perché i ragazzi, quelli che li hanno vissuti, quelli che oggi hanno 40 anni e che si vestono in giacca e cravatta, ne portano ancora i segni. E sotto sotto, vestono ancora quell’improbabile maglietta a righe.

Alla prossima puntata n°2!

Le Costellazioni di Gennaio 2022: Toro, Pleiadi e Perseo Brillano nel Cielo di Gennaio

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Nel cielo boreale di gennaio è caratterizzato dalle costellazioni invernali che si stagliano sulla volta celeste già dalla prima parte della serata: da est nelle prime ore della notte fanno capolino Cancro e Leone, a sud-est il protagonista è ancora Orione insieme a Cane Maggiore e Minore e la stella più luminosa dell’inverno, Sirio; nel punto più alto della sfera celeste (Zenit) brilla Perseo accompagnato dall’Auriga e, poco più in basso, Gemelli, Toro e Pleiadi accendono le serate invernali.

Volgendo lo sguardo a Nord troviamo come sempre le costellazioni circumpolari, Orsa Maggiorn, Orsa Minore, Drago, Cefeo, Cassiopea, Giraffa e Lince.

LA COSTELLAZIONE DEL TORO DOMINA IL CIELO BOREALE

Tra le costellazioni osservabili nel cielo boreale invernale quella del Toro occupa un posto da protagonista.

Si tratta di una delle costellazioni della fascia dello Zodiaco, compresa tra Ariete e Gemelli, facilmente riconoscibile per la sua forma a V e per la sua stella principale Aldebaran, una gigante arancione grande 40 volte il Sole e che con la sua magnitudine +0,98 è la quattordicesima stella più luminose del cielo notturno.

Alpha Tauri, l’occhio del Toro, è piacevole da osservare per il suo scintillio di colore arancio.

Le stelle Elnath e Alheka caratterizzano le corna dell’animale che si estendono verso est, mentre Beta Tauri (Elnath) è una stella stranamente condivisa, appartiene infatti anche alla costellazione dell’Auriga, di cui è uno dei vertici del pentagono celeste.

La costellazione del Toro si espande a est/sud-est dove un brillante ammasso aperto (a 150 anni luce da noi) conosciuto con il nome di Iadi, delinea la testa dell’animale.

M45: UN AMMASSO APERTO NEL CUORE DELL’INVERNO

Ma alla costellazione del Toro è inevitabilmente associato un altro oggetto, uno dei più interessanti e conosciuti, quello delle Pleiadi o, dal catalogo Messier, M45.

Si tratta di un ammasso stellare aperto distante 440 anni luce da noi, collocato nella spalla del Toro.

Senza l’ausilio di telescopi sono ben visibili, lontani da cieli urbani e troppo luminosi, già sette fra le stelle più luminose dell’ammasso, assumendo una forma che rimanda al piccolo carro. Aiutandosi invece con un binocolo o con un telescopio si scopre che l’ammasso è molto più esteso, sono centinaia le stelle, in prevalenza giganti blu e bianche che compongono l’ammasso.  Stelle che sono legate da un’origine comune e da reciproche forze gravitazionali.

Nelle fotografie a lunghe esposizioni o all’oculare di un telescopio di apertura considerevole, non è difficile notare dei piccoli aloni a circondare i singoli oggetti luminosi. Sono nubi di polvere, dette nebulose a riflessione, illuminate dalle stelle.

M45 prende parte alla sfilata degli oggetti più belli e suggestivi del cielo invernale, attirando sempre molta curiosità negli amanti del cielo, poiché l’ammasso è spesso protagonista di congiunzioni con la Luna o pianeti come Marte e Venere.

LE PLEIADI NELLA MITOLOGIA

Interessanti dal punto di vista astronomico, la Pleiadi sono anche circondate da numerosi riferimenti mitologici. Chiamate sovente le “sette sorelle”, sono rappresentate come ninfe della montagna, figlie di Atlante e l’oceanina Pleione: Alcione, Asterope, Celeno, Elettra, Maia, Merope e Taigeta.

Il nome dell’ammasso Pleiadi, sembra avere diverse etimologie. La più nota associa il termine al verbo navigare “plain”, giacché l’apparizione dell’ammasso nel cielo rappresentava, per i marinai dell’antichità, un preciso e favorevole punto di riferimento.

Un’altra interpretazione lega il nome Pleiadi al sostantivo colombe in cui le sette sorelle si trasformarono per sfuggire all’inseguimento del cacciatore Orione. Ma qui la storia si complica! Un altro mito infatti attribuisce la trasformazione in colombe delle Pleiadi non tanto al tentativo di sottrarsi dalle attenzioni del valoroso cacciatore, ma più alla disperazione delle sorelle dovuta alla punizione inflitta da Zeus al loro padre, Atlante, condannato a portare sulle sue spalle il peso del mondo. 

Più attuale e dei nostri giorni invece il verso di Pascoli che decantava: “La Chioccetta per l’aia azzurra va col suo pigolìo di stelle” nel Gelsomino Notturno. Anche il poeta quindi volle dare la sua personale interpretazione a quel gruppetto di luminosi astri, paragonandolo a una chioccia che si trascina dietro una covata di pulcini intenti a pigolare. Immagine curiosa ma d’effetto, in una bella notte stellata infatti può sembrare di udir riecheggiarne il suono.

OGGETTI DEL PROFONDO CIELO: LA NEBULOSA GRANCHIO

In direzione della stella Tauri del Toro, ovvero Alheka, si trova uno degli oggetti più importanti in campo astronomico e nell’astronomia a raggi x: è persino il primo oggetto del Catalogo Messier, M1, meglio nota con il nome Nebulosa del Granchio (approfondimento nel n. 254 con uscita a gennaio).

L’oggetto, dalla forma ad anello, si trova a circa 6500 anni luce dal Sistema Solare ed è ciò che resta dell’esplosione di una Supernova. Materiali ferrosi e gas espulsi dalla stella, Supernova 1054, durante la fase finale della sua vita, un’esplosione in grado di proiettare tutti i propri frammenti a lontanissimo, ancora oggi a velocità che sfiorano i circa 1500 km/s. Oggi il centro della nebulosa ospita ciò che resta della stella esplora, una potente stella di neutroni che ruotando su sé stessa crea l’effetto pulsar.

L’esplosione della supernova 1054 non rimase inosservata. Il 4 luglio del 1054 gli astronomi cinesi furono i primi ad accorgersi del nuovo astro apparso in cielo ed ebbero la fortuna di assistere al bagliore prodotto dall’esplosione per lungo tempo. Visibile persino di giorno grazie ad una magnitudine dell’oggetto compresa tra −7 e −4,5 (per contro Sirio, la stella più luminosa del nostro cielo ha una magnitudine apparante di solo -1.4).

Con così tanti dati a disposizione su questa nebulosa, la Nebulosa Granchio è spesso impiegata dagli astronomi come elemento di calibrazione nell’astronomia a raggi X e negli studi dell’universo alle altissime energie.

M1 può essere individuata facilmente già con un binocolo, o ancor meglio con un telescopio anche amatoriale, dove apparirà come una macchia debole e chiara, ma caratterizzata da una luminosità poco omogenea.

LA COSTELLAZIONE DEL TORO NELLA MITOLOGIA

Il Toro è una delle costellazioni più antiche di cui si trovi traccia. Ben 5.000 anni fa infatti il punto Gamma che indica l’equinozio di primavera, si trovava proprio in questa costellazione, nei pressi della stella Aldebaran.

Citazioni si trovano negli scritti dei Sumeri ove la figura zodiacale che assumeva connotazioni mitologiche e si rendeva protagonista di storie d’amore conflittuali. Per gli antichi egiziani invece i tori erano figure mitologiche da venerare.

Nell’antica Grecia il mito del Toro fu associato al Minotauro, frutto del tradimento consumato da Pasifae con il sacro Toro di Creta alle spalle del marito Minosse.

Ma la storia è molto più avvincente. Sembra infatti che Zeus si fosse innamorato della principessa fenicia Europa, decidendo di sedurla a tutti i costi persino tendendole una trappola.

Così, mentre Europa si trovava sulla spiaggia ingenua e spensierata in compagnia delle sue ancelle, vide arrivare un bellissimo toro bianco, animale in cui Zeus nel frattempo si era trasformato per non destare sospetto nella principessa. La fanciulla ignara sulla vera natura dell’animale vi salì in groppa e si fece trasportare vittima quindi inconsapevole di un rapimento. Il toro attraverso i mari galoppando fino a raggiungere l’isola di Creta e solo una volta giunti a destinazione Zeus si manifestò nelle sue sembianze ed abusò di Europa. Unione infelice da cui nacquero: Minosse, Radamanto e Sarpedonte.

Luna di Gennaio

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Giunto ormai quasi al termine della fase calante, il nostro satellite sorgerà per la prima volta nel nuovo anno alle ore 06:38 del 1 Gennaio in fase di 28 giorni mentre alle ore 19:33 del giorno successivo, il 2 Gennaio, sarà in fase di Luna Nuova venendosi a trovare fra il nostro pianeta ed il Sole col proprio emisfero in ombra rivolto verso la Terra e col contestuale riavvio della fase crescente.

In tali condizioni la Luna raggiungerà progressivamente condizioni osservative sempre più favorevoli che ne consentiranno l’osservazione anche nelle comode ore della sera. Alle 19:11 del 9 Gennaio la Luna sarà in Primo Quarto in fase di 7 giorni mentre si troverà ad un’altezza di +47°. Nel caso specifico si renderà visibile per tutta la serata andando a tramontare poco dopo la mezzanotte. Supponendo che il meteo rispetti le indicazioni del calendario, un Gennaio più o meno benevolo potrebbe anche consentire di portare il telescopio sul balcone e puntarlo verso il Primo Quarto dove le cose da vedere certamente non mancano.

Infatti, tralasciando per questa volta il terminatore, risulta altrettanto interessante e stimolante scorrere con l’oculare l’estremo bordo lunare, nonostante l’altezza del Sole sull’orizzonte della Luna non consenta osservazioni in alta risoluzione così come sarebbe possibile lungo il terminatore dove il minore angolo di incidenza della luce solare mette in evidenza una enorme varietà di dettagli. Partendo dal bordo lunare nordest non potrà mancare una visita al mare Humboldtianum, una scura e vasta area di rocce basaltiche con superficie di 22000 kmq proveniente dal periodo geologico Nectariano collocato a 3,8 miliardi di anni fa. Un’altra struttura col fondo notevolmente scuro è il vicino e antichissimo Endymion di 129 km di diametro (periodo geologico Pre Nectariano, da 4,5 a 3,9 miliardi di anni fa). Superato il vasto cratere Gauss di 180 km di diametro ricoperto da detriti ad elevata albedo si entra in una regione in cui, a prescindere dal più esteso mare Crisium (180.000 kmq, che vedremo), sarà possibile scandagliare varie strutture relativamente pianeggianti e con forma irregolare ricoperte da scure rocce basaltiche fra cui il mare Marginis di 62000 kmq, il mare Undarum di 21000 kmq, il mare Spumans di oltre 200 km di diametro, il mare Smythii di 104000 kmq, si tratta di antichissime strutture risalenti al periodo geologico Pre Nectariano, da 4,5 a 3,9 miliardi di anni fa. Ancora più a sud, superato l’immenso cratere Humbodt di 213 km di diametro (da non confondere col già citato mare Humboldtianum situato a nordest), si potranno individuare innumerevoli strutture crateriformi ricoperte da scure rocce basaltiche facenti parte del mare Australe situato fra i due emisferi lunari.

Al culmine della fase crescente, alle ore 00:49 del 18 Gennaio il nostro satellite sarà in Plenilunio in fase di 15 giorni, alla distanza di 395055 km dalla Terra, diametro apparente 30.25′ e ad un’altezza di +69°. In tale occasione la Luna splenderà in cielo alla massima altezza essendo transitata in meridiano solo da pochi minuti (alle ore 00:33), rendendosi perfettamente visibile fino alle prime luci dell’alba quando andrà a tramontare contestualmente al sorgere del Sole. Nonostante sia opinione molto diffusa che la Luna Piena sia assolutamente priva di spunti interessanti, consiglierei di puntare il telescopio sulla regione polare sud dove in condizioni di librazione anche solo moderatamente favorevole sarà possibile individuare il profilo dei monti Dorfel (6/7000 mt) e dei monti Leibnitz con vette fino a circa 10/11000 mt situati in prossimità dell’estremo margine meridionale del gigantesco bacino di Aitken (diametro di 2500 km e profondo circa 11/12 km, situato nell’opposto emisfero ed uno dei più estesi dell’intero Sistema Solare) oltre ad una numerosa schiera di grandi strutture.

Altro notevole target in Plenilunio è rappresentato dal vastissimo Bailly(311 km), il più esteso cratere visibile sull’emisfero rivolto verso il nostro pianeta con la sua immensa platea ricchissima di dettagli. A questo punto riparte la fase di Luna Calante che a metà del suo percorso, alle ore 14:41 del 25 Gennaio, porterà il nostro satellite in Ultimo Quarto ma ad un’altezza di -33° sotto l’orizzonte. Chi fosse intenzionato ad effettuare osservazioni col proprio telescopio dovrà attendere fino alla notte successiva, il 26 Gennaio, quando alle ore 01:37 la Luna sorgerà in fase di 23 giorni rendendosi visibile fino alle prime luci dell’alba quando transiterà in meridiano (ore 06:49) ad un’altezza di +30°. Per la notte del 26 segnalo che il punto di massima librazione si troverà alla latitudine del cratere Cruger scorrendo nelle ore successive verso nord lungo il bordo del mare Orientale, occasione imperdibile (meteo permettendo, siamo a gennaio…) per individuare gli anelli montuosi concentrici più esterni (montes Cordillera e montes Rook con vette fino a 6000 mt) di questo eccezionale bacino da impatto di circa 900 km di diametro situato nell’altro emisfero. Una nota peculiarità della Luna in Ultimo Quarto consiste nella possibilità di potere scandagliare col telescopio una immensa distesa lavica dove la scura colorazione delle rocce di origine basaltica dell’oceanus Procellarum e del Sinus Roris così come dei mari Imbrium, Nubium e Humorum ci apparirà in netto contrasto rispetto alla più elevata albedo delle rocce anortositiche che ricoprono gli altipiani, in questo caso però limitatamente al settore ovest-sudovest. Da qui agli ultimi giorni del mese la visibilità della Luna si ridurrà sempre più verso le ore notturne. Infatti per Gennaio l’ultima notte utile sarà quella del 29 quando sorgerà alle 05:30, occasione solo per qualche rapida occhiata prima che la luce del Sole prevalga definitivamente, in attesa dell’imminente Novilunio in apertura del prossimo mese, ma ne riparleremo.

Le Falci lunari di Gennaio

Si inizia subito col primo appuntamento in Luna Calante per la tarda nottata del 1 Gennaio con una sottile falce in fase di 28 giorni che sorgerà alle ore 06:38. Data la vicinanza al sorgere del Sole forse ci sarà solo il tempo per qualche veloce foto con la Luna in corrispondenza dell’orizzonte. Passando alla Luna Crescente, una falce di 2 giorni tramonterà alle ore 18:49 del 4 Gennaio accompagnata dai pianeti Saturno e Mercurio nella costellazione del Capricorno.

La finestra temporale potrà consentire di individuare il mare Humboldtianum a nordest ed il vasto cratere Neper col suo evidente picco centrale in prossimità dell’equatore, rintracciabile fra le scure aree basaltiche dei mari Marginis, Undarum e Smythii. La successiva serata, il 5 Gennaio, ci si potrà dedicare ad una molto più comoda falce di 3 giorni già a partire dalle ore 17:45 circa in uno spettacolare quadretto composto nell’ordine da Mercurio, Saturno, Luna e Giove fra le stelle del Capricorno e perfettamente visibile fino poco dopo le ore 20:00 quando scenderà sotto l’orizzonte.

Nel caso specifico si potranno effettuare osservazioni di innumerevoli strutture geologiche di vario diametro come lungo il margine est del mare Fecounditatis con gli spettacolari ed imponenti Langrenus, Vendelinus, Petavius, Furnerius di 140/180 km di diametro nell’occasione proprio in prossimità del terminatore. Altro target da non perdere riguarda il mare Crisium(181.000 kmq) unitamente all’area circostante senza perdere di vista le rispettive cuspidi nord e sud. Nel corso del mese non vi sono altri appuntamenti fino alla tarda nottata del 29 Gennaio con una falce di 26 giorni che sorgerà alle ore 05:30 in Sagittario accompagnata dai pianeti Marte e Venere.

Volendo approfittarne per qualche rapida occhiata se ne potrà apprezzare la differenza di albedo fra il settore settentrionale (scure rocce basaltiche) e quello meridionale (chiare rocce anortositiche) con l’inconfondibile “macchia nera” del vasto cratere Grimaldi. Infine alle ore 06:38 del 30 Gennaio una falce di 27,4 giorni potrà essere individuata poco prima del sorgere del Sole preceduta da Marte e Venere, operando in condizioni di completa sicurezza al fine di non intercettare la luce solare. Per questa tipologia di osservazioni, oltre agli ormai noti parametri osservativi, risulterà determinante disporre di un orizzonte il più possibile libero da ostacoli.

Librazioni di Gennaio

(In ordine di calendario, per i dettagli vedere le rispettive immagini). Si precisa che, per ovvi motivi, non vengono indicati i giorni in cui i punti di massima Librazione si discostano dalla superficie lunare illuminata dal Sole.

Librazioni Regione Nordest-Est:

– 04 Gennaio: Fase 01,97 giorni – Massima Librazione mare Humboldtianum

– 05 Gennaio: Fase 03,05 giorni – Massima Librazione mare Humboldtianum

– 06 Gennaio: Fase 04,09 giorni – Massima Librazione sud mare Humboldtianum

– 07 Gennaio: Fase 05,14 giorni – Massima Librazione est cratere Mercurius

– 08 Gennaio: Fase 06,18 giorni – Massima Librazione est cratere Mercurius

– 09 Gennaio: Fase 07,18 giorni – Massima Librazione est cratere Gauss

– 10 Gennaio: Fase 07,26 giorni – Massima Librazione est cratere Gauss

– 11 Gennaio: Fase 08,26 giorni – Massima Librazione est cratere Gauss

– 12 Gennaio: Fase 09,26 giorni – Massima Librazione est cratere Cleomedes

– 13 Gennaio: Fase 10,36 giorni – Massima Librazione est mare Marginis

Librazioni Regione Sud-Sudovest-Ovest:

– 17 Gennaio: Fase 14,87 giorni – Massima Librazione cratere Bailly

– 18 Gennaio: Fase 15,91 giorni – Massima Librazione sud cratere Pingre

– 19 Gennaio: Fase 16,95 giorni – Massima Librazione ovest cratere Pingre

– 20 Gennaio: Fase 18,00 giorni – Massima Librazione ovest cratere Pingre

– 21 Gennaio: Fase 19,03 giorni – Massima Librazione ovest cratere Phocylides

– 22 Gennaio: Fase 20,10 giorni – Massima Librazione ovest cratere Inghirami

– 23 Gennaio: Fase 21,14 giorni – Massima Librazione ovest cratere Schickard

– 24 Gennaio: Fase 21,21 giorni – Massima Librazione ovest cratere Schickard

– 25 Gennaio: Fase 22,21 giorni – Massima Librazione ovest cratere Lagrange

– 26 Gennaio: Fase 23,25 giorni – Massima Librazione ovest cratere Cruger (lat.Mare orientale)

– 27 Gennaio: Fase 24,29 giorni – Massima Librazione ovest cratere Cavalerius

Merry Webbmas!

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Oggi alle 13.20 ora italiana, dalla base di lancio in Guiana, a bordo di un razzo Ariane, ha preso il volo il telescopio spaziale James Webb, progettato in collaborazione dalla NASA e dall’ESA.

Con uno specchio composto da 18 settori esagonali realizzati in berillio placcato oro di 6,5 metri (contro i 2,4 del telescopio spaziale Hubble), potrà fare osservazioni nelle lunghezze d’onda del visibile e dell’infrarosso, indagando eventi ed oggetti nell’universo lontano, all’epoca della formazione delle prime galassie, e potrà dare informazioni sulle atmosfere dei pianeti fuori dal sistema solare, alla ricerca di pianeti potenzialmente abitabili.

Per consentire osservazioni così precise, la strumentazione del telescopio dovrà essere mantenuta ad una temperatura estremamente bassa, circa −223°C. Ma la cosa più straordinaria è che per evitare interferenze dal Sole e dalla Terra, il James Webb non sarà in orbita intorno al nostro pianeta (come era ad esempio l’Hubble) ma viaggerà fino al punto di Lagrange L2, uno dei cinque punti di equilibrio dinamico del sistema Terra-Sole, sulla linea tra i due oggetti ma oltre la Terra a circa 1,5 milioni di chilometri da noi, quindi oltre ogni possibilità di manutenzione o riparazione in caso di problemi.

Il progetto ha sofferto numerosi ritardi dall’inizio della pianificazione nel 1996, molto oltre la prima data prevista di lancio nel 2007, compresi un re-design dei sistemi, avarie gravi nei test di controllo, numerosi sforamenti del budget, e più recentemente una certa pandemia che ben conosciamo.

Oggi finalmente il JWST è in viaggio, un viaggio nel buio della spazio che durerà ben 6 mesi, fino a raggiungere la sua posizione finale. Solo allora lo specchio primario verrà aperto e gli strumenti scientifici verranno accesi, e solo allora l’occhio di berillio dorato potrà vedere la sua Prima Luce. Perché l’astronomia è una scienza che insegna tanto, ma soprattutto insegna la pazienza. L’universo non ha fretta. E nemmeno noi.

Buon viaggio, James Webb.

Ci vediamo presto.

L’era dell’oro: gli anni 80

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Ciao raga! Come butta? Oggi vorrei cominciare una piccola rubrica che spero possa essere gradita. Io sono un baby boomer della Y generation cresciuto a pellicole di fantascienza e videogame 8-bit. Quindi cosa di meglio che scavare nei propri sentimenti per far uscire qualcosa di veramente sentito? Ecco, allora direi che possiamo parlare dell’astronomia degli anni 80.

Cosa successe nel cielo in quegli anni magici? Beh, 40 anni fa (brrr…fa quasi paura a sentirlo), ci furono un sacco di scoperte interessanti nel mondo dell’astrofisica e numerose missioni spaziali. Oggi si salta a piè pari nel 1980, l’anno in cui il palcoscenico degli 80’s ha aperto i battenti e la leggenda ha avuto inizio. In quell’anno uscivano nelle sale cinematografiche film del calibro dei “Blues Brothers”, “l’Impero colpisce ancora” e “Shining”, ed i post-it, quei maledetti fogliettini adesivi che appestano gli schermi dei computer creando più casino che ordine, venivano purtroppo messi in commercio.

Il 1980 vede la scoperta di Prometeo, un satellite di Saturno e la vittoria del premio Wolf da parte di Andrej N. Kolmogorov, uno degli studiosi che hanno contribuito a migliorare l’analisi di Fourier, della probabilità, della teoria ergodica e dei sistemi dinamici: in pratica, quasi ogni disciplina matematica. Nasce nel 1980 anche la teoria dell’Universo inflazionario, secondo la quale, dopo il big bang, l’Universo si sarebbe espanso in maniera molto rapida, in un tempo dell’ordine di un millesimo di miliardesimo di un miliardesimo di miliardesimo di secondo. Durante questa ci fu un brusco raffreddamento e la scomparsa delle fluttuazioni di materia oltre che molti altri effetti che potrebbero spiegare l’omogeneità e l’isotropia dell’Universo attuale.

Mentre PACMAN mangiava palline sugli schermi dei cabinati e Dago faceva capolino in edicola, i ricercatori del JPL di Pasadena confermavano l’emissione di raggi X da parte di Giove, facendolo salire sul podio degli emettitori X planetari oltre alla sola Terra. Il 1980 fu l’anno in cui entrò in funzione il Very large array (VLA) del National Radio Astronomy Observatory, un mostruoso radiotelescopio posto nella pianura di San Augustin, nel New Mexico, e composto da 27 antenne a forma di paraboloide con la risoluzione equivalente a quella di uno specchio di 27 km di diametro. Fu anche osservata per la prima volta una stella colossale nel centro della Nebulosa della Tarantolacon massa da 200 a 2000 volte maggiore del Sole e una luminosità 30 milioni di volte maggiore. L’anno successivo, questo oggetto verrà chiamato R136a: una stella di Wolf Rayet. Roba pesante!

Era l’anno in cui moriva John Lennon ed il cielo si popolava di una stella in più, oltre che sperimentare due eclissi di Sole. Quasi a voler omaggiare la sua memoria, il tempo regalò alla scienza, grazie a Michael Green e John Schwarz, un’estensione della teoria delle stringhe per unificare, se non le genti, almeno la fisica. Si trattava di una teoria che prevedeva che le particelle elementari fossero vibrazioni di piccole stringhe e non punti nello spazio. Questa teoria sembrava in grado di unificare la meccanica quantistica e la relatività, sebbene resti ancora oggi sperimentalmente non verificata.

Nel 1980, Sagan, Bruce Murray, e Louis Friedman fondarono la US Planetary Society, in parte come veicolo per gli studi SETI, per cercare forme di vita intelligenti nello spazio, venne scoperto che la vita sulla Terra risaliva a 3-5 miliardi di anni addietro. Lo studio fu condotto su catene di cellule scoperte in rocce australiane del Precambriano: i resti cellulari più antichi mai scoperti. Che figata! E pensare che gli anni 80 erano appena iniziati! Come dite? No, non vi sento, ho nelle cuffie con “Video killed the radio star” a palla. Vabbè raga, ci sentiamo alla prossima settimana! Ciao belli!

Inizia così una serie di appuntamenti dedicati all’Astronomia degli anni ’80. Restate collegati per le prossime puntate!

I Pianeti Orfani

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Un gruppo di 70 nuovi pianeti orfani vagano nella nostra galassia senza una stella come riferimento. E’ quello che hanno osservato diversi telescopi dell’ESO (European Southern Observatory), individuando così il più grande gruppo di pianeti interstellari mai scoperto fino ad ora.

I pianeti orfani, o pianeti interstellari, sono oggetti celesti sfuggenti che hanno masse paragonabili a quelle dei pianeti del Sistema solare, ma non orbitano intorno ad una stella e vagano liberamente in solitaria.

«Non ci aspettavamo di scoprirne così tanti», afferma Núria Miret-Roig, astronoma del Laboratoire d’Astrophysique de Bordeaux (Francia) e dell’Università di Vienna (Austria), e prima autrice dello studio pubblicato su Nature Astronomy.

Non essendo illuminati da una stella, i pianeti orfani sono molto difficili da fotografare. Per ottenere delle loro immagini, il gruppo di astronomi ha dovuto sfruttare il fatto che questi pianeti sono ancora abbastanza caldi (in tempi astronomici sono pianeti relativamente giovani), tanto da possedere una scia luminosa, che li rende rilevabili dalle fotocamere montate sui grandi telescopi. Sono stati scoperti circa 70 nuovi pianeti con masse paragonabili a quelle di Giove, nella regione delle costellazioni dello Scorpione Superiore e dell’Ofiuco.

Tuttavia, il numero esatto di pianeti orfani è difficile da definire, poiché le osservazioni effettuate non permettono ai ricercatori di calcolare con esattezza la massa degli oggetti trovati. Gli oggetti con massa superiore a circa 13 volte la massa di Giove, molto probabilmente non sono pianeti, quindi non possono essere inclusi nel conteggio.

Questo tipo di analisi sono state compiute con dei dati che coprono un periodo di circa 20 anni. «Abbiamo misurato i minuscoli movimenti, i colori e le luminosità di decine di milioni di sorgenti in questa vasta area del cielo», spiega Miret-Roig, «Queste misure ci hanno permesso di identificare in modo sicuro gli oggetti più deboli: i pianeti orfani».

L’equipe ha utilizzato le osservazioni di almeno quattro telescopi: il VLT (Very Large Telescope) dell’ESO, il VISTA (Visible and Infrared Survey Telescope for Astronomy), il VST (VLT Survey Telescope) e il telescopio MPG/ESO da 2,2 – metri MPG/ESO in Cile.

L’astronomo Hervé Bouy del Laboratoire d’Astrophysique di Bordeaux aggiunge: «Utilizzando la maggioranza dei telescopi che avevamo a disposizione, abbiamo ottenuto un campo di visibilità e una sensibilità unici, che sono state le ragioni del nostro successo. Abbiamo usato decine di migliaia di immagini ad ampio campo, corrispondenti a centinaia di ore di osservazioni e letteralmente a decine di terabyte di dati».

Lo studio quindi suggerisce che potrebbero esserci molti altri pianeti sfuggenti senza una stella madre, che bisogna ancora scoprire. Analizzandoli, gli astronomi potrebbero trovare indizi su come si formano questi oggetti misteriosi. Alcuni ritengono che i pianeti orfani possano generarsi dal collasso di una nube di gas che risulterebbe essere troppo piccola per formare una stella; mentre altri affermano che potrebbero essere dei pianeti espulsi dal loro sistema natale. Non è ancora chiaro quale sia il fenomeno di partenza.

Saranno necessarie ulteriori analisi per svelare il mistero. Il team spera di continuare a studiare i pianeti organi con il futuro ELT (Extremley Large Telescope) dell’ESO, attualmente in costruzione nel deserto cileno di Atacama. «Questi oggetti sono estremamente deboli e possiamo far ben poco con gli strumenti che abbiamo oggi», conclude Bouy, «L’ELT sarà cruciale per raccogliere ulteriori informazioni sulla maggior parte dei pianeti orfani che abbiamo trovato».

Per approfondimenti:

Release: https://www.eso.org/public/italy/news/eso2120/

Nature Astronomy (Dicember 2021): “A rich population of free-floating planets in the Upper Scorpius young stellar association” (DOI: 10.1038/s41550-021-0153-x)

Parker Solar Probe – la sonda dei record

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“È un evento monumentale per la scienza solare e un’impresa davvero notevole”, ha affermato Thomas Zurbuchen, amministratore associato della direzione della missione scientifica presso la sede della NASA a Washington. “Non solo questa pietra miliare ci fornisce informazioni più dettagliate sull’evoluzione del nostro Sole sul suo impatto nel Sistema Solare, ma tutto ciò che apprendiamo sulla nostra stella ci insegna anche di più sulle stelle nel resto dell’Universo”.

Un importante traguardo e nuovi risultati della sonda solare Parker della NASA sono stati annunciati il 14 dicembre in una conferenza stampa all’incontro autunnale dell’Unione geofisica americana del 2021 a New Orleans. I risultati sono stati pubblicati su PhysicalReviewLetters e accettati per la pubblicazione sull’Astrophysical Journal.

Per la prima volta nella storia, una sonda, un manufatto umano, ha toccato il Sole. Attraversando per la Corona Solare, la sonda Parker ha campionato particelle e campi magnetici fondamentali per la comprensione del vento solare.

In un vortice di continui avvicinamenti al Sole la sonda sta indagando le strutture tipiche del vento solare le cui origini sono ancora oggi misteriose, ma grazie ai dati trasmessi e che riceveremo in futuro, la ricerca potrà compiere importanti passi in avanti nella loro comprensione. In particolare con l’avvicinamento dello scorso aprile 2021, le cui immagini sono state rese note solo nel mese di dicembre, l’attenzione si è concentrata sulle strutture note con il nome di “switchback”, in italiano tornanti, e la superficie di Alfvén che di fatto segna il passaggio dalla cronosfera al vento solare, il confine del Sole.

La superficie di Alfvén del Sole


Fra i parametri sorprendenti che da sempre catturano l’attenzione dei ricercatori, c’è la temperatura. Infatti se da un lato la nostra stella, una nana gialla, possiede in superficie una temperatura di circa 5.000-6.000 gradi centigradi, la sua atmosfera risulta estremamente più calda toccando punte di anche 10 milioni di gradi.
Fra i meccanismi che potrebbero dar vita a questo surriscaldamento i ricercatori hanno individuato le onde di Alfvén, onde magnetoidrodinamiche, in grado di trattenere e veicolare il plasma ben più lontano dalla superficie del Sole. Un materiale tuttavia che non può essere trattenuto a distanze infinite e quando l’azione dei campi magnetici e del campo gravitazionale del Sole di affievoliscono allora il plasma sfugge e ha origine il vento solare. Questo limite, la superficie di Alfvén, segna la fine dell’atmosfera del Sole e della cronosfera.
Il 28 aprile 2021, durante il suo ottavo sorvolo del Sole, Parker Solar Probe a 18,8 raggi solari (circa 9,43 milioni di km).

Gli pseudostreamer si vedono come scie luminose che si spostano verso l’alto nelle immagini superiori e inclinati verso il basso nella riga inferiore.

Crediti: NASA/Johns Hopkins APL/Laboratorio di ricerca navale


Parker Solar Probe ha attraversato una caratteristica della corona chiamata pseudostreamer. Gli pseudostreamer sono strutture massicce che si elevano sopra la superficie del Sole e possono essere viste dalla Terra durante le eclissi solari. Durante il passaggio, al loro interno, come si è visto nelle immagini, le condizioni si sono calmate, le particelle hanno rallentato e il numero di tornanti è diminuito: un cambiamento drammatico rispetto all’intensa raffica di particelle che l’astronave di solito incontra nel vento solare.


Per la prima volta, la navicella spaziale si è trovata in una regione in cui i campi magnetici erano abbastanza forti da dominare il movimento delle particelle. La prova definitiva che la navicella spaziale aveva superato la superficie critica di Alfvén ed era entrata nell’atmosfera solare dove i campi magnetici modellano il movimento di ogni cosa nella regione.
Il primo passaggio attraverso la corona, durato solo poche ore, è uno dei tanti previsti per la missione. Parker continuerà ad avvicinarsi a spirale verso il Sole, arrivando alla fine fino a 8,86 raggi solari (4.45 milioni di km) dalla superficie. I prossimi sorvoli, il prossimo dei quali avverrà nel gennaio 2022, probabilmente porteranno di nuovo Parker Solar Probe attraverso la corona.


“Sono entusiasta e curiosa di vedere quali zone attraverserà la Parker nei prossimi passaggi”, ha affermato Nicola Fox, direttrice della divisione di fisica presso la sede della NASA. “L’opportunità di nuove scoperte è illimitata.”

Gli approfondimenti sui tornanti sono disponibili nella sezione “I fatti in evidenza” del prossimo numero di Coelum Astronomia 254 di febbraio/marzo 2022 –>visita l’Astroshop per prenotare la tua copia.

Intimi Abbracci tra Stelle

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Un gruppo di 15 insolite stelle all’interno della Via Lattea, vicino alla Terra circa a 5000 anni luce, sono state individuate dal gigantesco telescopio Alma in Cile, dalle ricerche del team di scienziati guidati dalla Chalmers University of Technology. Le misurazioni compiute mostrano che tutte le stelle sono doppie e hanno recentemente sperimentato una fase rara della vita di una stella, che le sta portando verso fenomeni astronomici ancora sconosciuti. I risultati sono stati pubblicati questa settimana sulla rivista scientifica Nature Astronomy.

A differenza del nostro Sole, la maggior parte delle stelle vive con un compagno. A volte, due astri si avvicinano a tal punto che l’uno inghiotte l’altro, con conseguenze di vasta portata. Le 15 stelle individuate hanno da poco attraversato una fase simile. Tale scoperta permette nuove intuizioni sui fenomeni più drammatici del cielo e sulla vita, morte e rinascita tra le stelle.

Queste stelle erano già note agli astronomi come “fontane d’acqua”, a causa della luce intensa proveniente dalle molecole d’acqua, prodotta da gas insolitamente denso e in rapido movimento. Infatti, il telescopio Alma, situato a 5000 m sul livello del mare in Cile, è sensibile alla luce con lunghezze d’onda intorno al millimetro, invisibile agli occhi umani, ma ideale per guardare attraverso gli strati di polverose nubi interstellari della Via Lattea verso le stelle avvolte dalla polvere.

«Eravamo molto curiosi di queste stelle perché sembrano espellere quantità di polvere e gas nello spazio, alcune sotto forma di getti con velocità fino a 1,8 milioni di chilometri all’ora. Abbiamo pensato di poter scoprire indizi su come i getti si stavano creando, ma invece abbiamo trovato molto di più», afferma l’astronomo Theo Khouri del Dipartimento di Scienze dello Spazio, della Terra e dell’Ambiente della Chalmers University of Tecnology, «Grazie alla squisita sensibilità di Alma, siamo stati in grado di rilevare dei segnali molto deboli provenienti da diverse molecole nel gas espulso da queste stelle. Quando abbiamo guardato da vicino i dati abbiamo visto dettagli che davvero non ci aspettavamo di vedere».

Gli scienziati hanno infatti utilizzato il telescopio per misurare le impronte delle molecole di monossido di carbonio, CO, alla luce delle stelle, e hanno confrontato i segnali di diversi atomi (isotopi) di carbonio e ossigeno. Le osservazioni hanno confermato che tutte le stelle stavano espellendo i loro strati esterni, ma le proporzioni dei diversi atomi di ossigeno nelle molecole indicavano che sotto un altro aspetto le stelle non erano così estreme come sembravano.

«Ci siamo resi conto che queste stelle hanno iniziato la loro vita con la stessa massa del Sole, o solo poche volte di più», spiega un altro membro del team di ricerca Wouter Vlemmings, «Ora le nostre misurazioni hanno mostrato che hanno espulso fino al 50% della loro massa totale, solo nelle ultime centinaia di anni. Deve essere accaduto qualcosa di davvero drammatico».

Perché stelle così piccole hanno perso così tanta massa così velocemente? Gli scienziati credono che le stelle doppie hanno appena attraversato una fase, in cui le due stelle condividevano la stessa atmosfera: come se sembrasse che una stella fosse abbracciata l’una all’altra.

«In questa fase le due stelle orbitano insieme in una sorta di bozzolo. Questa fase, che chiamiamo fase di “busta comune”, è davvero breve, e dura solo poche centinaia di anni. In termini astronomici, è finita in un batter d’occhio», afferma Vlemmings.

Gli astronomi ritengono che questo rapporto intimo possa portare le stelle a fenomeni spettacolari, come una fusione completa. Comprendere simili eventi potrebbe aiutare a rispondere alle più grandi domande su come vivono e muoiono le stelle; ovvero cosa fa scatenare l’esplosione di una supernova? Oppure come fanno i buchi neri ad avvicinarsi abbastanza da scontrarsi?

«Gli astronomi aspettano da anni per rispondere a queste domande, ma la nostra ricerca ci aiuterà a scoprire qualcosa in più», spiega un secondo membro del team della Chalmers University, Daniel Tafoya, «Quando queste stelle si abbracciano, inviano nello spazio polvere e gas che possono diventare gli ingredienti per le prossime generazioni di stelle e pianeti, e con loro il potenziale per una nuova vita».

Poiché le 15 stelle sembrano evolversi su una scala temporale umana, il team ha intenzione di continuare a monitorarle con Alma e altri radiotelescopi. Con i futuri telescopi dell’Osservatorio SKA, sperano di studiare come le stelle formano i loro getti e cambiano l’ambiente circostante.

Theo Khouri conclude: «In realtà, pensiamo che le “fontane d’acqua” potrebbero essere quasi gli unici sistemi del loro genere in tutta la nostra galassia. Se questo è vero, allora queste stelle sono davvero la chiave per comprendere il processo più strano, meraviglioso e importante che due stelle possono sperimentare nella loro vita insieme».

Per approfondimenti:

Nature Astronomy: Observational identification of a sample of likely recent Common-Envelope Events” by Theo Khouri (Chalmers), Wouter H. T. Vlemmings (Chalmers), Daniel Tafoya (Chalmers), Andrés F. Pérez-Sánchez (Leiden University, Netherlands), Carmen Sánchez Contreras (Centro de Astrobiología (CSIC-INTA), Spain), José F. Gómez (Instituto de Astrofísica de Andalucía, CSIC, Spain), Hiroshi Imai (Kagoshima University, Japan) and Raghvendra Sahai (Jet Propulsion Laboratory, California Institute of Technology, USA).

Speleologi sulla Luna

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Si apre un nuovo campo di ricerca per l’astronomia: la Speleologia lunare!

Gli scienziati della University of Colorado Boulder hanno rivolto l’attenzione ai pozzi e le grotte presenti sulla superficie della Luna. Si aprono nuovi importanti orizzonti per la futura esplorazione umana sul nostro satellite naturale.

I risultati preliminari di questo nuovo studio suggeriscono che le fessure del nostro satellite mostrano condizioni ambientali stabili; ovvero non si sperimenterebbero eccessivi sbalzi di temperatura all’interno di queste cavità, piuttosto molto comuni sulla superficie lunare.

«Nei decenni a venire speriamo di mandare delle persone in queste grotte», rivela Andrew Wilcoski, membro del progetto e studente laureatosi presso il Department of Astrophysical and Planetary Sciences della CU Boulder, «Vogliamo vedere cosa c’è all’interno di quei pozzi». Lo studio sarà presentato per la prima volta al meeting dell’American Geophysical Union di New Orleans.

Allora la domanda che allora sorge spontanea è: come potrebbe essere praticata la speleologia sulla Luna?

In primo luogo, i futuri speleologi lunari dovranno essere molto attenti alle pericolose radiazioni solari, ma le caverne potrebbero risultare dei punti di vantaggio. «Le pareti e le fessure della superficie lunare sembrano essere dei rifugi naturali e potrebbero proteggere gli esploratori umani dalle radiazioni del Sole», spiega Wilcoski, «Inoltre, le grotte lunari potrebbero essere ricche di risorse naturali, come minerali e ghiaccio. Quest’ultimo sarebbe un elemento fondamentale per la sopravvivenza di esseri umani sulla Luna».

Considerando queste informazioni, il prof. Paul Hayne del Labortory for Atmospheric and Space Physics, ha generato dei modelli al computer che ricreano le condizioni reali sotto la superficie lunare. Nelle simulazioni le grotte appaiono come ambienti con parametri fisici stabili, poiché lontani dall’influenza del vento solare.

In questo modo, è stato possibile tracciare le ipotetiche temperature dei pozzi, ed i ricercatori hanno scoperto che l’orientamento dell’ingresso di grotte e fessure è significativamente importante. Se la bocca di una grotta, ad esempio, punta direttamente vero il Sole nascente, diventerà immediatamente molto calda. Mentre, altre fessure analizzate dal team e molto meno esposte al Sole, hanno temperature che oscillano da – 120 °C a – 70 °C, per un intero giorno lunare.

«Sono temperature piuttosto favorevoli, se consideriamo invece quanto succede in superficie», aggiunge Wilcoski, «Di solito in corrispondenza dell’equatore, le temperature possono raggiungere più di 100 gradi Celsius durante il giorno, e scendere fino a 170 gradi sotto lo zero la notte».

«Le grotte potrebbero essere considerate come dei rifugi», conclude Wilcoski, «I futuri speleologi lunari potranno sfruttare magari le caverne come delle stazioni, da cui poter partire per esplorare la superfice lunare alla ricerca di ghiaccio, che sappiamo essere presente all’interno di “trappole fredde”, ovvero dei crateri dove il ghiaccio si sarebbe accumulato nel corso di miliardi di anni».

Tra crateri ghiacciati e grotte nascoste, nuovi interessanti scenari si aprono per l’esplorazione della Luna. Resta solo da capire quando potremmo finalmente visitare di persona questi ambienti misteriosi.

Per approfondimenti:

Release: https://www.colorado.edu/today/2021/12/13/spelunking-moon-new-study-explores-lunar-pits-and-caves

Stelle danzanti intorno al Centro Galattico

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L’ESO, tramite il suo potente telescopio Very Large Telescope Interferometer (VLTI), è stato in grado di catturare le immagini più nitide di sempre della regione intorno a Sagittarius A*, il buco nero supermassiccio al centro della Via Lattea. Con un ingrandimento 20 volte maggiore, gli astronomi sono stati in grado di trovare una stella mai vista prima. Grazie a questa è stato possibile inoltre misurare la massa del buco nero con una precisione senza precedenti.

«Vogliamo saperne di più su Sagittarius A*», spiega Reinhard Genzel, direttore al Max Planck Institute for Extraterrestrial Physics (MPE) di Garching in Germania, «Quanto è massiccio esattamente? Ruota? Le stelle intorno al buco nero si comportano esattamente come ci aspettiamo dalla teoria della relatività generale di Einstein? Il modo migliore per rispondere a queste domande è seguire le stelle su orbite vicine al buco nero supermassiccio. Tramite questo ultimo studio, possiamo dimostrare che è possibile effettuare misurazioni una precisione mai vista prima».

Gli ultimi risultati di Genzel e il suo team di ricerca sono pubblicati sulla rivista Astronomy & Astrophysicis. In questo paper gli scienziati parlano di una nuova tecnica di analisi che ha permesso loro di ottenere le immagini più nitide e profonde di sempre del Centro Galattico.

Julia Stadler, ricercatrice presso il Max Planck Institute for Astrophysics a Garching, racconta gli sforzi dell’equipe per produrre queste immagini: «Siamo sbalorditi dalla quantità di dettagli, dall’azione e dal numero di stelle che le immagini mostrano intorno al buco nero. Il VLTI ci offre questa incredibile risoluzione spaziale e con le nuove immagini raggiungiamo una profondità mai vista prima». Infatti, le dettagliate analisi hanno permesso di individuare una nuova stella, chiamata S300, dimostrando quanto sia potente questa nuova tecnica nello scovare oggetti celesti molto deboli.

Tramite delle osservazioni, effettuate tra marzo e luglio 2021, gli astronomi si sono concentrati nel misurare i moti delle stelle che si avvicinavano al buco nero. La stella S29, verso la fine di maggio, è passata a una distanza di soli 13 miliardi di chilometri da Sagittarius A*, ovvero circa 90 volte la distanza Sole-Terra, il tutto alla straordinaria velocità di 8740 chilometri al secondo. Nessun’altro astro è mai stata osservato passare così vicino o viaggiare così rapidamente intorno al buco nero.

Le immagini sono state ottenute con GRAVITY, uno strumento installato sul VLTI che combina la luce di tutti e quattro i telescopi dell’ESO in Cile, utilizzando una tecnica chiamata Information Field Theory (teoria dei campi di informazione). Questo ha permesso di ricreare un modello che simula come le stelle possono ruotare intorno al buco nero supermassiccio. «Una tecnologia così complessa permette di seguire qualsiasi oggetto intorno a Sagittarius A*», aggiunge Genzel, «Possiamo ora sondare con precisione il campo gravitazionale intorno al buco nero, verificare la Relatività Generale e determinare le proprietà del Centro Galattico».

GRAVITY verrà aggiornato alla fine di questo decennio, e spingerà ulteriormente la sensibilità di VLTI nel rilevare stelle ancora più deboli da percepire. Lo scopo del team di astronomi, infatti, è quello di scoprire oggetti luminosi che risentano degli effetti gravitazionale della loro rotazione intorno al centro della Via Lattea.

Per approfondimenti:

Release: https://www.eso.org/public/italy/news/eso2119/?lang

Astronomy & Astrophysics (Dicember 2021): “The mass distribution in the Galactic Centre from interferometric astrometry of multiple orbits” (doi: 10.1051/0004-6361/202142465).

La doppia pulsar che sfidò Einstein

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Uno nuovo studio, pubblicato sulla rivista Physical Review X, sfida la teoria della relatività di Einstein, rilevando nuovi effetti relativistici mai osservati prima d’ora. Per fare ciò, un team di ricercatore dell’Università dell’East Anglia e dell’Università di Manchester hanno condotto un esperimento – lungo oltre 16 anni – nel quale hanno osservato un sistema di stelle, chiamato pulsar, attraverso sette radiotelescopi dislocati in tutto il mondo.

Il dott. Robert Ferdman, della School of Physics dell’UEA e capo del progetto, ha dichiarato: «Per quanto spettacolare sia stato il successo della teoria della relatività generale di Einstein, sappiamo che ancora non è detta l’ultima parola sulla teoria gravitazionale. Più di 100 anni dopo, gli scienziati di tutto il mondo continuano i loro sforzi per trovare difetti nella sua teoria. Trovare, infatti, qualsiasi tipo di “difetto” nella relatività generale costituirebbe un’importante scoperta che aprirebbe una finestra su una nuova era per la fisica, e potrebbe aiutarci a scoprire una teoria unificata delle forze fondamentali della natura».

Per ottenere un simile risultato, la teoria di Einstein è stata sottoposta a test rigorosi, considerando il fenomeno delle pulsar. Una pulsar è una stella compatta rotante altamente magnetizzata che emette fasci di radiazioni elettromagnetiche dai suoi poli magnetici. Nella ricerca è stata presa in esame una doppia pulsar, scoperta nel 2003, ed è stato individuato come il contesto perfetto nel quale testare la teoria della relatività.

Il sistema è costituito da due pulsar che orbitano l’una intorno all’altra alla velocità di circa 1 milione di km/h. Il loro movimento può essere usato per analizzare la forza di gravità.

«Abbiamo studiato un sistema di stelle compatte che è un laboratorio senza rivali per testare le teorie della gravità in presenza di campi gravitazionali molto forti», ha affermato il prof. Micheal Kramer, coautore del progetto e leader del Max Planck Institute for Radio Astronomy di Bonn in Germania, «Con una sorpresa inaspettata, siamo stati in grado di testare una pietra angolare della teoria della relatività, l’energia trasportata dalle onde gravitazionali, con una precisione che è 25 volte migliore rispetto alla pulsar Hulse-Taylor vincitrice del premio Nobel, e 1000 volte migliore di quella attualmente possibile con rilevatori di onde gravitazionali. Abbiamo quindi potuto osservare oggetti che non potevano essere studiati prima».

Durante l’esperimento sono stati seguiti la propagazione dei fotoni radio emessi dalla doppia pulsar, e il loro movimento all’interno del forte campo gravitazionale tra le due stelle. In questo contesto, è stato visto per la prima volta come la luce non sia solo ritardata a causa di una forte curvatura dello spazio-tempo, ma anche che la luce viene deviata da un piccolo angolo di 0,04 gradi.

Il prof. Dick Manchester, membro del team e responsabile dell’agenzia scientifica nazionale australiana CSIRO, ha dichiarato: «Un movimento orbitale così veloce di oggetti compatti come questi ci consente di testare molte previsioni diverse di relatività generale. Oltre alle onde gravitazionali e alla propagazione della luce, la nostra precisione ci permette anche di misurare il così detto effetto della “dilatazione del tempo”, che fa rallentare gli orologi nei campi gravitazionali. Dobbiamo anche prendere in considerazione la famosa equazione di Einstein E = mc2, quando si considera l’effetto della radiazione elettromagnetica emessa dalla pulsar in rapida rotazione sul moto orbitale».

Prendere in esame di un sistema gravitazionale così complesso permette l’applicazione di misurazioni sempre più dettagliate.

Un altro scienziato partecipe dell’esperimento, il prof. Bill Coles, dell’Università della California di San Diego, ha infatti affermato: «In questo modo riusciremo a completare altri esperimenti sulle pulsar. Infatti, abbiamo raccolto tutte le informazioni possibili sul sistema e abbiamo ricavato un quadro perfettamente coerente, coinvolgendo anche la fisica nucleare, il mezzo interstellare, la fisica del plasma e molto altro ancora. Tutto questo è davvero straordinario».

Kramer e Ferdman sono concordi su queste ultime parole, confermando che hanno raggiunto un risultato senza precedenti. Utilizzando altri telescopi per esperimenti futuri, si potranno osservare fenomeni ancora più impercettibili e forse sarà anche possibile trovare la misteriosa “deviazione della relatività generale”.

Per approfondimenti:

Editor notes:

The University of East Anglia (UEA) is a UK Top 25 university and is ranked in the top 50 globally for research citations. Known for its world-leading research and good student experience, it was awarded Gold in the Teaching Excellence Framework and is a leading member of Norwich Research Park, one of Europe’s biggest concentrations of researchers in the fields of environment, health and plant science. www.uea.ac.uk.

Iron: la base della vita aliena

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Il ferro sembra essere fondamentale per lo sviluppo delle primordiali forme di vita sia sulla Terra che su altri esopianeti. Gli scienziati dell’Università di Oxford hanno scoperto quali meccanismi rendono, infatti, il ferro un elemento chiave per l’evoluzione dei microrganismi. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista PNAS il 7 dicembre scorso.

Questo elemento chimico è un nutriente essenziale per la vita cellulare. Le cellule lo utilizzano in numerosi processi, tra cui la replicazione del DNA, l’espressione genetica e il loro stesso metabolismo. Il fatto che quindi il ferro abbia un ruolo rilevante in tutto il ciclo biologico di un organismo eucariota, suggerisce che il suo uso è molto antico, e può riflettere le condizioni ambientali che hanno portato alla formazione delle prime forme di vita.

«Alle origini della Terra, una grande quantità di ferro è stata “fissata” nelle rocce della crosta dall’accrescimento planetario, durante il quale il nucleo metallico si è separato dal mantello roccioso. In queste fasi la vita era sostenuta da una combinazione di una serie di caratteristiche fisiche e chimiche dell’acqua allo stato liquido, in cui era disciolto anche il ferro», spiega il primo autore dello studio Jon Wade, professore associato di materiali planetari presso il Dipartimento di Scienze della Terra di Oxford, «Troppo poco ferro nella parte rocciosa del pianeta, come su Mercurio, e la vita è improbabile. Troppo, come su Marte, e l’acqua liquida è difficile da mantenere in superficie per favorire lo sviluppo della vita complessa».

Era fondamentale avere il giusto bilanciamento. Anticamente, le quantità di ferro sul nostro pianeta sarebbero state ottimali per garantire la ritenzione dell’acqua sulla crosta terrestre. Quest’ultimo, disciolto poi in mare, sarebbe stato disponibile per il nutrimento delle prime forme di vita.

Intorno però a circa 2,4 miliardi di anni fa, i livelli di ossigeno negli oceani primordiali della Terra sono incominciati a salire, e di conseguenza anche la concetrazione del ferro è cambiata. A causa di reazioni chimiche con l’ossigeno, il ferro ha iniziato ad essere insolubile, diventando meno disponibile per i microrganismi.

«La vita ha dovuto allora adattarsi alle nuove condizioni ambientali e trovare nuove strategie per ottenere il ferro», afferma il coautore Hal Drakesmith, professore di biologia presso l’MRC Weatherall Institute of Molecular Medine di Oxford, «Ad esempio, la simbiosi e la multicellularità sono comportamenti che consentono agli organismi eucarioti di catturare in modo più efficiente il ferro. L’adozione di tali caratteristiche avrebbe spinto le prime forme di vita a diventare sempre più complesse».

Il ferro sembra quindi essere stato un fattore scatenante dell’evoluzione. Simili condizioni ambientali, se riscontrate su altri pianeti, possono garantire la probabilità di vita complessa extraterrestre.

«Tali considerazioni vanno però approfondite», aggiunge Drakesmith, «La necessità di ferro e il conseguente sviluppo di organismi pluricellulari in grado di acquisire questo elemento in quantità scarse, possono essere eventi rari o casuali. Questo significa che trovare forme di vita intelligente resta ancora molto bassa».

Tuttavia, sapere quanto sia importante il ferro nello sviluppo della vita è una scoperta cruciale. Valutando la quantità di ferro nel mantello esterno, potrebbe essere possibile restringere la ricerca degli esopianeti idonei al sostentamento di microrganismi.

Per approfondimenti:

Release: https://www.ox.ac.uk/news/2021-12-07-iron-integral-development-life-earth-and-possibility-life-other-planets

PNAS (Dicember 2021):Temporal variation of planetary iron as a driver of evolution”, Jon Wade, David J. Byrne, Chris J. Ballentine, and Hal Drakesmith.

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