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La ragazza che amava “contare”

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A darne la notizia con un tweet è stato l’amministratore della Nasa Jim Bridenstine, seguito dal retweet del Nasa Langley laboratory, il laboratorio per il quale ha lavorato per oltre 30 anni: la matematica Katherine Johnson si è spenta all’età di 101 anni.

Ce la ricordiamo tutti ne “Il diritto di contare”, il film – tratto dal libro Hidden Figures, “Figure nascoste” – dove la protagonista Taraji P. Henson ha interpretato la straordinaria vita piena di successi pionieristici della matematica e scienziata afroamericana. Primo fra tutti quello di essere uno dei tre studenti neri, nonché l’unica donna, selezionati per frequentare la scuola di specializzazione in Matematica della West Virginia University nell’America razzista e sessista degli anni in cui è vissuta.

Nata nel 1918 a White Sulphur Springs, nel West Virginia, in America, dopo aver frequentato il liceo in un campus per soli neri del suo paese, a diciotto anni si iscrive al college, dove si laurea in matematica con il massimo dei voti nel 1937. Due anni dopo, nel 1939, dopo una sentenza della Corte Suprema dello stato del Missouri, è tra i primi tre studenti di colore ammessi a frequentare il Phd in matematica alla West Virginia University. Corso che tuttavia non segnerà la brillante carriera della scienziata. Lascerà infatti la scuola per dedicarsi alla famiglia, consapevole però di rimettersi in gioco non appena i tre figli sarebbero diventati più grandi. E così fece. Tornò dapprima ad insegnare matematica come aveva fatto subito dopo la laurea. Poi, nel 1952, la svolta che le cambiò la vita. Viene a sapere di posizioni aperte nella sezione per soli neri della West area Computing, presso il laboratorio Langley del National Advisory Committee for Aeronautics (Naca), l’agenzia governativa che da lì a poco sarebbe diventata la National Aeronautics and Space Administration, Ente Nazionale per le attività Spaziali e Aeronautiche“, in italiano, ovvero la Nasa. Assunta, iniziò a lavorare in quello che è oggi il Langley Research Center della NASA nell’estate del 1953. A sole due settimane dal suo incarico, fu assegnata al Maneuver Loads Branch della divisione Flight Research, dove lavorò per quattro anni a un programma di ricerca per l’attenuazione degli effetti delle raffiche di vento sugli aerei. Nonostante la iniziale discriminazione razziale e di genere sul posto di lavoro, grazie alla sua tenacia, riesce a farsi strada e convincere i suoi colleghi del suo valore.

Nel 1957, nello stesso anno del lancio di Sputnik – il satellite artificiale Russo che aprì la corsa allo spazio – contribuì con i suoi calcoli alla stesura del documento Note sulla tecnologia spaziale, una raccolta di lectures di ingegneri che hanno costituito il nucleo dello Space Task Group: la prima incursione ufficiale dell’America nei voli spaziali.

Katherine Johnson (26 agosto 1918 – 24 febbraio 2020). Fonte: Nasa

Katherine Johnson (26 agosto 1918 – 24 febbraio 2020). Fonte: Nasa

Nel 1960, partecipa alla realizzazione e firma il documento “Determination of Azimuth Angle at Burnout for Placing a Satellite Over a Selected Earth Position”, un rapporto che delinea le equazioni che descrivono un volo spaziale orbitale in cui è specificata la posizione di atterraggio del veicolo spaziale. Per la prima volta una donna della divisione di ricerca sul volo riceveva credito come autrice di un rapporto di ricerca.

Ma fu il 1961 che segnò la carriera della scienziata. È grazie alla sua analisi della traiettoria per la missione Freedom 7 che Alan Shepard poté infatti divenire il primo americano e il secondo uomo nella storia ad effettuare un volo spaziale, seguendo di pochi mesi il sovietico Jurij Gagarin.

Anche nel tentativo di eguagliare la missione sovietica, effettuato nel 1962 con la missione orbitale Friendship 7 di John Glenn, la scienziata fu chiamata in causa. Un lavoro per il quale sarebbe entrata di diritto nella storia. La complessità del volo orbitale richiese la costruzione di una rete di comunicazioni mondiale che doveva collegare stazioni di monitoraggio in tutto il mondo ai computer Ibm a Washington, Cape Canaveral e Bermuda. Computer programmati con le equazioni orbitali che avrebbero dovuto controllare la traiettoria della capsula, dal decollo all’atterraggio. Ma gli astronauti erano diffidenti nell’affidare le loro vite a macchine calcolatrici elettroniche, inclini, a quei tempi, a singhiozzi e blackout. Come parte della checklist di pre-volo, un elenco di attività che devono essere eseguite dal personale di volo prima del decollo, Glenn chiese quindi agli ingegneri che quella donna, nera, verificasse i calcoli attraverso le stesse equazioni che erano state programmate nel computer. «Se lei dice che vanno bene», ricordava di Glenn la stessa Katherine Johnson «allora sono pronto per partire». La missione ebbe il successo che tutti conosciamo, segnando una svolta nella competizione tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica nella conquista dello spazio.

Ma non è finita. Erano sempre suoi i calcoli che permettendo la sincronizzazione del modulo lunare con il modulo di comando e servizio del Progetto Apollo hanno portato l’uomo sulla Luna. Ma il suo più importante contributo è forse un altro, ‘incalcolabile’, che come esempio di vita ha lasciato a tutti: la necessità di uguaglianza, la passione e la tenacia con cui possiamo superare i limiti e raggiungere obiettivi prima impensabili.

Si ritirò nel 1986, dopo 33 anni di servizio. Medaglia presidenziale della libertà, il più alto onore civile che un americano possa ricevere, le sono stati dedicati il Computational Research Facility a Hampton, e l’Independent Verification and Validation (IV&V) Facility a Fairmont, in Virginia. La ricordiamo con le stesse parole con cui la Nasa la celebra nel suo tweet: «Stasera, conta le stelle e ricorda una pioniera».


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Betelgeuse riprende lentamente a brillare

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Solo qualche giorno fa, le immagini del VLT dell'ESO mostravano l'oscuramento di più della metà della superficie della stella, probabilmente per via dei gas e delle polveri emesse dalla stella morente, ma forse anche di macchie stellari particolarmente estese. Dopo la metà di febbraio sembra che la stella stia invece riacquistando luminosità. Crediti: ESO/M. Montargès et al.
Solo qualche giorno fa, le immagini del VLT dell'ESO mostravano l'oscuramento di più della metà della superficie della stella, probabilmente per via dei gas e delle polveri emesse dalla stella morente, ma forse anche di macchie stellari particolarmente estese. Dopo la metà di febbraio sembra che la stella stia invece riacquistando luminosità. Crediti: ESO/M. Montargès et al.

Dalle ultime misurazioni effettuate sulla sua luminosità, dopo un piccolo ulteriore calo, Betelgeuse sembra essersi ripresa… gli indizi indicano infatti un aumento in corso della sua luminosità. Niente supernova galattica quindi, almeno per il momento. La supergigante rossa infatti si avvia comunque verso quel destino, ma il “quando” resta ancora un terno al lotto.

Lo annuncia l’ultimo bollettino, del 22 febbraio, pubblicato su astronomerstelegram.org, la piattaforma a disposizione degli astronomi per favorire la distribuzione veloce dei risultati delle osservazioni. I dati delle ultime due settimane dicono che la sua luminosità avrebbe raggiunto un minimo tra il 7 e il 13 febbraio, con una magnitudine attorno alla +1,6, e che ora sarebbe in ripresa. Solo qualche giorno fa, dall’ESO è arrivata la notizia delle immagini riprese da VISIR e SPHERE, montati su VLT, che mostravano la concentrazione di gas e polveri attorno alla stella e il forte oscuramento di più di metà della superficie della stella, in quel momento Betelgeuse brillava di magnitudine +1,3.

La rossa Betelgeuse in tempi migliori di questi, nel marzo 2017, ripresa da Giorgia Hofer, nell'insieme della magnificenza della costellazione di cui fa parte, Orione. Nel numero di marzo 2020 di Coelum Astronomia, Giorgia ci offre qualche consiglio per seguire le sorti della stella, con un pizzico di speranza nel vederla, prima o poi, splendere come una supernova galattica. In basso a sinistra fa capolino M42, la nebulosa di Orione. Clicca sull

Questo minimo ora rivelato, sarebbe consistente con il periodo di variabilità della stella, che è calcolato tra 420/430 giorni. Anche se il calo particolarmente repentino e profondo aveva stupito tutti gli osservatori, rientrebbe nella norma della turbolenta fase del fine vita di una stella di sequenza, com’è Betelgeuse, che si trova ormai verso il termine della sua vita.

Un ulteriore bollettino, del 24 febbraio, ha poi rivelato come l’energia totale della stella, misurata negli infrarossi, non sia in realtà sostanzialmente cambiata negli utlimi 50 anni se non di molto poco (al netto degli errori della strumentazione utilizzata nelle diverse misurazioni), il calo repentino nella magnitudine visuale sarebbe dunque dovuto a fenomeni locali, probabilmente nella linea di vista. Come anche lo strumento VISIR del VLT indicava, quindi, a possibili nubi di gas e materiale espulso dalla stella, o a modifiche delle caratteristiche della sua superficie (temperatura e corrispondente aspetto, come possono essere le macchie solari). Potrebbe ancora esplodere domani come entro 100 mila anni, ma di sicuro questo piccolo deafult non indica l’imminente esplosione della stella.

Ora si dovrà continuare a monitorare la stella con osservazioni possibilmente in tutte le lunghezze d’onda, non solo per comprendere la natura di questo calo, ma anche per capire cosa combinerà adesso… segretamente sperando sempre in una esplosione in supernova che sarebbe tanto strabiliante da osservare quanto importante per lo studio dell’evoluzione stellare.

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Betelgeuse: la prossima supernova galattica? Nell’attesa… riprendiamo la bella stella nel pieno della sua ultima e turbolenta fase evolutiva.


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Una sottile falce di Luna crescente e Venere nel cielo della sera

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La sera del 27 febbraio, guardando verso ponente, potremo notare con facilità la presenza in cielo della Luna, una bella falce sottile (fase del 15%), accompagnata da un astro sfavillante, il brillante pianeta Venere (mag. –4,2).

Sebbene la coppia sia facilmente individuabile non appena il cielo si sarà fatto sufficientemente scuro, consigliamo di dedicarci all’osservazione di questa larga congiunzione (separazione di 6°) verso le ore 20:15, quando gli astri saranno alti circa 15° sull’orizzonte ovest e potranno offrirci innumerevoli opportunità di realizzare degli affascinanti scatti fotografici.

Ricordiamo a questo proposito la rubrica di astrofotografia del numero scorso dedicata proprio a Venere nel 2020: Vespero vs Lucifero

Le effemeridi di Luna e Pianeti le trovi nel Cielo di Febbraio 2020 su coelum.com

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➜ Il Cielo di febbraio con la UAI: viaggio tra le galassie del Leone

➜ Continuiamo il viaggio deep sky nel Cane Maggiore (II parte): Mizram e i suoi dintorni


Tutti consigli per l’osservazione del Cielo di Febbraio su Coelum Astronomia 241

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“MarSEC” Marana space explorer center

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Osservatorio e Planetario di Marana, Via Pasquali Marana, 36070 Marana di Crespadoro (VI).
Ogni ultimo venerdì del mese avremo un ospite per varie conferenze.

Non perdete il nostro Tg Astronomico (Fb e YouTube)!

28.02, ore 21:00: Conferenza Storia del Progetto Apollo di Ruben Farinelli

Info: www.marsec.org – segreteria@marsec.org

Unione Astrofili Senesi

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Osservatorio Astronomico Provinciale di Montarrenti, SS. 73 Ponente, Sovicille (SI).
L’OAPM apre gratuitamente al pubblico per l’osservazione del cielo notturno il 2° e 4° venerdì del mese

28.02, ore 21:30: Il cielo al castello di Montarrenti
L’Osservatorio Astronomico di Montarrenti (SI) sarà aperto al pubblico per delle serate osservative, con particolare attenzione agli ammassi stellari e ai vari oggetti del profondo cielo, come la Nebulosa di Orione che domina il cielo del periodo. Prenotazione obbligatoria sul sito o inviando un messaggio WhatsApp a Patrizio (3472874176) oppure un sms a Giorgio (3482650891).

In caso di tempo incerto telefonare per conferma.

Seguiteci su www.astrofilisenesi.it e sulla nostra pagina facebook Unione Astrofili Senesi

Astronomiamo

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LocandinaCoelum_02202027.02: Webinar di Aggiornamento Astronomico

Per tutte le informazioni:
https://www.astronomiamo.it/

Giovedì scienza

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Giovedì Scienza

Ogni settimana il Teatro Colosseo, l’Aula magna della Cavallerizza Reale dell’Università di Torino, l’Aula magna “Giovanni Agnelli” del Politecnico di Torino e l’Auditorium della Città metropolitana di Torino, si trasformano in un grande laboratorio scientifico.
Da novembre a marzo non solo conferenze ma dimostrazioni, esperimenti di laboratorio, spettacoli teatrali e filmati per portare il sapore della ricerca al grande pubblico.

Segnaliamo, a tema astronomico:
27.02, ore 17:45: L’esperienza del cielo, diario di un astrofisico: la missione in antartide con un team internazionale. Di Federico Nati (Astrofisico, Università di Milano

Calendario degli appuntamenti

La partecipazione è aperta a tutti, l’appuntamento è il giovedì alle 17.45
INGRESSO LIBERO FINO A ESAURIMENTO POSTI

www.giovediscienza.it

Juno alla ricerca di acqua su Giove

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La regione equatoriale di Giove. In questa immagine, come sempre raccolta dalla JunoCam e elaborata nella community dedicata, in questo caso dall'ormai noto Kevin M. Gill, vediamo Giove "disteso", con i poli (non visibili) da sinistra verso destra. Lo scatto è del 1 settembre 2017
La regione equatoriale di Giove. In questa immagine – come sempre raccolta dalla JunoCam e elaborata nella community dedicata, in questo caso dall'ormai noto Kevin M. Gill – vediamo Giove "disteso", con i poli (non visibili) da sinistra verso destra, per mettere in evidenza la turbolenza della fascia equatoriale del pianeta. Lo scatto è del 1 settembre 2017. NASA/JPL-Caltech/SwRI/MSSS/Kevin M. Gill

È un po’ che non ne parliamo, ma Juno la missione della NASA che dal 2016 orbita attorno a Giove avvicinandosi periodicamente alla parte alta della sua atmosfera, continua a raccogliere dati per gli scienziati e a fornire materiale per le straordinarie immagini elaborate dalla Juncam community. L’ultimo flyby è avvenuto il 17 febbraio, mentre il prossimo sarà per il 10 aprile e, recentemente, sulla rivista Nature Astronomy sono apparsi i primi risultati scientifici sulla quantità d’acqua presente nell’atmosfera di Giove.

I dati raccolti da Juno, infatti, danno una stima della quantità d’acqua contenuta nelle nubi gioviane, che all’equatore raggiungerebbero lo 0,25% delle molecole presenti nell’atmosfera, quasi tre volte quella del Sole… un dato che ha sorpreso i ricercatori, ma vediamo tutti i passaggi.

In questa immagine invece Giove è "in piedi", con il polo nord (sempre non visibile nell'inquadratura) in alto. Qui vediamo invece alcune spesse nubi della fascia equatoriale, che impediscono la misurazione agli infrarossi delle abbondanze d'acqua. Spesse nubi che invece sono "trasparenti" alle microonde, motivo per cui lo strumento MWR riesce ad arrivare con le sue misurazioni fino a quasi 150 chilometri di profondità. L'immagine è sempre stata elaborata da Kevin M. Gill, e rilasciata in questi giorni, dalle immagini grezze riprese il 16 dicembre del 2017 dalla JunoCam condivise nella community dedicata. NASA/JPL-Caltech/SwRI/MSSS/Kevin M. Gill

Durante la missione Galileo, nel 1995, i dati raccolti dalla sonda suggerivano che Giove dovesse essere estremamente più “arido” del Sole. Si parla ovviamente non di un confronto sulla quantità di acqua liquida, nessuno dei due astri può chiaramente ospitarne, ma sulla presenza dei suoi componenti, ossigeno e idrogeno.
Per decenni gli scienziati hanno atteso una stima accurata di queste quantità, visto che Giove fu probabilmente il primo pianeta a formarsi, e contiene la maggiorparte dei gas e della polvere che non sono andati a formare il Sole. Le principali teorie sulla sua formazione si basano sulla quantità di acqua assorbita dal pianeta, ecco quindi che averne una stima serve non solo a comprendere meglio la formazione del gigante gassoso, ma anche a completare una parte importante del puzzle di come il nostro Sistema Solare si sia formato. L’abbondanza d’acqua ha anche importanti implicazioni per la meteorologia del gigante gassoso e per conoscerne la sua struttura interna.

La presenza di acqua era stata suggerita dai fulmini – un fenomeno tipicamente alimentato dall’umidità – rilevati su Giove dalle Voyager e da altre sonde, ma nessuna di queste aveva mai tentato una stima accurata della quantità di acqua in profondità nell’atmosfera del pianeta.

Lo fece, come abbiamo accennato, la sonda Galileo che – prima che interrompesse le tramissioni durante la sua discesa nell’atmosfera gioviana in cui si è tuffata nel dicembre 1995 – era riuscita a misurare con il suo spettrometro la quantità di acqua fino a una profondità di circa 120 km, dove la pressione atmosferica raggiungeva i 22 bar, trovando una quantità d’acqua dieci volte inferiore a quella prevista!

Ancora più sorprendente: la quantità di acqua misurata sembrava essere in aumento alla massima profondità misurata, molto al di sotto di dove le teorie suggerivano che l’atmosfera di Giove dovesse essere ben miscelata. In un’atmosfera ben miscelata, infatti, il contenuto di acqua è costante in tutta la regione e ha maggiori probabilità di rappresentare una media globale. Questi dati combinati con una mappa a infrarossi, ottenuta in contemporaneamente da un telescopio a terra, ha fatto pensare però che si sia trattato di “un caso” e che la sonda si fosse trovata a campionare un punto insolitamente secco e caldo.

Insomma… Giove non consente approssimazioni. «Proprio quando pensiamo di aver capito le cose, Giove ci ricorda quanto dobbiamo ancora imparare», ammette Scott Bolton, investigatore principale di Juno presso il Southwest Research Institute di San Antonio.

Vista l’esperienza della sonda Galileo, con Juno si sta cercando di misurare l’abbondanza d’acqua in vaste regioni in tutto il pianeta, utilizzando un radiometro a microonde (MWR) invece che gli infrarossi, che vengono “bloccati” dalle spesse nubi. Osservando Giove dall’alto con sei antenne che misurano contemporaneamente la temperatura atmosferica a più profondità, viene sfruttata la proprietà dell’acqua (ma anche dell’ammoniaca, che viene misurata allo stesso modo) di assorbire determinate lunghezze d’onda della radiazione a microonde (lo stesso principio sfruttato dai forni a microonde per scaldare i cibi).

In questo modo Juno è riuscita a raggiungere profondità molto maggiori rispetto alla Galileo, arrivando a quasi 150 chilometri, dove la pressione raggiunge i 33 bar. Nei primi otto flyby i ricercatori si sono concentrati sulle regioni equatoriali, dove sembra che l’atmosfera sia meglio miscelata che altrove.

Ed è così che «abbiamo trovato che l’acqua all’equatore era molta di più di quanto misurato dalla sonda Galileo», spiega Cheng Li, del team scientifico della missione. «Ma poiché la regione equatoriale è molto particolare su Giove, si dovrà confrontare questo risultato con l’abbondanza d’acqua di altre regioni».

Un dettaglio della zona in prossimità del polo nord di Giove ripresa nell’infrarosso dallo strumento Jiram a bordo della sonda Juno della Nasa. Attorno a quello centrale, sono disposti altri otto cicloni. Crediti: NASA/JPL-Calthech/SwRI/ASI/INAF/JIRAM

L’orbita di 53 giorni di Juno si sta lentamente spostando verso nord, come previsto, esponendo quindi maggiormente l’emisfero nord alle misurazioni degli strumenti a bordo della sonda, oltre che al fuoco della JunoCam.

Gli scienziati sono quindi ora impazienti di vedere i nuovi dati per capire in che modo l’abbondanza d’acqua varia in base alla latitudine e quale può essere l’apporto, da questo punto di vista, dei numerosi cicloni che si formano al polo nord.

Noi attendiamo quindi nuovi risultati e ci godiamo le magnifiche imamgini che arrivano senza sosta dalla JunoCam community!

Le immagini grezze messe a disposizione degli appassionati della JunoCam Community si possono vedere al link https://missionjuno.swri.edu/junocam/processing

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Betelgeuse e il suo calo di luminosità visti “da vicino”

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La stella supergigante rossa Betelgeuse, nella costellazione di Orione, si sta affievolendo come mai prima d'ora.Questa straordinaria immagine della superficie della stella, presa con lo strumento SPHERE sul VLT (Very Large Telescope) dell'ESO alla fine dell'anno scorso, è tra le prime osservazioni ottenute durante una campagna di osservazione volta a capire perché la stella stia diventando più debole.Confrontata con l'immagine scattata nel gennaio 2019, mostra quanto la stella è più debole e come è apparentemente cambiato il suo aspetto. Crediti: ESO/M. Montargès et al.
La stella supergigante rossa Betelgeuse, nella costellazione di Orione, si sta affievolendo come mai prima d'ora. Questa straordinaria immagine della superficie della stella, presa con lo strumento SPHERE sul VLT (Very Large Telescope) dell'ESO alla fine dell'anno scorso, è tra le prime osservazioni ottenute durante una campagna di osservazione volta a capire perché la stella stia diventando più debole. Confrontata con l'immagine scattata nel gennaio 2019, mostra quanto la stella sia più debole e come sia apparentemente cambiato il suo aspetto. Crediti: ESO/M. Montargès et al.

Finora Betelgeuse è stata un faro nella notte per chiunque osservasse le stelle, ma verso la fine dell’anno scorso ha iniziato a diventare più debole. Mentre scriviamo, Betelgeuse è circa al 36% della sua luminosità normale, un cambiamento evidente anche a occhio nudo. Sia gli appassionati di astronomia che gli scienziati sono incuriositi da questo affievolimento senza precedenti.

Un’equipe guidata da Miguel Montargès, astronomo della KU di Lovanio in Belgio, sta osservando la stella con il VLT (Very Large Telescope) dell’ESO da dicembre, con l’obiettivo di capire perché stia diventando più debole. Tra le prime osservazioni emerse dalla campagna troviamo una nuova, straordinaria immagine della superficie di Betelgeuse, scattata alla fine dell’anno scorso con lo strumento SPHERE.

Questa straordinaria immagine della superficie della stella, è stata presa con lo strumento SPHERE sul VLT (Very Large Telescope) dell'ESO nel gennaio 2019, prima che la stella iniziasse a diventare più fioca. Confrontata con l'immagine scattata nel dicembre 2019, mostra quanto la stella sia ora più debole e come sia apparentemente cambiato il suo aspetto. Crediti: ESO/M. Montargès et al.

La stessa equipe aveva anche osservato per caso la stessa stella con SPHERE nel gennaio 2019, prima che iniziasse la diminuzione di intensità, dandoci un’immagine “prima e dopo” di Betelgeuse.

Scattate in luce visibile, le immagini evidenziano i cambiamenti che si stanno verificando sulla stella, sia in termini di luminosità che di forma apparente.

Molti appassionati di astronomia si sono chiesti se l’affievolimento di Betelgeuse significasse che stava per esplodere. Come tutti le supergiganti rosse, un giorno Betelgeuse diventerà una supernova, ma gli astronomi non pensano che sia quello che sta accadendo ora. Hanno altre ipotesi per spiegare cosa esattamente sta causando il cambiamento di forma e luminosità osservato nelle immagini di SPHERE.

In questa immagine ottenuta con lo strumenti VISIR, vediamo la luce infrarossa emessa dalla polvere che circondava Betelgeuse nello scorso dicembre. Le nubi di polvere, anche se in questa immagine sembrano più fiamme infuocate, si formano quando la stella rilascia materia nello spazio. Il disco nero al centro oscura la luminosità della stella e di gran parte di ciò che la circonda. Le reali dimensioni sono infatti quelle del puntino arancione al centro, l'immagine della superficie stellare ripresa da SPHERE. Crediti: ESO/P. Kervella/M. Montargès et al., Acknowledgement: Eric Pantin

«I due scenari a cui stiamo lavorando sono: un raffreddamento della superficie dovuto a un periodo di attività stellare eccezionale e l’espulsione di polvere nella nostra direzione», afferma Montargès. «Naturalmente, la nostra conoscenza delle supergiganti rosse rimane incompleta e il nostro lavoro è ancora in corso, quindi non possiamo escludere sorprese a priori».

La superficie irregolare di Betelgeuse, infatti, è costituita da gigantesche cellule convettive che si muovono, si restringono e si gonfiano. La stella inoltre pulsa, proprio come un cuore, con un mutamento periodico di luminosità. L’attività stellare è composta proprio da questi mutamenti dovuti alla convezione e alla pulsazione in Betelgeuse.

A Montargès e al suo gruppo serviva il VLT al Cerro Paranal in Cile per studiare la stella, che si trova a oltre 700 anni luce di distanza, e raccogliere indizi sul suo affievolimento.

Un'impressione artistica di Betelgeuse, una stella così grande e sufficientemente vicina che ne siamo risuciti a ditinguere le particolarità di superficie e corona. Siamo riusciti a osservare le giganti celle che ribollono sulla sua superficie e a misurare i pennacchi della sua corona, così vasti da avere dimensioni paragonabili al nostro Sistema Solare. Nella figura le due scale sono sia in unità astronomica che in raggi della stella stessa. Crediti: ESO/L. Calçada

«L’Osservatorio dell’ESO al Paranal è una delle poche strutture in grado di visualizzare la superficie di Betelgeuse», afferma. Gli strumenti sul VLT dell’ESO consentono osservazioni dal visibile al medio infrarosso, il che significa che gli astronomi possono vedere sia la superficie di Betelgeuse che il materiale circostante. «Questo è l’unico modo in cui possiamo capire cosa stia succedendo alla stella».

Una seconda nuova immagine, ottenuta sempre nel dicembre 2019 ma con lo strumento VISIR installato sul VLT, mostra invece la luce infrarossa emessa dalla polvere che circonda Betelgeuse. Queste osservazioni sono state fatte da un gruppo di scienziati guidato da Pierre Kervella dall’Osservatorio di Parigi in Francia, che ha spiegato che la lunghezza d’onda della luce catturata dall’immagine è simile a quella rilevata dalle termocamere. Le nubi di polvere, che nell’immagine VISIR sembrano delle fiamme, si formano quando la stella lancia la propria materia nello spazio.

«Sentiamo spesso nella popolarizzazione dell’astronomia la frase “siamo fatti di polvere di stelle”, ma da dove proviene esattamente questa polvere?» commenta Emily Cannon, una studentessa di dottorato presso KU Leuven che lavora con immagini SPHERE di supergiganti rosse. «Nel corso della loro vita, le supergiganti rosse come Betelgeuse creano ed espellono enormi quantità di materia ancor prima di esplodere come supernovae. La tecnologia moderna ci ha permesso di studiare questi oggetti, a centinaia di anni luce di distanza, con dettagli senza precedenti che ci danno l’opportunità di svelare il mistero di ciò che provoca la loro perdita di massa».


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Space Adventure

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Fino al 22 marzo 2020

Space Adventure racconta ai visitatori di tutto il mondo una epopea straordinaria con i reperti originali – le navicelle, i satelliti, i razzi e i modelli in scala che tracciano l’arduo sentiero esplorato da astronauti, tecnici e scienziati.

Copenaghen, Tel Aviv, Johannesburg, Varsavia, Bucarest e ora a Torino: lo spazio e le sue meraviglie sono raccontate con gli oggetti e le istruzioni per l’uso degli enti che hanno scritto la storia dello spazio: NASA, ESA, ASI e ROSCosmos – l’Agenzia Spaziale Russa.

Da Torino, dal Parco del Valentino, partiremo di nuovo con l’astronave “Space Adventure”: con le immagini, i simulatori interattivi e la nostra mente percorreremo milioni di chilometri in un angolo del Sistema Solare, quello più vicino alla nostra Terra, per incontrare due pianeti affascinanti, Mercurio e Marte, qualche cometa e il satellite che da sempre accompagna le notti e i sogni dell’uomo, la Luna.

www.space-adventure.it

“Pale blue dot” rivisitata a 30 anni dal rilascio della celebre immagine

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Il montaggio originale dei 60 scatti e le singole immagini ingrandite dei pianeti ripresi. Crediti: NASA/JPL-Caltech

Per il trentesimo anniversario di una delle immagini più iconiche della missione Voyager, e osiamo di tutte le immagini provenienti dalle missioni di esplorazione del Sistema Solate, il Jet Propulsion Laboratory della NASA ha rilasciato una nuova versione dell’immagine nota come “pale blue dot” (punto azzurro pallido).

L’immagine aggiornata è stata ottenuta utilizzando moderni software e tecniche di elaborazione delle immagini, ma sempre nel rispetto dell’intento di coloro che hanno pianificato l’immagine. Come l’originale, la nuova visualizzazione a colori mostra il pianeta Terra come un singolo pixel blu brillante nella vastità dello spazio, dal comunicato NASA: “Raggi di luce solare sparsi all’interno dell’ottica della camera si estendono attraverso la scena, e uno di questi si è drammaticamente intersecato con la Terra”.

Si tratta di una immagine che riprende la nostra Terra, scattata il 14 febbraio del 1990, dalla sonda Voyager 1 quando si trovava a sei miliardi di chilometri di distanza. In quel momento la sonda aveva superato Nettuno, Plutone era lontano e non avrebbe più effettuato flyby ravvicinati attorno ad altri oggetti. Diventava importante risparmiare maggior energia possibile, per prolungare il più possibile la missione della sonda, e della sorella Voyager 2. Per questo motivo, pochi minuti dopo quello scatto, le camere della sonda sarebbero state spente e avrebbe rappresentato l’ultimo sguardo alla Terra, e al Sistema Solare, di una sonda che tutt’ora continua il suo viaggio verso lo spazio interstellare, rilevando importanti dati sull’ambiente che si trova ad attraversare.

La disattivazione di strumenti per il risparmio energetico dei due veicoli spaziali è stato un processo graduale e continuo, si rinunciava via via a quegli strumenti che diventavano meno importanti a favore di quelli che potevano ancora dare un contributo scientifico rilevante, e ha garantito alle sonde una longevità tale da permettergli tutt’ora, che si trovano entrambe al di fuori dalla eliosfera, di inviare dati preziosi.

L’idea di questo scatto, e anche il merito di averlo portato alla notorietà, fu del noto astrofisico, scrittore di fantascienza e divulgatore Carl Sagan. Fu lui che propose di far girare la Voyager 1, come ultimo saluto, e di farle riprendere la Terra e i pianeti del Sistema Solare in una serie di immagini chiamata “Solar System Family Portrait” (ritratto di famiglia del Sistema Solare).

Il montaggio originale dei 60 scatti e le singole immagini ingrandite dei pianeti ripresi. Crediti: NASA/JPL-Caltech
Nell'animazione (cliccare sull'immagine se non parte) la posizione dei pianeti in orbita attorno al Sole, dal punto di vista della Voyager 1, sovrapposti con gli scatti che ha effettuato. Crediti: NASA/JPL-Caltech

60 immagini che mostrano sei pianeti del nostro sistema: Venere, Terra, Giove, Saturno, Urano e Nettuno. Mercurio era troppo vicino al Sole, mentre Marte è stato “oscurato” da uno dei raggi riflessi del Sole. Plutone, che al tempo non era ancora stato declassato a pianeta nano, era comunque troppo piccolo, lontano e scuro per rientrare nell’immagine.

La Terra, un crescente di Terra visto da quella posizione, occupa quello che è solo un pixel di una delle immagini, un solo puntino azzurro pallido.

Nel 2018, Thomas Zurbuchen, amministratore associato della direzione della missione scientifica della NASA, dichiarò: «Il ritratto di famiglia è un simbolo di quello che l’esplorazione della NASA è davvero: il vedere il nostro mondo da una nuova e più ampia prospettiva», rifacendosi proprio alle parole con cui Carl Sagan descrisse quell’immagine.

Al “pale blue dot”, infatti, Sagan dedicò la copertina di un libro e quella che è diventata una famosa, e tutt’ora in questi tempi “social” tra le più condivise, riflessione sull’esplorazione spaziale ma anche sulla “prospettiva”, sul modo di vedere il mondo da lontano, per quello che è e per come questo impatta sulla visione delle nostre vicende “locali”. In questo 30esimo anniversario dell’immagine ci piace riportare la sua riflessione per esteso qui di seguito, e nel video in chiusura.

«Da questo distante punto di osservazione, la Terra può non sembrare di particolare interesse. Ma per noi, è diverso. Guardate ancora quel puntino. È qui. È casa. È noi. Su di esso, tutti coloro che amate, tutti coloro che conoscete, tutti coloro di cui avete mai sentito parlare, ogni essere umano che sia mai esistito, hanno vissuto la propria vita. L’insieme delle nostre gioie e dolori, migliaia di religioni, ideologie e dottrine economiche, così sicure di sé, ogni cacciatore e raccoglitore, ogni eroe e codardo, ogni creatore e distruttore di civiltà, ogni re e plebeo, ogni giovane coppia innamorata, ogni madre e padre, figlio speranzoso, inventore ed esploratore, ogni predicatore di moralità, ogni politico corrotto, ogni “superstar”, ogni “comandante supremo”, ogni santo e peccatore nella storia della nostra specie è vissuto lì, su un minuscolo granello di polvere sospeso in un raggio di sole. La Terra è un piccolissimo palco in una vasta arena cosmica.

Pensate ai fiumi di sangue versati da tutti quei generali e imperatori affinché, nella gloria e nel trionfo, potessero diventare per un momento padroni di una frazione di un puntino. Pensate alle crudeltà senza fine inflitte dagli abitanti di un angolo di questo pixel agli abitanti scarsamente distinguibili di qualche altro angolo, quanto frequenti le incomprensioni, quanto smaniosi di uccidersi a vicenda, quanto fervente il loro odio. Le nostre ostentazioni, la nostra immaginaria autostima, l’illusione che noi abbiamo una qualche posizione privilegiata nell’Universo, sono messe in discussione da questo punto di luce pallida. Il nostro pianeta è un granellino solitario nel grande, avvolgente buio cosmico. Nella nostra oscurità, in tutta questa vastità, non c’è alcuna indicazione che possa giungere aiuto da qualche altra parte per salvarci da noi stessi.

La Terra è l’unico mondo conosciuto che possa ospitare la vita. Non c’è altro posto, per lo meno nel futuro prossimo, dove la nostra specie possa migrare. Visitare, sì. Colonizzare, non ancora.
Che ci piaccia o meno, per il momento la Terra è dove ci giochiamo le nostre carte. È stato detto che l’astronomia è un’esperienza di umiltà e che forma il carattere. Non c’è forse migliore dimostrazione della follia delle vanità umane che questa distante immagine del nostro minuscolo mondo. Per me, sottolinea la nostra responsabilità di occuparci più gentilmente l’uno dell’altro, e di preservare e proteggere il pallido punto blu, l’unica casa che abbiamo mai conosciuto.»


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“MarSEC” Marana space explorer center

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Osservatorio e Planetario di Marana, Via Pasquali Marana, 36070 Marana di Crespadoro (VI).
Ogni ultimo venerdì del mese avremo un ospite per varie conferenze.

Non perdete il nostro Tg Astronomico (Fb e YouTube)!

16.02, ore 15:00: Il Cielo di Febbraio, l’Astronomia non è mai stata così vicina

28.02, ore 21:00: Conferenza Storia del Progetto Apollo di Ruben Farinelli

Info: www.marsec.org – segreteria@marsec.org

Quel diamante sfocato è la prima stella di Cheops

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Dettaglio dello specchio secondario di Cheops (il cerchio nero in primo piano) con i suoi tre bracci di sostegno. Sullo sfondo, lo specchio primario, sul quale si riflette il volto di un ricercatore. Crediti: University of Bern, T. Beck
L’immagine qui sopra copre circa 1000 x 1000 pixel, e il lato di ogni pixel corrisponde e un angolo di cielo di circa 0.0003 gradi, equivalente a meno di un millesimo del diametro della Luna piena. Nel dettaglio in basso a destra, un’area di circa 100 x 100 pixel centrata su Hd 70843, la stella osservata. Crediti: Esa/Airbus/Cheops Mission Consortium.

Questa che vedete qui a fianco è Hd 70843, una stella a circa 150 anni luce, nella costellazione del Cancro. È la prima immagine astronomica acquisita dal telescopio spaziale Cheops, il “misura-pianeti” dell’Esa. E sì, potete dirlo senza timore, non si offende nessuno, anche se la missione ci è costata circa 100 milioni di euro: è sfocata.

Non è un errore, non è un problema, non ci sarà bisogno di un intervento di riparazione come avvenne per il telescopio spaziale Hubble: questa volta è volutamente sfocata – o meglio, defocusedcome la definiscono gli astronomi. Questo perché lo scopo di Cheops non è compilare un bell’album di fotografie suggestive di stelle e pianeti, bensì calcolare l’esatto diametro di esopianeti già conosciuti. Per riuscirci deve misurare – con estrema precisione – la quantità di luce che riceviamo da ogni stella quando il pianeta del quale si vuole prendere la taglia le passa innanzi. Più la luce cala, più il pianeta è grande. Sapendo esattamente quanto la luce cala si può risalire a quanto il pianeta è grande.

Ora, per quanto sia controintuitivo, dovendo misurare quanto cala la luce al transito del pianeta, non aver messo l’immagine perfettamente a fuoco è un vantaggio. Questo perché la luce viene acquisita attraverso un rivelatore Ccd composto da moltissimi pixel – un milione. E sparpagliare la luce della stella su più pixel rende la misura più precisa, in quanto meno soggetta all’errore dovuto alle inevitabili differenze nella risposta dei singoli pixel e alle variazioni del puntamento del telescopio.

Insomma, queste appena arrivate sono esattamente le immagini che gli scienziati si aspettavano. E che attendevano con ansia. «Sapevamo che le prime immagini di un campo stellare sarebbero state cruciali, perché ci avrebbero permesso di capire se l’ottica del telescopio era sopravvissuta senza problemi al lancio del razzo», spiega il principal investigator di Cheops, Willy Benz, dell’Università di Berna (in Svizzera). «Quando le abbiamo viste apparire sullo schermo, è stato subito chiaro a tutti che avevamo davvero un telescopio funzionante».

Dettaglio dello specchio secondario di Cheops (il cerchio nero in primo piano) con i suoi tre bracci di sostegno. Sullo sfondo, lo specchio primario, sul quale si riflette il volto di un ricercatore. Crediti: University of Bern, T. Beck

«Per noi è un’immagine spettacolare», conferma Isabella Pagano, direttrice dell’Inaf di Catania e responsabile in Italia per Cheops. «I primi risultati sono veramente eccezionali, e ci dicono che lo strumento sta funzionando al top, come meglio non potevamo sperare».

Quanto all’aspetto spigoloso della stella, era previsto anche questo. «Il dettaglio dell’immagine sfuocata di questa stella», spiega infatti a Media Inaf un altro degli scienziati del team di Cheops, Roberto Ragazzoni, direttore dell’Inaf di Padova, «riflette esattamente quello che ci aspettavamo: le ombre dei tre supporti dello specchio secondario e la zona centrale della distribuzione di luce – chiaramente visibili – fanno sì che il segnale sia particolarmente immune ai piccoli errori di puntamento del telescopio. Cheops infatti è un potente e preciso fotometro, il suo compito non è quello di ottenere immagini della stella (peraltro inutili, considerando che con questo telescopio apparirebbe praticamente puntiforme) ma di misurarne il flusso, mediando su un migliaio di pixel le inevitabili imperfezioni del rivelatore».

«Ora che Cheops ha osservato il suo primo obiettivo», conclude Kate Isaakproject scientist Esa di Cheops, «siamo più vicini all’inizio della missione scientifica. Questa immagine meravigliosamente sfocata porta la promessa di una nuova, più profonda comprensione dei mondi al di là del Sistema solare».

Nel video Media INAF qui sotto, Roberto Ragazzoni, progettista dell’ottica di Cheops, ci spiega con alcuni colleghi dell’Inaf di Padova perché si ricorra a questo artificio.

Leggi anche

Alla scoperta degli esopianeti vicini di Roberto Ragazzoni su Coelum Astronomia 236


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Allineamento di pianeti impreziosito dalla sottile falce di Luna

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Nei giorni compresi tra il 18 e il 20 febbraio, la mattina, prima del sorgere del Sole, volgendo la nostra attenzione verso l’orizzonte di sudest, potremo assistere a una bella sequenza di incontri che vedrà protagonisti la Luna e alcuni dei principali pianeti del Sistema Solare. Il teatro di questi abbracci astrali sarà quello della costellazione del Sagittario, entro i cui confini i brillanti pianeti di cui andiamo a parlare formeranno un allineamento già di per sé molto affascinante.

Marte sorgerà attorno alle quattro del mattino, Giove verso le cinque, mentre Saturno li raggiungerà una mezz’ora dopo. Potrete quindi attendere di averli tutti e tre in allineamento, o, di mattina in mattina, scegliere un orario diverso in base al soggetto delle vostre riprese.

Prendendo come orario di riferimento le 6:10 circa, si comincia il 18 febbraio, giorno in cui la Luna (fase del 26%) passerà a circa 3,5° a nordovest di Marte (mag. +1,2).

La mattina del giorno seguente, il giorno 19, sarà la volta di Giove (mag. –1,9) ad essere raggiunto dalla Luna, una falce ben più sottile (fase del 19%) che si posizionerà a 7,3° a nordovest del grande pianeta, poco più che a metà strada tra i pianeti Marte e Giove, in prossimità della stella Nunki (sigma Sagittarii, mag. +2,1) che si troverà a 3,4° a sudest del nostro satellite naturale.

Passiamo ora al 20 febbraio: termina con questa congiunzione la sequenza su cui ci siamo focalizzati, con l’incontro tra la Luna, fattasi decisamente più sottile (fase dell’11%), e Saturno (mag. +0,6). Il nostro satellite si troverà a 4,5° a ovest del pianeta con l’anello.

Le effemeridi di Luna e Pianeti le trovi nel Cielo di Febbraio 2020 su coelum.com

E ancora su Coelum astronomia 241

➜ Il Cielo di febbraio con la UAI: viaggio tra le galassie del Leone

➜ La Luna di Febbraio 2020
e una guida per l’osservazione dell’altipiano meridionale (II parte)


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Astronomiamo

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LocandinaCoelum_02202013.02: Corso di astronomia teorica “Beyond Oort”
20.02: Corso di ripresa e editing fotografico
27.02: Webinar di Aggiornamento Astronomico

Per tutte le informazioni:
https://www.astronomiamo.it/

Solar orbiter in viaggio verso il Sole!

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Una suggestiva immagine del lancio dell'Atlas V 411, da Cape Canaveral, a bordo del quale viaggia la sonda europea per lo studio del Sole Solar Orbiter. Crediti: ESA - S. Corvaja
Una suggestiva immagine del lancio dell'Atlas V 411, da Cape Canaveral, a bordo del quale viaggia la sonda europea per lo studio del Sole Solar Orbiter. Crediti: ESA - S. Corvaja

Questa mattina all’alba la sonda europea per lo studio del Sole Solar Orbiter è finalmente partita per la sua missione. Dopo due rinvii, per le condizioni meteo e per un problema tecnico, a bordo di un Atlas V 411 della NASA, ha iniziato il suo viaggio partendo dal  Kennedy Space Center a Cape Canaveral, Florida, alle 05:03 ora italiana.

Vi abbiamo parlato di questa missione e sugli enigmi ancora da risolvere del nostro Sole nell’ultimo numero, il 241 di febbraio, della nostra rivista (basta cliccare qui a destra sull’immagine per accedre gratuitamente all’approfondimento).

SolO, così viene abbreviato il nome, riuscirà per la prima volta ad osservare le uniche zone del Sole che ancora non conosciamo come le sue regioni polari. Osservando zone inacessibili ai telescopi da Terra o alle sonde in orbite sul piano dell’eclittica, dal suo particolare punto di vista la Solar Orbiter potrà anche seguire in tempo reale e in modo continuo nel tempo quelle manifestazioni della sua superficie, come le espulsioni di massa coronali, che sarebbero all’origine del vento solare, per comprenderne meglio le dinamiche e affinare le previsioni di quello che viene chiamato Space weather, il meteo spaziale, importanti per il loro effetto su sonde e satelliti, ma anche in caso di viaggi umani interplanetari.

«Come esseri umani, abbiamo sempre avuto familiarità con l’importanza del Sole per la vita sulla Terra, osservandolo e indagando su come funziona in dettaglio, ma sappiamo anche da tempo che ha il potenziale per interrompere la nostra vita di tutti i giorni se dovessimo trovarci nella linea di fuoco di una potente tempesta solare», speiga Günther Hasinger, direttore scientifico dell’ESA. «Entro la fine della  missione Solar Orbiter, sapremo più di quanto abbiamo mai saputo sia sulla forza nascosta responsabile del comportamento mutevole del Sole sia della sua influenza sul nostro pianeta natale».

Grazie all’assist gravitazionale di Venere, e in un caso della Terra, SolO si troverà in orbite sempre più inclinate rispetto all’eclittica e vicina al Sole, per poter così osservare la nostra stella da un punto di vista privilegiato, che nessun’altra sonda solare ha mai raggiunto prima. Nel punto più vicino al Sole della sia orbita, SolO si troverà a circa 42 milioni di chilometri dalla superficie solare (un po’ più vicino di Mercurio). La tecnologia all’avanguardia dei suoi scudi garantirà la protezione degli strumenti scientifici del veicolo spaziale per temperature fino a 500 ° C, ovvero fino a 13 volte il calore percepito dai satelliti in orbita terrestre.

«Dopo una ventina di anni dall’inizio, sei di costruzione e più di un anno di test, insieme ai nostri partner industriali abbiamo creato nuove tecnologie ad alta temperatura e vinto la sfida di costruire un veicolo spaziale pronto ad affrontare il Sole per studiarlo da vicino», aggiunge César García Marirrodriga, responsabile del progetto Solar Orbiter dell’ESA.

In poco meno di due anni, Solar Orbiter raggiungerà la sua orbita operativa, nel corso della missione raggiungerà un’orbita dall’inclinazione di 17° sopra e sotto l’equatore solare e, se tutto andrà bene, in unam issione estesa potrà raggiungere un’inclinazione fino a 33°.

La missione gode anche di un importante cotributo NASA, non solo per il lancio ma entrando a far parte dell’Heliophysics System Observatory della NASA , andando a completare lo studio del Sole dallo spazio già cominciato con la Solar Parker Probe, della quale è complementare.

«Solar Orbiter farà cose straordinarie. In combinazione con le altre missioni della NASA lanciate di recente per studiare il Sole, stiamo acquisendo nuove conoscenze senza precedenti sulla nostra stella», ha affermato Thomas Zurbuchen (NASA). «Insieme ai nostri partner europei, stiamo entrando in una nuova era per la Fisica solare, che trasformerà lo studio del Sole e contribuirà a rendere più sicuri gli astronauti che viaggeranno nelle missioni del programma Artemis sulla Luna».


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Accademia delle Stelle

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2020-02 Coelum AdS

2020-02 Coelum AdSCorsi di Astronomia a Roma
Il 2020 si apre con due corsi della nostra Scuola di Astronomia, uno il lunedì, l’altro il giovedì, che dureranno fin dopo la metà di marzo presso la nostra sede all’EUR, di fronte alla metro Laurentina ai quali è possibile iscriversi anche dopo l’inizio a prezzo ridotto.

Corso Base di Astronomia Generale
Un meraviglioso viaggio alla scoperta dell’Universo e di tutti gli oggetti incredibili che lo popolano. Pulsar, quasar, buchi neri… Un corso completo delle fasi lunari al Big Bang

Corso completo di Astrofotografia
Lezioni teoriche e pratiche per imparare e sperimentare tutte le competenze che servono per fare spettacolari fotografie del cielo con qualsiasi strumento, dalla semplice reflex al telescopio ed elaborarle.

Info:
https://www.facebook.com/accademia.dellestelle
https://www.accademiadellestelle.org

Unione Astrofili Senesi

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Osservatorio Astronomico Provinciale di Montarrenti, SS. 73 Ponente, Sovicille (SI).
L’OAPM apre gratuitamente al pubblico per l’osservazione del cielo notturno il 2° e 4° venerdì del mese

14.02 e 28.02, ore 21:30: Il cielo al castello di Montarrenti
L’Osservatorio Astronomico di Montarrenti (SI) sarà aperto al pubblico per delle serate osservative, con particolare attenzione agli ammassi stellari e ai vari oggetti del profondo cielo, come la Nebulosa di Orione che domina il cielo del periodo. Prenotazione obbligatoria sul sito o inviando un messaggio WhatsApp a Patrizio (3472874176) oppure un sms a Giorgio (3482650891).

In caso di tempo incerto telefonare per conferma.

Seguiteci su www.astrofilisenesi.it e sulla nostra pagina facebook Unione Astrofili Senesi

Mostra Above and Beyond

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above_beyond

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Above and Beyond è una mostra dedicata ai primi cento anni dell’Unione Astronomica Internazionale (IAU, International Astronomical Union) che ricorrono nel 2019.

La mostra rappresenta un progetto pilota realizzato per avvicinare il pubblico all’astronomia moderna e all’esplorazione spaziale. In particolare, la mostra ha l’obiettivo di creare e accrescere l’interesse e l’entusiasmo di tutte le persone, dai più piccoli ai più grandi, verso la ricerca scientifica e in particolare astronomica, rendendo accessibili scoperte e conoscenze raggiunte nell’ultimo secolo di studio e collaborazione internazionale e rivolte all’osservazione e alla comprensione di fenomeni astronomici e all’evoluzione dell’Universo di cui facciamo parte.

La Mostra ripercorre i passaggi salienti dell’astronomia negli ultimi cento anni (1919-2019) e rappresenta un vero e proprio viaggio nel tempo ai confini del cosmo.

Urano e Nettuno: gemelli diversi

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Urano (a sinistra) e Nettuno (a destra) fotografati dal Voyager 2. Crediti: Nasa/Jpl
Urano (a sinistra) e Nettuno (a destra) fotografati dal Voyager 2. Crediti: Nasa/Jpl

UranoNettuno sono i pianeti più esterni del Sistema solare. Per dimensioni, probabile composizione del nucleo e grande distanza dal Sole, sono effettivamente simili e chiaramente molto diversi dai pianeti terrestri interni e dai giganti gassosi GioveSaturno. «Tuttavia, tra i due pianeti ci sono anche notevoli differenze che richiedono spiegazioni», osserva Christian Reinhardt, che si è dedicato allo studio di Urano e Nettuno con Alice ChauJoachim StadelRavit Helled – tutti membri del PlanetS che lavorano all’Università di Zurigo, Institute for Computational Science. «Ad esempio, Urano e i suoi principali satelliti sono inclinati di circa 97 gradi rispetto al piano orbitale e la rotazione del pianeta è retrograda», spiega Joachim Stadel.

Oltre a questo, i sistemi dei satelliti dei due pianeti sono diversi. I principali satelliti di Urano giacciono su orbite regolari e inclinate come il pianeta, suggerendo che si sono formati da un disco simile a quello che ha portato alla formazione della Luna.

Tritone invece, il più grande satellite di Nettuno, è molto inclinato (mostra un’inclinazione di 157 gradi rispetto all’asse di Nettuno, a sua volta inclinato di 30 gradi rispetto al piano dell’orbita) e quindi molto probabilmente è un oggetto che è stato catturato dal pianeta stesso. Infine, anche i flussi di calore e la struttura interna potrebbero essere molto diversi.

«Spesso si assume che entrambi i pianeti si siano formati in modo simile», spiega Alice Chau. Questo spiegherebbe facilmente le loro masse molto simili, la separazione orbitale media dal Sole e la possibile composizione. Ma allora da dove vengono le differenze riscontrate? Poiché all’epoca della formazione dei pianeti e durante le prime fasi della loro evoluzione, gli impatti dovevano essere piuttosto comuni, all’origine di questa dicotomia potrebbe esserci stato un gigantesco impatto. Tuttavia, studi precedenti hanno studiato esclusivamente impatti su Urano oppure sono stati limitati a causa di forti semplificazioni nei calcoli dell’impatto stesso.

La formazione di Urano e Nettuno (cliccare per ingrandire). Crediti: Reinhardt & Helled, ICS, University of Zürich

Per la prima volta, un team di scienziati dell’Università di Zurigo ha studiato una serie di collisioni su entrambi i pianeti utilizzando simulazioni al computer ad altissima risoluzione. A partire da due pianeti prima dell’impatto – Urano e Nettuno – molto simili tra loro, hanno dimostrato che l’impatto di un corpo con una massa di 1-3 masse terrestri potrebbe spiegare questa dicotomia.

Nel caso di Urano, una collisione radente è in grado di inclinare il pianeta ma non influisce sull’interno del pianeta stesso. Nel caso di Nettuno, una collisione frontale modifica la struttura interna ma non è in grado di formare un disco, risultando quindi coerente con l’assenza di grandi lune su orbite regolari. Tale collisione, capace di alterare le profondità del pianeta, è supportata anche dal maggiore flusso di calore osservato per Nettuno.

«Con questo lavoro», conclude Ravit Helled, «siamo riusciti a dimostrare che un percorso di formazione planetaria inizialmente molto simile può portare alla dicotomia osservata nelle proprietà di questi affascinanti pianeti esterni». Le future missioni Nasa ed Esa su Urano e Nettuno potrebbero fornire nuovi vincoli fondamentali per tale scenario, migliorare la nostra comprensione della formazione del Sistema solare e fornire una migliore comprensione degli esopianeti in questo regime di masse.

Per saperne di più:


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La Luna (quasi) Piena e Regolo

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La notte tra il 9 e il 10 febbraio, alle ore 00:10 circa potremo assistere a una bella congiunzione tra la Luna, quasi Piena (fase del 99%), e la stella alfa della maestosa costellazione del Leone, Regolo (mag. +1,4).

Per individuare questa coppia, cosa resa comunque facile dalla presenza della Luna Piena, dovremo orientarci verso sud-sudest, guardando a un’altezza di circa 61°.

La Luna si troverà a 3,2° a nordest della stella. Di certo il bagliore della Luna renderà forse un po’ difficile distinguere la più tenue luce di Regolo, soprattutto in presenza di foschie, velature o di forte inquinamento luminoso. Potendo osservare sotto cieli tersi e limpidi, tuttavia, potrà essere possibile scorgere anche la presenza della stella Algieba (gamma Leonis, mag. +2,2) a 5,1° a nordest del nostro satellite naturale.

Scopri le altre congiunzioni del mese su Coelum Astronomia 241. Clicca e leggi, è gratis!

Essendo questo incontro molto alto sull’orizzonte, per scattare delle fotografie che includano gli elementi del paesaggio circostante si potranno sfruttare le strutture più alte come guglie o pinnacoli di edifici o le sommità degli alberi. Oppure… basterà anticipare, o ritardare, l’orario di ripresa per trovarli più bassi sull’orizzonte. Saranno leggermente più distanti tra loro ma non così tanto da perdere di suggestione.

➜ Per l’occasione ricordiamo anche i consigli per L’osservazione della Luna Piena

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Bentornato Luca! Missione compiuta.

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Ecco Luca Parmitano, un sorriso e un cenno verso chi lo sta seguendo all'uscita della Soyuz.

Dopo essersi staccata dalla ISS alle 6:50, ora italiana, alle 10:12 la Soyuz, aperti correttamente i paracadute, ha toccato terra, nel bel mezzo delle steppe del Kazakistan ricoperte da 30 cm di neve. Dopo pochi minuti lo sportello si è aperto e ne sono usciti, sani, salvi e sorridenti il nostro Luca Parmitano e i suoi compagni di viaggio Christina Koch della NASA e Aleksandr Aleksandrovič Skvorcov della Roscosmos.

Christina Koch e Alexander Skvortsov all'uscita dalla Soyuz.

Si conclude così la missione ESA Beyond, che ha coinvolto il nostro Luca nelle due Expedition 60 e 61, per ben 201 giorni nello spazio. Durante la sua missione ha portato avanti 50 esperimenti europei e oltre 200 internazionali, tra passeggiate spaziali, operazioni di routine, straordinarie immagini dallo spazio, e tantissimi eventi e collegamenti dedicati alla divulgazione, con scuole, appassionati e media.

Accolti da un nutrito gruppo di persone (mezzi e… cavalli!) pronte a fornire tutta l’assistenza necessaria, sono stati trasportati in un ospedale da campo allestito nel luogo dell’atterraggio, noto con un piccolo margine di errore, dove stanno venendo sottoposti ai primi controlli.

Ad attendere la Soyuz con il suo carico umano, per i trasporti e in caso di necessità, elicotteri e... cavalli!

Dopo quasi sette mesi sulla ISS, per quattro dei quali ha anche ricoperto il ruolo di Comandante nella ISS, Luca Parmitano (ma soprattutto il suo fisico) deve riprendere familiarità con la gravità terrestre. A dispetto infatti dei visi sorridenti al momento dell’uscita dalla Soyuz MS-13 che li ha riportati a terra (la stessa che lo aveva portato sulla ISS), gli astronauti hanno subito le conseguenze non solo del turbolento viaggio di rientro (Paolo Nespoli ha avuto modo di paragonarlo allo… scontro di una 500 con un camion!), che viene assorbito in modo più o meno veloce a seconda della persona, ma anche della lunga permanenza in micro gravità. Ricordiamo infatti che la ISS non è così lontana dalla Terra da sperimentare l’assenza di gravità, ma per via della sua velocità orbitale è come se “cadesse” costantemente simulandola. Questo stato viene chiamato di microgravità.

"Pronto? Si, sono qui, sto bene!". Appena usciti dalla capsula la prima telefonati ai propri cari per far sapere che è andato tutto bene e sono atterrati sani e salvi. Da un twit @ESA (cliccare sull'immagine per aprirlo).

Devono quindi riabituarsi ad avere un peso, a muoversi in un spazio vincolato da un “alto” e un “basso”, a camminare. Il loro organisimo, la loro muscolatura, il loro sistema cardiovascolare… tutto è settato su un diverso modo di lavorare, e il processo sarà più difficoltoso quanto più sono rimasti in orbita.

Se Parmitano deve scontare 201 giorni di Stazione Spaziale, più complesso sarà il riadattamento alla gravità terrestre per Christina Koch, che ha battuto il record di permanenza femminile sulla Stazione Spaziale arrivando a 328 giorni, in una missione test per le permanenze di lunga durata in vista del Programma di ritorno alla Luna, Artemis, e perl’esplorazione umana di Marte.

Parlando di record, Parmitano oltre ad essere il primo italiano ad aver avuto il ruolo di Comandante a bordo della ISS, e terzo europeo, ha conquistato quello per il maggior numero di ore trascorse in attività extra veicolari, e unico italiano ad averle effettuate: tra questa missione – in cui ha eseguito ben quattro uscite per aggiornare l’Ams (Alpha Magnetic Spectrometer), il rivelatore di raggi cosmici usato per lo studio della materia oscura e dell’antimateria – e la precedente missione Volare, ha accumulato 33 ore e 9 minuti in sei passeggiate spaziali.

Dopo i primi controlli nell’ospedale da campo, gli astronauti verranno inviati verso le sedi delle rispettive agenzie, dove affronteranno la prima quarantena e verranno sottoposti e test, esami e riabilitazioni. Luca Parmitano raggiungerà infatti la sede ESA/EAC a Colonia (in Germania), dove ha base il corpo astronauti dell’ESA, e l’8 gennaio affronterà la prima conferenza stampa.

Rientrato a terra, continuerà alcuni degli esperimenti iniziati a bordo della ISS, tra cui come l’ambiente della ISS impatta sull’udito degli astronauti, su come il passare del tempo viene percepito differentemente, e quegli esperimenti (il GRIP and GRASP) che monitorano la coordinazione occhio-mano e il ruolo della gravità nella presa e nella manipolazione degli oggetti.

Nel frattempo qui la diretta con commento in italiano dei sempre bravi Astronauticast e di seguito un video ESA di recap dei 200 (e uno) giorni della missione Beyond:


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Unione Astrofili Italiani UAI

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I convegni e le iniziative UAI
8 e 9 febbraio Corso PNdR Comete UAI e CARA Project, per l’utilizzo di AstroArt e Winafrho

Organizzato dal Programma Nazionale Comete UAI, un incontro volto a migliorare la conoscenza dei programmi più usati dal Programma Nazionale Comete UAI: Astroart e Winafrho. Presso l’Osservatorio Astronomico “G. Montanari” di Cavezzo (MO).
www.uai.it/sito/ricerca-e-studi/

Una lotta stellare

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Questa nuova immagine presa con ALMA mostra il risultato di una lotta stellare: un ambiente di gas complesso e sorprendente che circonda il sistema binario HD101584.I colori rappresentano la velocità, passando dal blu - il gas che si muove più velocemente verso di noi - al rosso - gas che si allontana più velocemente da noi.I getti, quasi lungo la linea di vista, spingono il materiale in blu e rosso.Le stelle del sistema binario si trovano nel singolo punto luminoso al centro della struttura ad anello mostrata in verde, che si muove con la stessa velocità del sistema nel suo insieme lungo la linea di vista.Gli astronomi credono che questo anello abbia la sua origine nel materiale che veniva espulso mentre la stella di massa inferiore si muoveva a spirale verso la compagna gigante rossa. Crediti: ALMA (ESO/NAOJ/NRAO), Olofsson et al. Acknowledgement: Robert Cumming
Questa nuova immagine presa con ALMA mostra il risultato di una lotta stellare: un ambiente di gas complesso e sorprendente che circonda il sistema binario HD101584. I colori rappresentano la velocità, passando dal blu – il gas che si muove più velocemente verso di noi – al rosso - gas che si allontana più velocemente da noi. I getti, quasi lungo la linea di vista, spingono il materiale in blu e rosso. Le stelle del sistema binario si trovano nel singolo punto luminoso al centro della struttura ad anello mostrata in verde, che si muove con la stessa velocità del sistema nel suo insieme lungo la linea di vista. Crediti: ALMA (ESO/NAOJ/NRAO), Olofsson et al. Acknowledgement: Robert Cumming

Come le persone, anche le stelle cambiano con l’età e alla fine muoiono. Per il Sole e le stelle, della sua stessa classe, questo cambiamento farà loro attraversare una fase in cui, dopo aver bruciato tutto l’idrogeno nel nucleo, si gonfieranno in una grande e luminosa stella gigante rossa. Alla fine, la stella morente perderà i suoi strati esterni, lasciando dietro di sé il nucleo: una stella calda e densa chiamata nana bianca.

Per conoscere meglio il nostro Sole, la sua evoluzione e quella che sarà la sua fine, su Coelum Astronomia di febbraio la prima parte di un lungo articolo dedicato a "Il destino del Sole". Come sempre in formato digitale e gratuito. Basta cliccare qui sopra.

«Il sistema stellare HD101584 è speciale, nel senso che questo ‘processo mortale’ è terminato prematuramente e drammaticamente a causa di una stella compagna di bassa massa inghiottita dalla gigante», ha affermato Hans Olofsson dell’Università Chalmers di Tecnologia, Svezia, che ha guidato un recente studio, pubblicato dalla rivista Astronomy & Astrophysics, su questo affascinante oggetto.

Grazie alle nuove osservazioni con ALMA, integrate dai dati di APEX (Atacama Pathfinder EXperiment) gestito dall’ESO, Olofsson e il suo gruppo ora sanno che ciò che è accaduto nel sistema stellare binario HD101584 è molto simile a una “lotta stellare”.

Espandendosi in gigante rossa, la stella principale è diventata abbastanza grande da inghiottire la compagna di massa inferiore. In risposta, la stella più piccola ha iniziato a spiraleggiare verso il nucleo della gigante ma senza arrivaer allo scontro. Invece, questa manovra ha fatto esplodere la stella più grande, disperdendone drammaticamente gli strati esterni di gas e lasciandone esposto il nucleo.

La complessa struttura del gas nella nebulosa HD101584 sarebbe quindi dovuta alla spirale percorsa dalla stella più piccola verso la gigante rossa, nonché ai getti di gas che si sono formati nel processo. Portando un colpo mortale agli strati di gas già indeboliti, questi getti sono penetrati attraverso il materiale precedentemente espulso, formando gli anelli di gas e le luminose chiazze bluastre e rossastre che si vedono nella nebulosa.

Il lato positivo di una lotta stellare è che aiuta gli astronomi a comprendere meglio l’evoluzione finale di stelle come il Sole.

«Attualmente, possiamo descrivere i processi che conducono alla morte molte stelle simili al Sole, ma non possiamo spiegare perché o esattamente come avvengano. HD101584 ci fornisce importanti indizi per risolvere questo enigma poiché è attualmente in una breve fase di transizione tra stadi evolutivi meglio conosciuti. Con immagini dettagliate dell’ambiente di HD101584 possiamo stabilire la connessione tra la stella gigante che è stata e il residuo stellare che presto diventerà», afferma la coautrice Sofia Ramstedt dell’Università di Uppsala, in Svezia.

La coautrice Elizabeth Humphreys dell’ESO in Cile ha sottolineato che ALMA e APEX, situati nella regione cilena di Atacama, sono stati fondamentali per consentire al grupo di lavoro di sondare “sia la fisica che la chimica in azione” nella nube di gas. Ha inoltre aggiunto: «Questa straordinaria immagine dell’ambiente circumstellare di HD101584 non sarebbe stata possibile senza la squisita sensibilità e la risoluzione angolare fornite da ALMA».

Mentre gli attuali telescopi consentono agli astronomi di studiare il gas intorno al sistema binario, le due stelle al centro della complessa nebulosa sono troppo vicine tra loro e troppo lontane da noi per essere distinte. L’ELT (Extremely Large Telescope) dell’ESO, in costruzione nel deserto cileno di Atacama, consentendo agli astronomi di osservare da vicino la coppia in lotta «ci fornirà informazioni sul ‘cuore’ dell’oggetto», spiega Olofsson.


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Nasa al lavoro su un’anomalia di Voyager 2

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Illustrazione artistica della sonda Voyager 2. Crediti: Nasa
Illustrazione artistica della sonda Voyager 2. Crediti: Nasa

Un piccolo intoppo può capitare a qualsiasi veicolo spaziale. Anche se questo si chiama Voyager 2, la sonda della Nasa lanciata nel lontano 1977. Insieme al gemello Voyager 1, il il più lontano oggetto costruito dall’uomo.

Tutto è cominciato sabato 25 gennaio scorso, quando la sonda, nel bel mezzo dello spazio interstellare, avrebbe dovuto eseguire una manovra programmata con la quale si sarebbe dovuta ruotare di 360 gradi per calibrare il suo magnetometro, uno dei cinque strumenti ancora in funzione a bordo della sonda. Una manovra che tuttavia è abortita. L’analisi dei dati telemetrici inviati dal veicolo spaziale ha infatti indicato un ritardo inspiegabile nell’esecuzione dei comandi. Oltre a impedire che la manovra avvenisse, il ritardo ha anche lasciato in funzione due sistemi ad alto consumo elettrico, portando a un consumo eccessivo di energia.

Per fortuna, la procedura di attivazione del software di protezione – uno dei sistemi di sicurezza presenti sia su Voyager 1 che su Voyager 2 per la salvaguardia automatica in caso si verifichino circostante potenzialmente dannose, come lo è il consumo elevato di energia – è avvenuta correttamente, disattivando tutti gli strumenti scientifici a bordo per compensare il deficit energetico.

Il tweet con il quale la Nasa ha comunicato il buono stato di alimentazione della sonda Voyager 2 e lo switch in modalità “on” degli strumenti scientifici a bordo dopo lo spegnimento a seguito dell’attivazione del sistema di protezione automatico dai guasti di cui la sonda è dotata

Energia troppo preziosa per essere sprecata. Essa proviene da un generatore termoelettrico a radioisotopi (Rtg) che trasforma il calore prodotto dal decadimento di un elemento radioattivo, il plutonio, in elettricità – utile non solo per il funzionamento degli strumenti scientifici, ma anche per mantenere la temperatura ottimale di esercizio del veicolo spaziale, impedendo che si congeli nello spazio profondo.

Entrambe le sonde sono ora a oltre 18.5 miliardi di chilometri dal Sole, il che rende cruciali l’impiego di riscaldatori per il mantenimento delle funzioni della sonda. Se la loro funzione venisse meno, i tubi del carburante potrebbero congelarsi. Ciò comporterebbe una mancata alimentazione dei propulsori che consentono alla sonda di orientare le proprie antenne verso la Terra, e gli ingegneri non sarebbero più in grado di ricevere dati o comunicare con essa.  Gestire il consumo di questa elettricità è dunque fondamentale, anche perché la sua capacità di produzione scende di circa 4 watt all’anno a causa del decadimento naturale dell’isotopo all’interno del generatore, motivo per cui  l’anno scorso, per ridurre i consumi, gli ingegneri hanno spento il riscaldatore primario del rilevatore di raggi cosmici, che ad oggi, comunque, continua a funzionare.

Come si legge nel tweet sulla pagina ufficiale Nasa Voyager, tre giorni dopo, martedì 28 gennaio, gli ingegneri sono stati in grado di spegnere uno dei sistemi ad alta potenza rimasti attivi e riaccendere tutti gli strumenti scientifici. Stanno ora rivedendo lo stato del resto della navicella e stanno lavorando – con grande difficoltà: fra invio e ricezione, ogni comando richiede circa 34 ore – per riportarla alle normale operatività, in attesa che riprenda riprenda la ricezione dei dati.


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Astronomiamo

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LocandinaCoelum_022020

LocandinaCoelum_02202010.02, ore 21:30: Webinar “La forma dell’Universo” con la Dott.ssa Eleonora Di Valentino dalla University of Manchester
13.02: Corso di astronomia teorica “Beyond Oort”
20.02: Corso di ripresa e editing fotografico
27.02: Webinar di Aggiornamento Astronomico

Per tutte le informazioni:
https://www.astronomiamo.it/

“MarSEC” Marana space explorer center

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Osservatorio e Planetario di Marana, Via Pasquali Marana, 36070 Marana di Crespadoro (VI).
Ogni ultimo venerdì del mese avremo un ospite per varie conferenze.

Non perdete il nostro Tg Astronomico (Fb e YouTube)!

02.02, ore 15:00 e ore 17:00: Phantom of Universe Dal Big Bang alla materia oscura:

L’avventura inizierà con la visita al museo dell’astronautica dove vi guideremo nelle tappe più importanti che hanno portato l’uomo sulla Luna, da Sputnik 1 al programma spaziale Apollo. Proseguiremo poi nella “Time Event Room” dove vi attende la riproduzione in scala della sonda OSIRIS-REx della NASA.
Una sorpresa vi attenderà al termine della visita: La Galleria del Tempo, unica in Europa, è stata la fortunata scoperta compiuta per caso durante i lavori di ampliamento dell’osservatorio. Concluderemo il nostro viaggio all’interno del planetario, dove avrà luogo la suggestiva proiezione del film “Phantom of Universe”, esploreremo la materia oscura partendo dal Big Bang fino alle scoperte del Large Hadron Collider (CERN), viaggiando nello spazio e nel tempo, accelerando affianco alle particelle prima che collidano in esplosioni di luce. Per questa visita non sono previste osservazioni al telescopio.

16.02, ore 15:00: Il Cielo di Febbraio, l’Astronomia non è mai stata così vicina
28.02, ore 21:00: Conferenza Storia del Progetto Apollo di Ruben Farinelli

Info: www.marsec.org – segreteria@marsec.org

Unione Astrofili Senesi

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Osservatorio Astronomico Provinciale di Montarrenti, SS. 73 Ponente, Sovicille (SI).
L’OAPM apre gratuitamente al pubblico per l’osservazione del cielo notturno il 2° e 4° venerdì del mese

01.02, ore 21:30: Il cielo di febbraio
Ritrovo presso Porta Laterina a Siena da dove raggiungeremo a piedi la Specola “Palmiero Capannoli” per osservare sia le costellazioni invernali (Orione, Toro, Auriga e Gemelli) che quelle primaverili (Cancro e Leone) che si stanno affacciando nella volta celeste. Sarà possibile anche l’osservazione della Luna, quasi nella fase di primo quarto. Prenotazione obbligatoria sul sito o a Davide Scutumella (3388861549)

14.02 e 28.02, ore 21:30: Il cielo al castello di Montarrenti
L’Osservatorio Astronomico di Montarrenti (SI) sarà aperto al pubblico per delle serate osservative, con particolare attenzione agli ammassi stellari e ai vari oggetti del profondo cielo, come la Nebulosa di Orione che domina il cielo del periodo. Prenotazione obbligatoria sul sito o inviando un messaggio WhatsApp a Patrizio (3472874176) oppure un sms a Giorgio (3482650891).

In caso di tempo incerto telefonare per conferma.

Seguiteci su www.astrofilisenesi.it e sulla nostra pagina facebook Unione Astrofili Senesi

La Luna di Febbraio 2020 e una guida all’osservazione dell’Altipiano Meridionale (II parte)

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Le fasi della Luna in febbraio, calcolate per le ore 00:00 in TMEC. La visione è diritta (Nord in alto, Est dell’osservatore a sinistra). Nella tavola sono riportate anche le massime librazioni topocentriche del mese, con il circoletto azzurro che indica la regione del bordo più favorita dalla librazione.
Le fasi della Luna in febbraio, calcolate per le ore 00:00 in TMEC. La visione è diritta (Nord in alto, Est dell’osservatore a sinistra). Nella tavola sono riportate anche le massime librazioni topocentriche del mese, con il circoletto azzurro che indica la regione del bordo più favorita dalla librazione.

La sera del primo febbraio il nostro satellite transiterà in meridiano alle 18:04 a un’altezza di +54° sopra l’orizzonte, rendendosi pertanto visibile per tutta la serata andando poi a tramontare nelle primissime ore della notte successiva. In fase di 7 giorni, già questa potrà essere un’ottima occasione per osservare la Luna in una delle sue migliori performances.

Infatti dalle panoramiche sulle estese e scure aree basaltiche dei mari Crisium, Fecunditatis, Tranquillitatis, Nectaris, Serenitatis e Vaporum sarà possibile andare alla ricerca di una innumerevole quantità di strutture geologiche posizionate lungo la linea del terminatore, partendo dalla regione polare settentrionale passando per il mare Frigoris e in prossimità della parte più orientale del mare Imbrium con le spettacolari e imponenti regioni montuose costituite dalle Alpi, i monti Caucasus e una porzione degli Appennini.

Estendendo le osservazioni verso oriente potrà risultare interessante volgere lo sguardo anche lungo il bordo est della Luna senza però eccedere negli ingrandimenti (intorno ai 100-150x) per bellissime panoramiche. Dopo poche ore, per la precisione la notte successiva alle 02:42 del 2 febbraio, avremo il Primo Quarto

Continua, con maggiori dettagli, in la Luna di febbraio su Coelum Astronomia 241 (digitale e gratuito)

A Febbraio osserviamo

dal 2 al 4 febbraio dicembre L’Altopiano meridionale (II parte)

In questa seconda parte (qui la prima parte),  proseguiamo il viaggio attraverso l’altopiano meridionale del nostro satellite suddiviso nell’arco di tre serate, dal 2 al 4 febbraio. Per l’individuazione dell’area oggetto di questa proposta osservativa basterà orientare il telescopio in prossimità della regione polare sud e, serata dopo serata, del vicino terminatore.

➜ Leggi la guida dell’osservazione dell’altipiano meridionale II parte

Anche questo mese riproponiamo l’elenco completo delle librazioni, quelle anomalie nella rotazione lunare che fanno si che la Luna non mostri proprio sempre la stessa faccia, ma si “dondoli” un po’, mostrandoci piccoli spiragli delle formazioni che si trovano sul contorno, e oltre, della faccia visibile, che altrimenti non potremmo vedere. Questo movimento è più o meno accentuato nell’arco del mese, e quindi più o meno ampio è lo sguardo che possiamo dare oltre il bordo.

Questo mese, nelle serate fra l’8 e il 10 febbraio le Librazioni interesseranno aree lungo il bordo sudoccidentale fino alla regione polare meridionale. Luna in fase crescente e osservazioni nel corso della serata.

➜ Leggi le Librazioni nel mese di febbraio 2020

Falci di Luna

Proseguono i consigli per l’osservazione delle formazioni lunari anche nella pagina dedicata alle Falci lunari di febbraio sul numero 241. Si dovrà attendere anche in febbraio l’ultima decade del mese, nei giorni prima e dopo la Luna Nuova del 23 febbraio.

➜ Le effemeridi di Luna e Pianeti le trovi nel Cielo di Febbraio 2020

Consultate sempre le passate puntate della rubrica, perché alcune di queste formazioni sono già state già trattate anche in dettaglio.

Per la ripresa della Luna nel contesto del paesaggio ricordiamo sempre le rubriche di Giorgia Hofer:

Crediti: Giorgia Hofer

La Luna immersa nei colori pastello per riprese da favola!
➜ Fotografiamo le sottili Falci di Luna
➜ Fotografare la Luna
La Luna illumina la notte Fotografiamo il paesaggio illuminato dalla Luna Piena

Se la fotografia non basta, Gian Paolo Graziato ci ha raccontato come dipingere dei rigorosi paesaggi lunari, nei più piccoli dettagli… per poi lasciarsi andare alla fantasia e all’imaginazione!

➜  La Luna mi va a pennello.

E se le proposte fatte non vi bastano, non dimenticate tutte le precedenti rubriche di Francesco Badalotti, con tantissimi spunti per approfondire la conoscenza del nostro satellite naturale. Per ogni formazione basta attendere il momento giusto!


Tutti consigli per l’osservazione del Cielo di Febbraio su Coelum Astronomia 241

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Il Cielo di Febbraio 2020

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La cartina mostra l'aspetto del cielo alle ore (TMEC): 1 Feb > 23:00; 15 Feb > 22:00; 29 Feb > 21:00. Crediti Coelum Astronomia CC-BY
La cartina mostra l'aspetto del cielo alle ore (TMEC): 1 Feb > 23:00; 15 Feb > 22:00; 29 Feb > 21:00. Crediti Coelum Astronomia CC-BY

EFFEMERIDI

Luna

Sole e Pianeti

Per quanto riguarda l’aspetto del cielo, saranno predominanti ancora le costellazioni invernali, caratterizzate da stelle brillanti e facilmente riconoscibili: potremo osservare al meridiano il Cane Maggiore con la splendente Sirio e l’inconfondibile Orione, con l’Auriga allo zenit, facilmente riconoscibile grazie a Capella, la lucida della costellazione…  

➜ Continua a leggere sul Cielo di Febbraio all’interno del nuovo numero (sempre in formato digitale e gratuito!)

➜ Il Cielo di febbraio con la UAI: viaggio tra le galassie del Leone

➜ Continuiamo il viaggio deep sky nel Cane Maggiore (II parte): Mizram e i suoi dintorni

COSA OFFRE IL CIELO

Mercurio, torna ad apparire al tramonto per la prima parte del mese, i giorni migliori per l’osservazione saranno quelli a cavallo del 10 febbraio, mentre Venere continua a mostrarsi al meglio sempre più a lungo, nelle vesti di Vespero la stella della sera.

➜ Ricordiamo l’articolo del numero scorso dedicato a Venere: Vespero, stella della sera, a Lucifero, stella del mattino, di Giorgia Hofer.

Marte, lentamente migliora la sua visibilità mostrandosi già verso le quattro per tutto il mattino. Segnaliamo in particolare il transito del pianeta in una zona ricca di oggetti deep sky: dal 16 al 21 febbraio passerà tra M 20 (la Trifida) e M 8, la bella nebulosa LagunaGiove lo rincorrerà, sempre nel cie4lo del mattino, ma ancora ben lontano dai suoi giorni migliori, seguito da Saturno ma solo a fine mese.

Maggiori dettagli e informazioni anche sui più distanti Urano e Nettuno, non visibili a occhio nudo, su pianeti nani e asteroidi, li trovate nel Cielo di Febbraio all’interno del nuovo numero.

Sottili falci di Luna e luce cinerea

l’ultimo falcetto di Luna calante prima del Novilunio e Giove di Anna Maria Catalano e Franco Traviglia
Per quanto riguarda le sottili falci di Luna l’appuntamento è al mattino tra il 19 e il 21 febbraio, e la sera, dopo il Novilunio, il 25 e il 26.

Per maggiori dettagli su orari e formazioni lunari da osservare con l’aiuto di uno strumento consiltare la sezione dedicata a cura di Francesco Badalotti.

Astrofotografia – Andiamo a caccia delle sottilissime falci lunari
Continua l’esplorazione delle formazioni lunari nella Luna di febbraio
Riprendiamo la Luce Cinerea della Luna

E ancora su Coelum astronomia 241

➜ La Luna di Febbraio 2020
e una guida per l’osservazione dell’altipiano meridionale (II parte)

➜ Leggi le indicazioni di Giuseppe Petricca sui principali passaggi della ISS

➜ Comete. A quando una nuova cometa?

➜ Ricerca di Supernovae: un’interessante scoperta italiana

e il Calendario di tutti gli eventi di febbraio 2020, giorno per giorno!

Hai compiuto un’osservazione? Condividi le tue impressioni, mandaci i tuoi report osservativi o un breve commento sui fenomeni osservati: puoi scriverci a segreteria@coelum.com. E se hai scattato qualche fotografia agli eventi segnalati, carica le tue foto in PhotoCoelum!

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Apre gli occhi il telescopio solare più grande

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Uno scorcio della montatura del DKI Solar Telescope in cui si può vedere (sulla dx) il sistema di raffreddamento posto prima dello specchio secondario. Crediti: Nso/Aura/Nsf
Credit: NSO/AURA/NSF. This is licensed under Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0).

È un periodo d’oro per la fisica solare. Dopo i primi risultati scientifici della sonda Nasa Parker Solar Probe e l’imminente lancio del satellite europeo Solar Orbiter – attualmente previsto per l’8 febbraio – ha ora aperto gli occhi sulla nostra stella il più grande telescopio solare terrestre.

Il Daniel Ken Inouye Solar Telescope (Dkist), collocato a oltre 3000 metri di quota in cima al vulcano Haleakala a Maui, nelle isole Hawaii. Crediti: Nso/Aura/Nsf

Il National Solar Observatory (Nso) statunitense ha infatti diffuso le primissime immagini ottenute con il nuovo Daniel Ken Inouye Solar Telescope (Dkist), collocato a oltre 3000 metri di quota in cima al vulcano Haleakala a Maui, nelle isole Hawaii, ed equipaggiato di uno specchio primario da 4 metri di diametro, con un’area di raccolta sette volte maggiore rispetto ai più grandi telescopi solare esistenti, dotati di specchi da circa un metro e mezzo.

Le prime immagini prodotte dall’Inouye Solar Telescope mostrano la superficie solare in incredibile dettaglio, a una risoluzione mai raggiunta prima. Le osservazioni rivelano un complesso motivo disegnato dal plasma “in ebollizione” che ricopre l’intera fotosfera. Le componenti elementari di questo schema ripetuto sono celle convettive, ciascuna di dimensioni di circa 1000 km, prodotte dai violenti moti di plasma che trasportano energia dall’interno del Sole alla sua superficie. Il plasma caldo sale al centro di queste celle, chiamate granuli, raffreddandosi ed espandendosi durante la risalita, per poi ridiscendere verso l’interno in “corridoi” di plasma più freddi posizionati al bordo dei granuli, dove appaiono meno luminosi a causa della temperatura più bassa.

L’Inouye Solar Telescope ha prodotto l’immagine a più alta risoluzione della superficie del Sole mai ottenuta. In questa foto, ripresa a 789 nm, si possono distinguere vedere per la prima volta dettagli di 30 km di dimensioni. L’immagine copre un’area quadrata di 36500 km di lato. Crediti: Nso/Aura/Nsf

«Fin dal primo momento in cui la National Science Foundation (Nsf) ha cominciato a lavorare a questo telescopio, abbiamo atteso queste immagini e questi video con grande trepidazione», commenta France Córdova, direttrice della Nsf, l’agenzia di ricerca statunitense che ha finanziato il progetto. «Ora siamo finalmente in grado di poterle condividere e rappresentano le osservazioni più dettagliate mai ottenute finora. L’Inouye Solar Telescope ci fornirà mappe del campo magnetico nella corona, la parte dell’atmosfera solare dove si sviluppano le esplosioni che possono avere ripercussioni sulla Terra. Questo telescopio migliorerà la nostra comprensione delle cause dello space weather e ci permetterà di fare previsioni più accurate delle possibili tempeste solari».

L’attività solare è infatti responsabile del cosiddetto space weather (“meteorologia spaziale”), ovvero variazioni delle condizioni dello spazio interplanetario che possono avere ripercussioni sul sistema Terra. Oltre alla radiazione, il Sole emette costantemente anche un flusso di materia, chiamato vento solare, che si propaga verso gli estremi del nostro sistema planetario. Di fatto, la Terra e i suoi abitanti vivono immersi nell’atmosfera di una stella; tuttavia, molti meccanismi fondamentali operanti nell’atmosfera solare rimangono ancora oscuri.

«Ci manca ancora una buona comprensione della fisica sottostante al meteo spaziale, governato dal Sole e che sarà oggetto di studio dell’Inouye Solar Telescope per i prossimi decenni», conferma Matt Mountain, presidente di Aura (Association of Universities for Research in Astronomy), l’ente che gestisce l’Inouye Solar Telescope. «In questo campo le nostre previsioni sono a livello di quelle per il meteo terrestre di 50 anni fa, o anche prima».

Sulla superficie del Sole i campi magnetici vengono continuamente spinti e aggrovigliati dai moti del plasma. Riuscire a descrivere in dettaglio la complessa topologia magnetica che ne risulta è una parte importante delle caratteristiche che rendono l’Inouye Solar Telescope uno telescopio davvero unico.

La porzione di superficie solare ripresa dal nuovo telescopio contestualizzata in un immagine del Sole a tutto campo. Viene mostrato come i granuli siano di dimensioni paragonabili allo stato del Texas. Crediti: Nso/Aura/Nsf.

«Tutto ruota intorno al campo magnetico», spiega Thomas Rimmele, direttore dell’Inouye Solar Telescope. «Per decifrare i meccanismi che stanno alla base di molti fenomeni solari ancora non compresi, non solo dobbiamo essere in grado di distinguere chiaramente queste strutture dalla distanza della Terra, 150 milioni di km, ma dobbiamo anche riuscire a misurare l’intensità e direzione del loro campo magnetico, nonché tracciarne comportamento ed evoluzione dalla superficie fino alla parte esterna dell’atmosfera, chiamata corona, uno strato molto rarefatto, ma dove le temperature raggiungono il milione di gradi».

Il progetto

Per riuscire a soddisfare i requisiti scientifici, il telescopio possiede molte caratteristiche innovative. Costruito da Nsf/Nso e gestito da Aura, l’Inouye Solar Telescope combina, come si è detto, uno specchio primario da 4 metri con condizioni uniche di trasparenza e stabilità del cielo, indispensabili anche osservando di giorno anziché di notte.

Uno scorcio della montatura del DKI Solar Telescope in cui si può vedere (sulla dx) il sistema di raffreddamento posto prima dello specchio secondario. Crediti: Nso/Aura/Nsf

La luce solare focalizzata nel fuoco primario del telescopio ammonta a ben 13 kilowatt; questo genera una quantità enorme di calore, che deve essere disperso o assorbito da elementi appositi per non compromettere il telescopio stesso e la qualità degli elementi ottici a valle dello specchio, che a loro volta determinano la qualità delle immagini prodotte. Un sistema di raffreddamento estremamente complesso assolve a questo compito, con oltre 10 km di tubature che fanno circolare un liquido raffreddante attraverso tutta la struttura; il liquido stesso viene raffreddato continuamente tramite ghiaccio che viene prodotto in loco durante la notte.

La cupola che racchiude il telescopio è ricoperta di sottili piastre isolanti, che stabilizzano la temperatura intorno al telescopio stesso, coadiuvate da “persiane” nella cupola stessa, che forniscono ombra e aiutano la circolazione dell’aria. Il cosiddetto heat-stop (“blocca calore”), una sorta di ciambella metallica high-techassorbe la gran parte dell’energia solare concentrata nel fuoco primario del telescopio, lasciando passare solo una piccola porzione dell’immagine del disco solare, che viene poi trasmessa alle ottiche successive e finalmente raccolta dagli strumenti scientifici.

Uno schema del Dkist. Crediti: Nso/Aura/Nsf

Il telescopio usa un sistema di ottica adattiva, il più avanzato mai realizzato per osservazioni solari, che permette di compensare gran parte dell’effetto di sfocatura introdotto dall’atmosfera terrestre. Inoltre, il disegno ottico “fuori-asse” del telescopio permette di minimizzare la luce diffusa dal sistema ottico, una caratteristica estremamente importante per poter osservare da Terra la corona solare, che nell’intervallo di luce visibile e vicino infrarosso risulta estremamente debole, circa 10mila volte più tenue della luce del disco.

«L’Inouye Solar Telescope ci fornirà informazioni sulla struttura dell’atmosfera solare e dei processi magnetici che la plasmano», commenta Valentin Pillet, direttore del National Solar Observatory. «Questi stessi processi si propagano nell’intero sistema solare, e le sonde Parker Solar Probe e Solar Orbiter ne misureranno gli effetti in loco, a diverse distanze dal Sole. Prese nel loro insieme, queste osservazioni ci forniranno una chiave di interpretazione per capire come le stelle e i loro pianeti siano connessi magneticamente, un esempio fantastico di astronomia “multi-messaggera”».

«Queste prime immagini sono solo l’inizio», conclude David Boboltz, direttore della divisione di scienze astronomiche dell’Nsf, che ha supervisionato la costruzione del telescopio e il progetto per il suo utilizzo futuro. «Durante i prossimi 6 mesi, il team di scienziati, ingegneri, tecnici dell’Inouye Solar Telescope continuerà il programma di test e collaudo del telescopio e dei suoi strumenti in modo da prepararlo per l’uso da parte della comunità scientifica internazionale. L’Inouye Solar Telescope raccoglierà più dati del Sole durante i suoi primi 5 anni di operazione di tutto quanto raccolto finora, a partire da quando, nel 1612, Galileo per primo puntò il suo telescopio verso il Sole».


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Occhi sulla Luna

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Venerdì 31 gennaio tutti a Roma Tre con gli Occhi sulla Luna!

Dalle 18:00 fino a mezzanotte sarà possibile per tutti osservare la Luna ai telescopi del Dipartimento. Durante la serata ampio spazio sarà dedicato al nostro satellite naturale, attraverso diverse attività.

La partecipazione è gratuita e non è necessaria alcuna prenotazione: si potrà partecipare alle conferenze, agli spettacoli e ai laboratori fino ad esaurimento posti presentandosi all’arrivo in accoglienza. Le altre attività sono disponibili a ciclo continuo e garantiscono quindi la partecipazione di tutti.


Qui per consultare il programma completo

30 gennaio. Addio al telescopio spaziale Spitzer

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Spitzer, uno dei quattro Grandi Osservatori spaziali della NASA, ha studiato il cosmo in luce infrarossa, fornendo immagini mozzafiato che hanno rivelato la bellezza dell’Universo infrarosso. Lanciato il 25 agosto del 2003 è ora arrivato alla fine della sua carriera, e il 30 gennaio verrà definitivamente dismesso.

La NASA per l’occasione il 22 dicembre ha trasmesso una serie di interventi per ricordare il suo stupendo lavoro e per mettere in luce tutti i principali risultati ottenuti grazie ai suoi dati.

Come dicono alla NASA, è stato costruito per osservare “il freddo, l’antico e il polveroso”.
L’osservazione nell’infrarosso permette infatti di osservare quegli oggetti che non emettono luce a sufficienza ma calore sufficiente, anche se più freddi di stelle e gas caldi, come la nane brune, asteroidi e comete, ma anche il freddo mezzo interstellare. Ma ha anche dato un importante contributo nello studio delle atmosfere esoplanetarie e quindi nella caratterizzazione degli esopianeti. Sono infatti suoi alcuni dei primi studi in questa direzione e gli hanno permesso, tra gli altri, di scoprire cinque dei sette pianeti di dimensioni terrestri attorno alla stella TRAPPIST-1 – la più numerosa corte di pianeti mai scoperta attorno a una singola stella.

La stella gigante Zeta Ophiuchi e il suo bow shock visti da Spitzer. Visibile solo negli infrarossi, il bow shock viene creato dal vento stellare che modella i gas e le polveri che circondano la stella. 370 anni luce da noi, Zeta Ophiuchi è sei volte più calda del nostro Sole, otto volte più grande, ma molto più densa. Ha una massa 20 volte superiore e una luminosità 80 mila volte quella del Sole! Se non fosse oscurata dalle polveri che la circondano sarebbe nettamente la stella più luminosa del nostro cielo. Crediti: NASA/JPL-Caltech

Permette poi di penetrare quella cortina di polveri che oscura la vista di altri telescopi, principalmente nel visibile, consentendo di entrare nel cuore delle regioni di formazione stellare, per studiare come stelle e pianeti si formano, così come aprire una finestra su tutti quegli oggetti che si nascondo dietro le spesse nubi di polveri delle nebulose. Ma questo permette anche di osservare con maggior dettaglio più lontano nello spazio e quindi nel tempo.

Ma come si decide la fine di una missione di un telescopio così prolifico? In questo caso il problema è la sua energia e il tipo di cammino che sta seguendo.
Il vantaggio di Spitzer è stato la particolarità della sua orbita, ma la stessa particolarità ne sta dettando la fine. Il telescopio ha seguito infatti la Terra lungo la sua orbita attorno al Sole, ma muovendosi più lentamente e allontanandosi pian piano dal sistema Terra Luna, perché la radiazione infrarossa emessa dal nostro sistema non interferisse nelle sue osservazioni.

Spizter ha quindi sempre più migliorato il suo punto di vista, ma ha dovuto utilizzare i suoi pannelli solari e la sua energia dividendola tra la ricarica delle batterie, le comunicazioni a Terra e il mantenimento di un temperatura di lavoro per la strumentazione. Se inizialmente questa gestione non ha pesato sulle osservazioni, man mano che si allontanava si è trovato a doversi “girare” sempre più per comunicare con la Terra, esponendo per minor tempo i pannelli solari al Sole e per maggior tempo la strumentazione al Sole, richiedendo maggiore energia per il raffreddamento e stressando le batterie che, quando finalmente riuscivano a caricarsi si scaldavano, interferendo con le misurazioni del telescopio, che devono quindi attendere. Più in là si va nel tempo e più ci vuole perché la strumentazione raggiunga la giusta temperatura di lavoro.

Arriverà il momento in cui consumerà le sue energie per trasmettere i dati a Terra, senza riuscire poi a ricominciare il ciclo di ricarica, raffreddamento e osservazione. Per non parlare del fatto che, ad un certo punto, si troverà dall’altra parte del Sole, rispetto alla Terra, per un lunghissimo tempo, senza poter quindi comunicare.

A 16 anni dal lancio si trova a un terzo di orbita dietro alla Terra ma riesce ancora a comunicare.

Avrebbe dovuto interrompere la sua missione (già estesa più di una volta) nel 2018, quando il James Webb Telescope avrebbe dovuto prenderne il posto, ma visti i continui ritardi per la messa in opera di quest’ultimo, è stata ulteriormente estesa fino ad ora. Gli ingegneri hanno deciso però che non è il caso di andare oltre, il 30 gennaio invieranno gli ultimi comandi e la missione di Spitzer si concluderà.

Grazie di Tutto!

Sul sito della missione, 16 tra le sue più belle immagini


Un viaggio alla scoperta dei segreti del SOLE

50 anni di fisica solare e il nuovo Solar Orbiter europeo

Coelum Astronomia di Febbraio 2020
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“MarSEC” Marana space explorer center

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Osservatorio e Planetario di Marana, Via Pasquali Marana, 36070 Marana di Crespadoro (VI).
Ogni ultimo venerdì del mese avremo un ospite per varie conferenze.

31.01, ore 21.00: Conferenza “I colori delle stelle” di Paolo Ochner che potete seguire in streaming, sulla nostra pagina Fb e sul nostro canale YouTube,.

Info: www.marsec.org – segreteria@marsec.org

Accademia delle Stelle

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2020-01 Coelum AdS

Corsi di Astronomia a Roma
Il 2020 si apre con due corsi della nostra Scuola di Astronomia, uno il lunedì, l’altro il giovedì, che dureranno fin dopo la metà di marzo presso la nostra sede all’EUR, di fronte alla metro Laurentina.

Da lunedì 20 gennaio: Corso Base di Astronomia Generale
Un meraviglioso viaggio alla scoperta dell’Universo e di tutti gli oggetti incredibili che lo popolano. Pulsar, quasar, buchi neri… Un corso completo delle fasi lunari al Big Bang

Da giovedì 30 gennaio: Corso completo di Astrofotografia
Lezioni teoriche e pratiche per imparare e sperimentare tutte le competenze che servono per fare spettacolari fotografie del cielo con qualsiasi strumento, dalla semplice reflex al telescopio ed elaborarle.

Info:
https://www.facebook.com/accademia.dellestelle
https://www.accademiadellestelle.org

Su Marte e sulla Luna case fatte di funghi?

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Nell'immagine micelio, la parte nascosta dei funghi, che cresce su terreno simile alla regolite marziana. Credit: NASA/Ames Research Center/Lynn Rothschild

No, non stiamo parlando di casette fatte per gnomi o fatine, come in una favola fantasy, ma parliamo di vere e proprie case per ospitare esseri umani, al di fuori della Terra. Una realtà più sostenibile e “verde” di quanto previsto invece da un’altra forma di narrativa, la fantascienza, che immagina spesso il mondo ipertecnologico del futuro, fatto per lo più di metallo e vetro. La NASA sta infatti sperimentando tecnologie che riescano ad utilizzare strutture a base di… funghi! Una risorsa che potrebbe anche risolvere problemi di sostenibilità e rispetto per l’ambiente qui sulla Terra.

Questo progetto di “mico” architettura, condotto all’interno del NASA Innovative Advanced Concepts, è ancora nella prima fase, del tutto ipotetica, ma già i primi studi promettono bene. Si tratta di provare a “far crescere” gli habitat destinati alle colonie umane, sulla Luna o su Marte, utilizzando proprio i funghi o meglio, in particolare, la parte principale del fungo: sottili e lunghi fili sotterranei chiamata micelio.

«Al momento i tradizionali progetti di habitat per Marte somigliano a una tartaruga, ci portiamo cioè dietro quelle che saranno le nostre case, un piano affidabile ma dall’alto costo energetico. Invece, potremmo sfruttare i miceli per coltivarci gli habitat da soli una volta arrivati a destinazione» spiega Lynn Rothschild, PI in questa prima parte del progetto.

Uno sgabello fatto di micelio cresciuto nell'arco di due settimane. Una volta cotto diventa un oggetto di arredamento pulito e funzionale. Crediti: 2018 Stanford-Brown-RISD iGEM Team

In definitiva, gli esploratori umani, potrebbero essere in grado di portarsi dietro in forma compatta pacchetti di funghi “dormienti”, con il vantaggio di poter restare in quello stato molto a lungo, ad esempio per la durata di un viaggio fino a Marte e oltre, per essere poi rivitalizzati e fatti crescere una volta arrivati, per fornire materiale utilizzabile per la costruzione.

Un fungo sappiamo che è in realtà un gruppo di organismi che producono spore e si nutrono di materiale organico, come i lieviti del pane o della birra, o i funghi che mangiamo in insalata, ma lo sono anche quella poltiglia che cresce se dimentichiamo l’insalata nel frigorifero e quegli organismi che producono antibiotici come la penicillina. Quello che di solito non vediamo dei funghi è proprio il micelio, sottili filamenti che si espandono in strutture spesso molto più ampie del fungo come lo conosciamo.

Questi filamenti, nelle giuste condizioni, possono essere stimolati a crescere per creare delle strutture, da materiali simili alla pelle ad altri simili a mattoni, risultando utili per costruire un habitat. I mattoni di questo tipo resisterebbero agli sforzi di flessione meglio del cementi armato e a quelli di compressione meglio del legno.

Mattoni prodotti utilizzando micelio, scarti di cantiere e trucioli di legno. Crediti: 2018 Stanford-Brown-RISD Team iGEM

Un habitat di questo tipo, per essere sostenibile, non può però limitarsi alla “costruzione” di mattoni e strutture base, ma deve prevedere un vero ecosistema complesso per far vivere e prosperare l’uomo ma anche gli organismi utili alla sua sopravvivenza: insomma, come gli astronauti, anche il micelio ha bisogno di mangiare e respirare.

Ecco allora che entrano in gioco i cianobatteri, un tipo di batteri in grado di utilizzare l’energia solare per trasformare acqua e anidride carbonica in ossigeno e nutrimento per i funghi.

Lynn Rothschild NASA Ames Research Center

Il risultato quindi sarebbe una cupola in tre strati: uno strato di acqua ghiacciata, magari presa in loco (vedi anche l’articolo Dai sassi che rotolano alla colonizzazione della Luna pubblicato sul numero 239 di Coelum Astronomia), che aiuta a proteggere dalle radiazioni che penetrano fino al secondo strato, dove si trovano i cianobatteri. Questi prendono l’acqua e la luce solare che filtra dallo strato esterno, producendo ossigeno per gli astronauti e sostanze nutritive per l’ultimo strato più interno di micelio, che crescendo fornisce materiale che viene poi cotto per essere utilizzato per altre costruzioni. La cottura infatti ucciderebbe il fungo, impedendo contaminazione all’esterno, e fornirebbe integrità strutturale al materiale. Un ulteriore precauzione per evitare contaminazioni ambientali potrebbe essere quella di modificare geneticamente il fungo perché non possa sopravvivere in ambiente esterno marziano.

Ma questo sarebbe solo l’inizio… La stessa tecnologia potrebbe essere utilizzata per sistemi di filtrazione dell’acqua e estrarre minerali dalle acqua reflue, nonché per l’illuminazione per bioluminescenza, per la regolazione dell’umidità e, ancora più visionario, per l’autoriparazione di strutture rigeneranti. Tutte cose di cui potremmo beneficiare anche sulla Terra, in un’ottica di maggior sostenibilità.

«Quando progettiamo qualcosa per lo spazio, siamo liberi di sperimentare nuove idee e materiali molto più di quello che possiamo per la Terra. E dopo che questi prototipi sono stati ideati per altri mondi, possiamo riportarli qui», spiega Rothschild.

Vivere in ambienti ostili come Marte e la Luna richiede nuovi modi di vivere: far crescere le case invece di costruirle, estrarre minerali dagli scarti anziché dalla roccia. Tornando però nel nostro mondo natale, possono essere convertiti in soluzioni ecologiche e sostenibili, e i funghi, che si tratti di mondi alieni o dell’evoluzione del modo di vivere qui sulla Terra, potrebbero svolgere un ruolo importante nel nostro futuro.

Di seguito il video promozionale della ricerca presenta le “mushrooms”, in un gioco di parole tra “mushroom”, che significa fungo, e “room” che significa stanza.


Previsioni.. astronomiche!

Tutti gli eventi del cielo e le missioni spaziali del 2020. Universi al computer: laboratori virtuali per capire le galassie.

Coelum Astronomia di Gennaio 2020
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Due serate con Venere, Nettuno e la Luna

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Se abbiamo tenuto d’occhio il pianeta Venere nel corso dell’intero mese, avremo sicuramente notato il suo rapido avvicinamento al pianeta Nettuno. Se non ci avete fatto caso, però, non c’è da biasimarvi! Se è facile, infatti, vedere il brillante secondo pianeta del Sistema Solare (mag. –4,1), non si può dire di certo la stessa cosa per il remoto gigante ghiacciato (mag. +7,8). Però il grande pianeta è proprio lì, tra le stelle dell’Acquario, incontro a cui Venere sta viaggiando rapidamente, come dicevamo (si tratta ovviamente di un effetto prospettico).

Tale avvicinamento culminerà proprio il giorno 27, quando il brillante Venere si troverà in una congiunzione davvero stretta con Nettuno, ad appena 6’ di distanza. Il minimo avvicinamento è previsto per le 19:00. Necessariamente avremo bisogno di uno strumento ottico per osservare questo incontro: con un binocolo sarà ancora difficile scorgere i due pianeti, meglio usare un telescopio per spingere un po’ con gli ingrandimenti.

In fotografia invece dovremo stare attenti al bagliore di Venere che tenderà a inghiottire il più debole Nettuno. A circa mezzo grado di distanza dalla coppia Venere-Nettuno, a est-nordest, ci sarà anche la stella fi Aquarii (mag. +4,2).

Il giorno seguente, il 28 gennaio, Venere avrà sorpassato sia Nettuno che fi Acquarii ma, osservando questo angolino di cielo un po’ più ad ampio raggio, potremo notare la presenza di una bella falce di Luna (fase del 13%), posizionata a 4° 48′ a est di Venere.

Venere illumina sempre più le nostre serate e a lui è dedicata la rubrica di astrofotografia di Giorgia Hofer

➜ Venere nel 2020: Vespero vs Lucifero!

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➜ La Luna di Gennaio 2020
e una guida per l’osservazione dell’altipiano meridionale

➜ Leggi le indicazioni di Giuseppe Petricca sui principali passaggi della ISS

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La sfida: una sottilissima falce di Luna e Giove che riappare nel cielo del mattino

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La mattina del 23 gennaio, alle ore 7:00 circa, una vera e propria sfida: guardando verso sudest noteremo, molto bassi sull’orizzonte, il pianeta Giove (mag. –1,9) e una sottilissima falce di Luna (fase del 2,7%), a circa 2° 30’ a sudest del pianeta.

Questo incontro, che avverrà tra le stelle del Sagittario, anche se sicuramente affascinante (e un ottimo target per i cacciatori di sottili falci lunari), sarà però un po’ difficile da osservare per via del cielo già molto chiaro, essendo ormai prossimo il sorgere del Sole, e la necessità di un orizzonte libero.

Varrà comunque la pena di concedere uno sguardo a questo angolino di cielo per dare il bentornato a Giove nel cielo del mattino e per vivacizzare il lunedì.

Le effemeridi di Luna e Pianeti le trovi nel Cielo di Gennaio 2020 su coelum.com



E’ anche il momento però di sfogliare il numero di gennaio, come sempre gratuito, e prepararsi alla congiunzione del mese: l’appuntamento è per il 28 gennaio per una congiunzione Luna, Venere e… Nettuno! Venere illumina sempre più le nostre serate e a lui è dedicata la rubrica di astrofotografia di Giorgia Hofer

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Dinosauri, l’unico killer è l’asteroide

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Rappresentazione artistica di un T. Rex che assiste impotente e inconsapevole alla fine del suo mondo. Crediti: Nasa
Rappresentazione artistica di un T. Rex che assiste impotente e inconsapevole alla fine del suo mondo. Crediti: Nasa

Se c’è un’estinzione di massa che è nota a tutti – adulti e bambini – è senz’altro quella dei dinosauri, avvenuta circa 66 milioni di anni fa. Per la verità non furono solo i dinosauri a scomparire dalla scena, ma circa il 75 per cento delle specie viventi all’epoca. Questo evento è tecnicamente noto come estinzione del Cretaceo-Paleocene (o evento K/Pg). Fu proprio grazie a questo impatto che i mammiferi iniziarono la loro ascesa, occupando le nicchie ecologiche che si erano improvvisamente liberate.

La svolta per capire la causa di questa estinzione di massa si ebbe nel 1980, in seguito alle analisi effettuate dal fisico e premio Nobel Luis Walter Alvarez su antichi sedimenti marini – databili fra 185 e 30 milioni di anni fa – affioranti nell’Appennino umbro (nei dintorni di Gubbio). Alvarez e colleghi scoprirono, infatti, la presenza di uno strato di argilla scura (databile a circa 66 milioni di anni fa), dello spessore di circa 1 cm, con una concentrazione molto elevata di iridio (circa 30 volte superiore al normale). L’iridio è un metallo siderofilo e nella crosta terrestre è rarissimo perché sprofondato, insieme al ferro, nel nucleo del nostro pianeta durante la fase di differenziazione gravitazionale. Al contrario, l’iridio è molto abbondante nelle meteoriti (e quindi negli asteroidi di cui le meteoriti sono i frammenti), dove è presente in misura mille volte superiore rispetto alla crosta terrestre. Da qui la formulazione della teoria sulla caduta di un asteroide di circa 10 km di diametro come responsabile dell’estinzione dei dinosauri: l’evento, alterando il clima terrestre, avrebbe portato all’estinzione dei meno adatti a sopravvivere. La successiva scoperta del cratere di Chicxulub – una struttura da impatto di circa 200 km di diametro, parzialmente sepolta al di sotto della penisola dello Yucatan, nel golfo del Messico – fu un’ulteriore prova a sostegno della teoria di Alvarez.

Pur essendo le prove della caduta di un asteroide incontestabili, si riteneva che l’estinzione di massa fosse stata coadiuvata anche da un periodo molto intenso di eruzioni vulcaniche, della durata di circa 30mila anni, che immisero nell’atmosfera un’enorme quantità di ceneri e gas vulcanici (fra cui il biossido di zolfo e il biossido di carbonio), contribuendo così al rapido cambiamento climatico. Quale paleovulcano potrebbe avere alterato il clima così profondamente a livello globale? La risposta è: i Trappi del Deccan, una serie di imponenti colate stratificate fatte di basalto che si trovano nell’Altopiano del Deccan, nell’India occidentale. Si tratta di una delle regioni vulcaniche più estese della Terra, con un’età di circa 66 milioni di anni, coincidente quindi con quella dell’estinzione di massa.

Ma i due eventi – asteroide ed eruzione – sono stati realmente coincidenti? E l’eruzione vulcanica ha avuto un ruolo nell’estinzione di massa? Ha cercato di fare chiarezza il geologo Pincelli Hull, della Yale University, in un articolo pubblicato venerdì scorso su Science. Come già detto, il problema è la risoluzione temporale degli eventi: se è troppo grossolana, è impossibile dire se l’eruzione abbia rafforzato gli effetti della caduta dell’asteroide o meno. Hull e colleghi si sono concentrati sull’emissione dei gas vulcanici, in particolare dell’anidride carbonica, che – essendo un gas serra – deve avere provocato un aumento di temperatura in coincidenza con l’eruzione. Come “termometro” il team ha prelevato carote di sedimenti marini oceanici, e ha analizzato prevalentemente le variazioni del rapporto O18/O16 (ossia il rapporto fra gli isotopi 16 e 18 dell’ossigeno), presente nei foraminiferi e nei molluschi fossili.

Le variazioni di temperatura globali al limite K/Pg determinate con foraminiferi e molluschi fossili (Crediti: Hull et al., Science 367, 266-272, 2020)

In natura l’ossigeno è presente in due isotopi: O16 e lO18, appunto, con il primo che costituisce il 99 per cento degli atomi. Quando nella molecola di acqua si trova l’O16, essendo più leggera di quelle che contengono l’O18, evapora più facilmente. Se il periodo è caldo, l’acqua leggera compie il suo normale ciclo di evaporazione – condensazione – pioggia e ritorna al mare, quindi il rapporto O16/O18 resta invariato. Nei periodi freddi, invece, l’acqua che evapora viene intrappolata nelle calotte polari, quindi in mare aumenta la frazione di acqua che contiene l’O18. Di conseguenza, nei periodi di temperatura più bassa si trova una maggiore quantità di acqua con l’O18 che i foraminiferi utilizzano per costruire il loro guscio di calcare che si ritrova nei fossili. Da qui la correlazione fra il rapporto O18/O16 e la temperatura dell’acqua dell’oceano. Esaminando le variazioni di O18/O16 (e anche quelle degli isotopi del carbonio C13/C12), i ricercatori hanno scoperto che c’è stato un evento di aumento della temperatura attorno ai 2 °C circa 200mila anni prima dell’evento K/Pg. Dopo un calo di temperatura in coincidenza con lo strato K/Pg, c’è stata una crescita della temperatura che ha superato 1 °C circa 600mila anni dopo l’estinzione dei dinosauri (vedi il grafico qui sopra).

Tenendo presenti questi dati sull’andamento delle variazioni di temperatura, Hull e colleghi hanno cercato di stabilire la cronologia dell’emissione di anidride carbonica dai Trappi del Deccan. A questo scopo hanno usato un modello climatico globale e cinque diversi scenari per l’emissione dei gas vulcanici, per valutare quale scenario permettesse di ricostruire al meglio le variazioni osservate di temperatura. Dei cinque scenari considerati, solo due – eruzione prima dell’impatto, oppure eruzione in corso durante l’impatto – hanno superato questo test. Quindi, in ogni caso, la maggior parte – o almeno il 50 per cento – dei gas prodotti dai Trappi del Deccan sono stati emessi in atmosfera molto prima della caduta dell’asteroide, e non da 10mila a 60mila anni prima come si riteneva in precedenza. Chiaramente non si è verificata nessuna estinzione di massa in conseguenza dell’eruzione, altrimenti ce ne sarebbe traccia nei fossili. Di conseguenza, concludono gli autori dello studio, la caduta dell’asteroide è stata l’unica causa dell’estinzione K/Pg. Al confronto, l’eruzione dei Trappi del Deccan è stato solo un piacevole diversivo.

Per saperne di più:


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