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Una stella davvero antica

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Una stella davvero antica
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Una stella davvero antica
Una stella davvero antica
Per determinare quanto vecchia possa essere una stella, gli astronomi cercano di risalire alla sua composizione chimica. Il loro obiettivo è valutare quale sia l’abbondanza dei metalli, cioè gli elementi chimici più pesanti di idrogeno ed elio. Poichè tale abbondanza rispecchia la disponibilità di questi elementi chimici al momento della formazione della stella, più una stella è antica e più risulterà povera di metalli.

Andare a caccia di stelle così vecchie, però, non è impresa facile. Anna Frebel (Harvard-Smithsonian CfA) e i suoi collaboratori, convinti che i metodi finora impiegati non fossero completamente affidabili, hanno provato a seguire una strada differente. Anzichè osservare una stella per volta, hanno ideato un sistema che permettesse loro di stimare in un unico colpo le abbondanze metalliche di un gran numero di stelle. Hanno poi rivolto la loro attenzione alla popolazione stellare della galassia nana dello Scultore, posta a 290 mila anni luce di distanza. All’origine della scelta il fatto che, essendo le galassie nane i blocchi elementari dai quali si sono formate quelle più grandi, è altamente probabile che contengano anche la popolazione stellare più antica.

Il nuovo metodo ha dato i suoi frutti: in mezzo alle vecchie stelle di quella galassia, infatti, i ricercatori hanno individuato un astro di gran lunga più vecchio degli altri. Le misure spettroscopiche di una stellina di 18a magnitudine denominata S1020549 effettuate con il telescopio Magellan-Clay a Las Campanas in Cile hanno indicato che si era in presenza di un astro incredibilmente povero di metalli. In S1020549, infatti, l’abbondanza di metalli era cinque volte inferiore a quella rilevata finora nelle stelle di una galassia nana, circa 6000 volte inferiore a quella che si osserva per il Sole.

“E’ probabile che questa stella sia vecchia quasi come lo stesso universo” – ha commentato la Frebel. Forse non è proprio così: S1020549 non può certo appartenere alla prima generazione di stelle, ma le probabilità che appartenga a quella immediatamente successiva sono davvero molto elevate.

La magnetar non si svela

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La magnetar non si svela
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La magnetar non si svela
La magnetar non si svela
Entrato ufficialmente in servizio nel luglio scorso, il Gran Telescopio CANARIAS detiene il record del più grande telescopio ottico al mondo (10,4 metri di diametro). La sua sensibilità eccezionale ne fa lo strumento ideale per osservare gli oggetti più elusivi, tra i quali figurano a pieno titolo le magnetar.

Con questo termine (sostanzialmente “stelle magnetiche”) vengono indicate rarissime stelle di neutroni caratterizzate da un campo magnetico eccezionalmente intenso. Nella nostra galassia ne conosciamo sei e si presume ve ne possa essere al massimo una ventina. La loro individuazione è dovuta a spaventosi sussulti che ne squarciano la crosta più esterna quando il campo magnetico si riconfigura. In tale occasione la magnetar emette incredibili energie soprattutto nel dominio X e gamma.

Lo scorso giugno i due osservatori spaziali Swift e Fermi hanno rilevato un’intensa emissione proveniente dalla magnetar SGR 0418+5729, una ghiotta occasione per osservarne l’emissione anche nell’ottico e carpirne qualche segreto. Occasione che Paolo Esposito (IASF-INAF di Milano) e il suo team internazionale non si sono lasciati sfuggire. La campagna osservativa ha tenuto sotto controllo un’ampia gamma di lunghezze d’onda e si è protratta per 160 giorni. Nonostante l’impiego del telescopio più grande al mondo e del suo fantastico spettrografo OSIRIS (Optical System for Imaging and low-Intermediate-Resolution Integrated Spectroscopy), però, la radiazione luminosa di SGR 0418+5729 è risultata troppo debole per essere registrata.

Un apparente buco nell’acqua, dunque. Ma la cosa non ha affatto scoraggiato Esposito: “Anche il fatto di non aver osservato nell’ottico questo oggetto – ha commentato – è per noi fonte di preziose informazioni su di esso”. Queste indagini, le più approfondite mai ottenute finora per una simile sorgente, possono infatti fornire agli astronomi preziose e stringenti informazioni sui limiti delle caratteristiche fisiche di questa elusiva classe di corpi celesti.

L’Enterprise tornerà a volare

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L'Enterprise tornerà a volare
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L'Enterprise tornerà a volare
L'Enterprise tornerà a volare
Come saprete tutti, gli Space Shuttle sono alla fine della loro onorata carriera ed una volta eseguito il loro ultimo volo verranno consegnati a dei musei per entrare definitivamente nella storia passata.
Uno degli orbiter, nella fattispecie il Discovery, è già stato assegnato allo Smithsonian di Washington.
Ma in quel museo hanno già la prima navetta che abbia mai volato: l’Enterprise. Anche se ha eseguito solo dei voli atmosferici, è stato il primo veicolo spaziale alato a volare in atmosfera ed atterrare come un aliante.

E alla NASA si sono chiesti: cosa se ne fa lo Smithsonian di due orbiter?
Nulla!
Allora uno dei due lo possiamo assegnare ad un altro museo.
Altro problema: come lo portiamo via di lì?

L’Enterprise è fermo dal 1985, anno in cui è stato consegnato al museo per essere esposto al pubblico e non è detto che sia ancora in grado di sopportare il viaggio in groppa al 747 SCA, quindi è necessario verificare tutti i punti di aggancio e i dispositivi dell’avionica di bordo necessari per il volo di trasferimento. E per far questo sono stati inviati 12 tecnici dal Kennedy Space Center, 12 dei migliori che si occupano da anni della manutenzione alle navette, e li hanno mandati a Washington per controllare Enterprise.
Dopo due settimane di controlli hanno detto che lo Shuttle è in perfetta forma e che 25 anni di fermo non gli hanno assolutamente fatto perdere lo smalto di un tempo.

Non è ancora stato deciso dove verrà inviato Enterprise, ma ora sappiamo che potrà sicuramente volare ancora una volta.

Nella Foto: il battesimo del primo Shuttle, l’Enteprise, quando era presente quasi tutto l’equipaggio della USS-Enterprise NCC-1701, cioè quella di Star Trek.
Fonte: NASA.

Grandi stelle e campi magnetici

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Grandi stelle e campi magnetici
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Grandi stelle e campi magnetici
Grandi stelle e campi magnetici
Da tempo gli astronomi sanno che i campi magnetici sono fondamentali nella formazione delle stelle di piccola massa come il nostro Sole. Il sospetto era che questa azione così importante fosse presente anche per le stelle più massicce, ma mancava la prova. Grazie alle osservazioni radioastronomiche del team di Wouter Vlemmings (Università di Bonn), però, sembra proprio che ora queste prove siano finalmente arrivate.

Per determinare la struttura tridimensionale del campo magnetico di una grande stella in formazione, i ricercatori hanno utilizzato MERLIN (Multi-Linked Radio Interferometer Network), la rete di sette radiotelescopi distribuiti intorno al Regno Unito controllata dall’Osservatorio di Jodrell Bank. La stella presa di mira da Vlemmings e collaboratori è Cepheus A HW2, una massiccia protostella distante 2300 anni luce appartenente alla regione di formazione stellare Cepheus A. Precedenti osservazioni avevano rivelato la presenza di un disco di gas i cui materiali cadevano verso HW2. Le nuove osservazioni hanno permesso di scoprire che, nonostante questo massiccio trasferimento di materia, il campo magnetico è sorprendentemente regolare, chiara indicazione che è proprio il campo magnetico a fare da controllore del processo.

La determinazione della distribuzione del campo magnetico è stata possibile raccogliendo e analizzando la sua azione sull’emissione dei maser al metanolo attivi nella nube intorno alla protostella. Anche in presenza di campi magnetici molto intensi la traccia lasciata nell’emissione maser è davvero debole e solo l’impiego dell’interferometria con MERLIN ha reso possibile la corretta identificazione.
“Grazie alle nuove tecniche impiegate – ha sottolineato Huib Jan van Langevelde, coautore dello studio e direttore del JIVE (Joint Institute for Very Long Baseline Interferometry in Europe) – è stato possibile per la prima volta misurare il campo magnetico attorno a una protostella di grande massa. E abbiamo potuto vedere come la sua struttura sia sorprendentemente simile a quella presente nella formazione delle stelle più piccole.”

Per ulteriori conferme sono già state proposte altre campagne osservative rivolte a protostelle di grande massa in diversi stadi della loro formazione. Queste nuove osservazioni, tra l’altro, potranno contare sulle aumentate potenzialità della rete di radiotelescopi (MERLIN diventerà e-MERLIN), in grado di offrire una sensibilità dieci volte superiore.

Phobos da vicino

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Phobos da vicino
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Phobos da vicino
Phobos da vicino
La campagna di Phobos è entrata nel vivo. Il piano di volo della Mars Express prevede ben 12 sorvoli del misterioso satellite di Marte e la speranza è quella di venire a capo delle sue incongruenze. A prima vista Phobos sembra un oggetto compatto e massiccio, ma le analisi dei dati raccolti in occasione di precedenti incontri con sonde spaziali indicano che è tutt’altro che compatto.

Secondo i calcoli dei planetologi avrebbe una “porosità” del 25-35%. Si tratterebbe, cioè, di un agglomerato di materiali rocciosi di ogni dimensione nel quale sarebbero però presenti grandi e numerose cavità. Una struttura molto diffusa tra gli asteroidi: gli astronomi la indicano con il termine di “rubble pile”, mucchio di detriti.

L’idea corrente è che Phobos appartenga alla seconda generazione degli oggetti del Sistema solare. Non si sarebbe formato, cioè, dalla nube di polveri originaria che circondava il Sole e dalla quale è nato il suo pianeta, ma sarebbe apparso solo in un secondo tempo. Ancora da chiarire, comunque, la regione della sua formazione. I dati spettrali, infatti, indicherebbero una composizione molto simile a quella degli asteroidi di classe C o D, il che suggerirebbe una sua cattura da parte del Pianeta rosso.

Il sorvolo da parte della Mars Express avvenuto nei primi giorni marzo ha portato la sonda a transitare a soli 67 chilometri dalla superficie di Phobos e i dati raccolti in tale occasione si spera riescano a rispondere alle domande che riguardano sia la formazione di questa misteriosa luna sia la sua struttura interna.

Se la nascita di Phobos è avvolta nel mistero, non così la sua fine. Nel futuro di questo satellite, infatti, vi è un lento ma inesorabile avvicinamento al suo pianeta finchè, disgregato dalle forze mareali di Marte, ritornerà quel nugolo di detriti che fu in origine.

Per lo Shuttle non tutto è perduto

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Per lo Shuttle non tutto è perduto
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Per lo Shuttle non tutto è perduto
Per lo Shuttle non tutto è perduto
Qualcuno aveva affermato l’impossibilità di estendere il Programma Shuttle dato che le linee dei componenti erano ormai definitivamente chiuse. Il Responsabile del Programma ha detto martedì che è “un grande equivoco”, aprendo quindi la porta ad un eventuale estensione dei voli shuttle oltre l’attuale limite di pensionamento, stabilito in settembre 2010.

In effetti la richiesta è partita dal congresso per ottenere un allungamento dell’operatività delle navette, ma il costo corrispondente sarebbe di circa 200 milioni di dollari al mese, equivalenti a 2,4 miliardi all’anno.
Le linee di produzione dei componenti potrebbero ripartire, anche se ci vorrebbero circa due anni da quando si ha la richiesta ufficiale al completamento del primo serbatoio esterno.

Attualmente sono previste ancora 4 missioni Shuttle e i componenti per una quinta sono già disponibili (quelli per un eventuale lancio di soccorso per l’ultima missione) quindi dilatando un po’ i tempi si riuscirebbe a rendere più costante la presenza americana nello spazio: in fondo 5 missioni in due anni non sono un cattivo risultato, sicuramente migliore di nessuna missione in cinque anni…

La chiusura del programma Space Shuttle è stata stabilita dal presidente Bush nel 2004 quando ha dato il via al programma Constellation. Da allora sono cambiate molte cose, l’ultima delle quali è stata la cancellazione del Constellation a causa dei ritardi e della poca innovazione di questo sistema.
La cancellazione voluta da Obama e sancita nel bilancio ufficiale previsto per il 2011, ha però reso evidenti quei problemi di ritardo nello sviluppo di un nuovo trasporto umano verso lo spazio.
Dal canto suo, la presidenza ha dato il via alle aziende private aprendo i finanziamenti per chi decide di sviluppare dei sistemi di trasporto spaziale da offrire poi alla NASA. Questo sprone dovrebbe innescare un sistema virtuoso in cui una sorta di concorrenza spinge diverse aziende a creare il veicolo più sicuro ed economico da proporre all’agenzia spaziale americana. Anche i 9000 esuberi alle attività produttive interne alla NASA stessa, dovrebbero venir assorbiti dalla maggior richiesta proveniente dall’ambito privato.

Teniamo presente che il famoso Budget 2011 previsto, non ha subito nessun taglio, anzi è stato incrementato rispetto a quello dell’anno precedente. Gli investimenti che non fanno più parte dei programmi cancellati saranno reindirizzati sulla ricerca e sviluppo delle tecnologie necessarie per fare in modo che i futuri sistemi di trasporto possano basarsi su reali innovazioni, in grado di portarci nello spazio in modo più veloce, più sicuro e più economico.

Ricapitolando, John Shannon, lo Shuttle Program Manager al Johnson Space Center di Houston dice chiaramente che gli unici problemi sono il riavvio delle catene di produzione dei componenti e la ricertificazione degli Orbiter.
Per il primo problema non c’è nessun grosso impedimento grazie al fatto che i grossi appaltatori del sistema Shuttle sono tutte industrie che non lavorano esclusivamente per la NASA. Per esempio la North Carolina Foam Industries, quella che costruisce il rivestimento in schiuma del serbatoio esterno, è uno dei principali produttori continentali di materiali d’isolamento termico e quindi per loro il contratto con la NASA è una parte trascurabile della loro produzione. E così per molte altre aziende. Per loro si tratterebbe solo di ripristinare delle linee di produzione e nulla più.
Per la ricertificazione delle navette occorre aprire una piccola parentesi che riguarda la richiesta iniziale effettuata dalla commissione d’inchiesta sull’incidente del Columbia. Ufficialmente il CAIB (Columbia Accident Investigation Board) ha richiesto chiaramente che le navette dovevano essere ricertificate se avessero dovuto volare dopo il 2010. Però dal 2005 i cicli di manutenzione applicati agli Shuttle sono giunti a livelli di precisione e scrupolosità da garantirne una ricertificazione continua, infatti molti particolari vengono sostituiti durante ogni intervento che si esegue normalmente fra una missione e l’altra. Ad ogni ciclo di manutenzione vengono aggiunti una media di 23 nuovi punti di ispezione fra i componenti degli Shuttle. Sotto questo aspetto le vecchie navette possono essere paragonate a dei B-52 che sono operativi da oltre 50 anni e rimangono dei veicoli estremamente sicuri.

Vedremo cosa succederà. Per ora queste affermazioni si uniscono alle centinaia che abbiamo già sentito negli ultimi mesi, anche se, pronunciate dal Manager del Programma Shuttle, hanno un certo peso.
E a quanto pare il fatto di restare senza quella sudata supremazia spaziale inizia a dare fastidio a molti Americani!

Intanto ad aprile è previsto un viaggio di Obama in Florida per una conferenza incentrata sul nuovo approccio della sua amministrazione verso i voli spaziali abitati.

Perché le galassie sono meno prolifiche?

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Perché le galassie sono meno prolifiche?
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Perché le galassie sono meno prolifiche?
Perché le galassie sono meno prolifiche?
I dati raccolti osservando le galassie più vicine – dunque in uno stadio evolutivo comparabile a quello della nostra Via Lattea – indicano che la produzione stellare media è di circa 10 masse solari all’anno. Man mano, però, si considerano galassie più lontane – dunque più giovani della nostra – il tasso di produzione stellare risulta molto più elevato. Di questa curiosa situazione, nota da oltre un decennio, non si sapeva proprio rendere ragione. A dire il vero, sul tappeto c’erano ben due convincenti motivazioni, ma proprio non si riusciva a decidere quale delle due fosse quella corretta.

Il dubbio era se il tasso più elevato di produzione stellare nelle giovani galassie dipendesse da una maggiore disponibilità di materiale oppure se, in qualche modo misterioso, l’evoluzione dei sistemi stellari avesse portato con sé una minore efficienza dei meccanismi fisici che governano la formazione stellare.

Per provare a vederci più chiaro, un team internazionale di ricercatori ha utilizzato le informazioni raccolte in precedenti studi – un’indagine riguardante circa 50 mila galassie – per selezionarne un campione che potesse correttamente rappresentare una popolazione media di galassie.

Successivamente hanno puntato su questo campione numerosi telescopi, non limitandosi al solo dominio visibile ma spingendosi anche nell’infrarosso e oltre. Osservare queste galassie nell’infrarosso e analizzare il loro spettro radio, infatti, era l’unico modo per i ricercatori di riuscire a rendere “visibile” la loro componente gassosa, assolutamente invisibile nel dominio ottico.

Lo studio, pubblicato su Nature in febbraio, ha mostrato che le galassie più antiche della Via Lattea potevano contare su una disponibilità di gas superiore a quella attuale della nostra galassia. Secondo i ricercatori, una tipica galassia nel giovane universo poteva contenere una quantità di gas molecolare da tre a dieci volte maggiore di quanto si osserva nelle galassie attuali.

Non c’è bisogno, dunque, di invocare leggi fisiche diverse per la produzione stellare nelle antiche galassie, più semplicemente c’era una maggiore quantità di materia prima alla quale attingere.

Orbital Test Vehicle 1 in Florida

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Orbital Test Vehicle 1 in Florida
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Orbital Test Vehicle 1 in Florida
Orbital Test Vehicle 1 in Florida
L’Orbital Test Vehicle, lo spazioplano delle forze aeree statunitensi ha raggiunto la base di Cape Canaveral a bordo di un aereo cargo.
Inizia ora la preparazione finale per il lancio previsto per il 19 aprile. Lungo nove metri e largo 4,5 verrà inserito nel fairing da 5 metri di diametro ed agganciato al vettore Atlas 5.

Lo sviluppo dell’X-37B (così si chiamava in origine il progetto NASA) è iniziato nel 1999 e nel 2001 alcuni prototipi in scala eseguirono già dei test di collaudo. Ed è qui che si inserisce l’aviazione americana; infatti nel settembre 2004 il progetto si sposta all’Air Force e passa sotto il controllo del DARPA.
E non venne abbandonato. Nel 2007 vennero eseguiti una serie di test di rientro partendo dall’aereo madre della Scaled Composites, il Whithe Knight.

Questa sarà la prima missione di una nuova classe di veicoli, i piccoli spazioplani non abitati e quindi esclusivamente pensati per il trasporto cargo.
Dopo la partenza effettuerà manovre orbitali e al termine porterà le sue cinque tonnellate di peso a planare dolcemente sulla pista della base di Vandenberg.

Nessuna risposta dalla Phoenix Mars Lander

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Nessuna risposta dalla Phoenix Mars Lander
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Nessuna risposta dalla Phoenix Mars Lander
Nessuna risposta dalla Phoenix Mars Lander
Ormai per Phoenix Mars Lander il peggio dovrebbe essere passato. I dati che Mars Odissey sta trasmettendo indicano che la situazione ambientale sta migliorando e i ghiacci superficiali depositatisi nel corso del lungo e rigido inverno marziano stanno lentamente scomparendo. Dovrebbe dunque essere il momento del risveglio per il lander, sempre ammesso che i suoi circuiti abbiano superato indenni l’ardua prova invernale.

Giunto su Marte il 25 maggio 2008, Phoenix si è comportato ottimamente riuscendo a lavorare per quasi due mesi oltre il termine fissato per la sua missione originaria. Il sopraggiungere dell’inverno e la ridotta insolazione, con la conseguente impossibilità di ricaricare correttamente le batterie, hanno poi imposto la cessazione di ogni attività in attesa del ritorno della bella stagione.

Benché Phoenix non sia stato espressamente progettato per resistere alle basse temperature dell’inverno marziano, il suo software prevede comunque che, nel caso in cui il lander riesca a disporre di energia sufficiente, lanci periodicamente un segnale radio. La speranza è che quel segno di risveglio dal letargo possa essere raccolto da un orbiter di passaggio e ritrasmesso a Terra.

Finora, purtroppo, i sorvoli da parte di Mars Odissey della zona in cui ha svernato Phoenix non hanno portato a nessun risultato. Se i 60 sorvoli previsti nelle prime due fasi di questa campagna di ascolto non avranno portato buone notizie bisognerà attendere i primi giorni di aprile. Per quell’epoca il Sole sarà costantemente sopra l’orizzonte e Phoenix, se ancora operativo, non dovrebbe avere più problemi di ricarica delle sue batterie.

Se neppure ad aprile, poi, dal lander non dovesse giungere l’atteso segnale, avremmo purtroppo l’amara conferma che l’inverno marziano è stato per Phoenix una prova al di là delle sue possibilità.

Pio & Bubble Boy – Coelum n.137 – Marzo 2010

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vignetta 137
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vignetta 137

Questa Vignetta è pubblicata su Coelum n.137 – Marzo 2010. Leggi il Sommario.

Le due aurore di Saturno

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Le due aurore di Saturno
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Le due aurore di Saturno
Le due aurore di Saturno
Ogni 15 anni, per effetto della sua orbita intorno al Sole e dell’inclinazione del suo asse, Saturno si presenta alla nostra osservazione con gli anelli praticamente invisibili offrendoci inoltre la possibilità di scorgere entrambe le sue regioni polari. Una situazione rara e scientificamente ricca di opportunità che gli astronomi non si sono lasciata sfuggire.

Utilizzando il telescopio spaziale Hubble, infatti, hanno catturato una sequenza di immagini che hanno permesso loro di confrontare il comportamento dei due poli di Saturno scoprendo caratteristiche finora sconosciute. Tra gennaio e marzo 2009, dunque, Hubble ha raccolto dati importanti sulle caratteristiche aurore polari del pianeta, dati che ci consegnano informazioni cruciali sulla natura del campo magnetico di Saturno e sui meccanismi che accendono questi spettacoli luminosi.

Neppure per il nostro pianeta possiamo per il momento disporre di una simile copertura osservativa e per questo gli astronomi confidano di poter ottenere dall’analisi della situazione di Saturno preziose informazioni valide anche per la Terra.

Benché in prima analisi le aurore polari di Saturno possano sembrare simmetriche, i dati di Hubble hanno indicato sottili differenze tra i due emisferi. L’ovale dell’aurora settentrionale, infatti, è leggermente più piccolo e più intenso di quello meridionale, una asimmetria che indica un campo magnetico planetario non uniforme, più intenso al nord che al sud. Questa differente intensità fa sì che al nord le particelle cariche vengano accelerate a energie più elevate rispetto a quanto avvenga in corrispondenza del polo meridionale.

Quasar binari e incontri di galassie

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Quasar binari e incontri di galassie
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Quasar binari e incontri di galassie
Quasar binari e incontri di galassie
Da tempo gli astronomi erano convinti che i quasar binari, come pure gli altri quasar, fossero un risultato diretto dei fenomeni di fusione tra galassie. Questa convinzione, però, non poteva appoggiarsi su nessuna osservazione concreta: finora, infatti, non era mai stata individuata la presenza di quasar binari in galassie che erano sicuramente coinvolte in processi di merging.

Recenti immagini acquisite dal telescopio Baade-Magellan, in servizio presso l’osservatorio cileno di Las Campanas, hanno però colmato questa lacuna. Le riprese acquisite da John Mulchaey (Carnegie Institution), infatti, hanno dimostrato che i due quasar noti come SDSS J1254+0846 si trovano all’interno di due galassie caratterizzate da due “code” allungate, chiaro risultato della reciproca interazione gravitazionale. Una ulteriore conferma è venuta anche da dettagliate analisi spettrali.

Una teoria che sta riscuotendo sempre più consensi prevede che siano proprio i fenomeni di merging tra le galassie, moltiplicando il tasso di accrezione del materiale da parte dei buchi neri che risiedono al loro centro, i diretti responsabili della creazione di energetici quasar. Poiché, però, tali aggregazioni tra le galassie sono avvenute nel lontano passato, la loro individuazione richiede osservazioni davvero al limite delle possibilità strumentali.

Una conferma indiretta che le due galassie sono realmente coinvolte in un processo di merging è venuta anche dalle simulazioni computerizzate predisposte da Thomas Cox (Carnegie Observatories). I modelli computerizzati, infatti, mostrano strutture caratteristiche davvero molto simili a quelle osservate nelle immagini raccolte dal telescopio Baade-Magellan.

Endeavour: missione compiuta

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Endeavour: missione compiuta
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Endeavour: missione compiuta
Endeavour: missione compiuta
Lo Shuttle Endeavour, con a bordo il suo equipaggio di sei astronauti, è regolarmente rientrato al Centro Spaziale Kennedy di Cape Canaveral il 22 febbraio alle 22:20, quando in Italia erano le 4:20. La missione Sts-130, cominciata due settimane fa con un ritardo di 24 ore dovuto alle avverse condizioini metereologiche, si è dunque conclusa nel migliore dei modi. Gli astronauti Bob Behnken e Nicholas Patrick avevano terminato l’ultima delle tre passeggiate spaziali in programma alle 9:03 del 17 febbraio scorso (ora italiana), perfezionando le operazioni di aggancio e istallazione dei due nuovi elementi della Stazione Spaziale Internazionale. Il nodo Tranquillity e la Cupola erano stati spostati dal payload alle 9:49, sempre ora italiana, del 12 febbraio scorso.

Lo Shuttle, lanciato dal Kennedy Space Center di Cape Canaveral, si era regolarmente agganciato alla Stazione Spaziale Internazionale due giorni dopo, alle 6:06 del 10 febbraio. “Davvero un bel lancio – commentava l’Associated administrator per le missioni spaziali della NASA Bill Gestermaier – e un grande inizio di una missione così complessa”. Il direttore generale dell’ESA Jean-Jacques Dordain ha ringraziato la NASA, il team di terra e l’equipaggio, sottolineando che “si tratta di un evento particolarmente importante perché lo Shuttle stavolta è pieno di hardware europeo”. Quello di lunedì scorso è stato l’ultimo lancio in notturna dello Shuttle: le prossime quattro missioni partiranno tutte di giorno.

A bordo il suo preziosissimo carico: il terzo modulo per la Stazione, il Nodo-3 ribattezzato “Tranquillity” la scorsa primavera in omaggio alla missione Apollo 11. Un cilindro lungo 7 metri e largo 4,6 pieno di tecnologia e corredato di una gran quantità di cose: da una vera e propria palestra a un sistema per ricavare acqua potabile dall’urina e un avanzatissimo impianto di ricondizionamento dell’aria. Ma soprattutto dotato di una spettacolare Cupola a sette finestre che spalancherà alla vista degli inquilini della ISS un panorama spaziale a 360 gradi mai visto prima.

Tranquillity è stato interamente realizzato negli stabilimenti torinesi di Thales Alenia Space ed è parte dell’accordo NASA-ESA del 1997 (firmato proprio nel capoluogo piemontese) che impegnava l’Agenzia Spaziale Europea a fornire alla ISS il secondo e terzo dei tre moduli abitativi previsti. Così, non appena le operazioni di “aggancio” saranno ultimate, l’Italia potrà legittimamente farsi vanto di aver realizzato metà dello spazio abitabile sulla Stazione Spaziale Internazionale.

Il modulo aveva lasciato Torino lo scorso 17 maggio ed era stato ufficialmente consegnato alla NASA il 20 novembre con una solenne cerimonia svoltasi al Kennedy Space Centre in Florida, negli Stati Uniti. Il lancio, schedulato per febbraio 2010 fin da prima della consegna, era stato messo in forse proprio all’inizio di quest’anno. Ma questa volta le condizioni meteo e la navetta non avevano alcuna responsabilità. Sul banco degli imputati è invece salito il manicotto di una conduttura che fa parte delsistema di controllo termico del modulo. Una serie di malfunzionamenti sarebbero infatti emersi quando il pezzo, che deve trasportare ammoniaca, era ancora dal produttore ogni qual volta veniva sottoposto a sollecitazioni gravose, simili a quelle di esercizio.

Plutone come non lo si era mai visto

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Plutone come non lo si era mai visto
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Plutone come non lo si era mai visto
Plutone come non lo si era mai visto
In attesa che la sonda News Horizon arrivi fin laggiù e al termine di un viaggio di nove anni faccia finalmente luce su tante domande, alla NASA hanno deciso di festeggiare il compleanno dello scomparso scopritore di Plutone. Clyde William Tombaugh, che individuò questo piccolo e lontanissimo planetoide nel lontano 18 febbraio 1930, era infatti nato a Streator il 4 febbraio del 1906.

Così all’Agenzia Spaziale Usa hanno lavorato a lungo sulle tante “foto” che dal 1994 il supertelescopio orbitante Hubble ha scattato a Plutone, fornendone un ritratto decisamente inedito. Un po’ un riscatto, dopo il declassamento deciso nel 2006 dall’Unione Astronomica Internazionale, che ha tolto a Plutone la qualifica di “pianeta” per classificarlo come “pianeta-nano” o, meglio, “oggetto trans-nettuniano”.

La definizione delle immagini non è sufficiente a fornire informazioni di carattere orografico, ma ne da invece moltissime di tipo cromatico. Così, nonostante il periodo orbitale plutonico sia lunghissimo (248,09 anni terrestri) l’intervallo di tempo in cui Hubble ha potuto guardare il “pianeta-nano” è bastato a mostrarci un caleidoscopio di sfumature tra il grigio, il marrone e l’arancione. Tutti colori che mutano con l’illuminazione del Sole, che per quanto in quella estrema periferia del nostro sistema solare arrivi fioca, è comunque sufficiente a far sciogliere il ghiaccio ai poli nella faccia esposta alla luce.

Ma per saperne di più, bisogna aspettare ancora cinque anni, quando News Horizon – che ha imbarcato simbolicamente a bordo le ceneri di Tombaugh – comincerà il flyby sul pianeta-nano.

Nodo-3 e Cupola: completata l’installazione alla ISS

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Nodo-3 e Cupola: completata l'installazione alla ISS
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Nodo-3 e Cupola: completata l'installazione alla ISS
Nodo-3 e Cupola: completata l'installazione alla ISS
Gli astronauti Bob Behnken e Nicholas Patrick hanno terminato anche l’ultima delle tre passeggiate spaziali in programma nella missione Sts-130. Dopo cinque ore e quarantotto minuti di lavoro, alle 9:03 del 17 febbraio (ora italiana) i due hanno perfezionanto le operazioni di aggancio e installazione dei due nuovi elementi della Stazione Spaziale Internazionale. Il nodo Tranquillity e la Cupola erano stati spostati dal payload alle 9:49, sempre ora italiana, del 12 febbraio scorso. Si avvia a terminare dunque nel segno della massima “tranquillity” il compito degli uomini partiti a bordo dell’Endeavour lunedì scorso alle 10 e 14 (ora italiana) dopo un rinvio di 24 ore dovuto alle condizioni meteo.

Lo Shuttle, lanciato dal Kennedy Space Center di Cape Canaveral, si era regolarmente agganciato alla Stazione Spaziale Internazionale due giorni dopo, alle 6:06 del 10 febbraio. “Davvero un bel lancio – commentava l’Associated administrator per le missioni spaziali della NASA Bill Gestermaier – e un grande inizio di una missione così complessa”. Il direttore generale dell’ESA Jean-Jacques Dordain ha ringraziato la NASA, il team di terra e l’equipaggio, sottolineando che “si tratta di un evento particolarmente importante perché lo Shuttle stavolta è pieno di hardware europeo”. Quello di lunedì scorso è stato l’ultimo lancio in notturna dello Shuttle: le prossime quattro missioni partiranno tutte di giorno.

A bordo il suo preziosissimo carico: il terzo modulo per la Stazione, il Nodo-3 ribattezzato “Tranquillity” la scorsa primavera in omaggio alla missione Apollo 11. Un cilindro lungo 7 metri e largo 4,6 pieno di tecnologia e corredato di una gran quantità di cose: da una vera e propria palestra a un sistema per ricavare acqua potabile dall’urina e un avanzatissimo impianto di ricondizionamento dell’aria. Ma soprattutto dotato di una spettacolare Cupola a sette finestre che spalancherà alla vista degli inquilini della ISS un panorama spaziale a 360 gradi mai visto prima.

Tranquillity è stato interamente realizzato negli stabilimenti torinesi di Thales Alenia Space ed è parte dell’accordo NASA-ESA del 1997 (firmato proprio nel capoluogo piemontese) che impegnava l’Agenzia Spaziale Europea a fornire alla ISS il secondo e terzo dei tre moduli abitativi previsti. Così, non appena le operazioni di “aggancio” saranno ultimate, l’Italia potrà legittimamente farsi vanto di aver realizzato metà dello spazio abitabile sulla Stazione Spaziale Internazionale.

Il modulo aveva lasciato Torino lo scorso 17 maggio ed era stato ufficialmente consegnato alla NASA il 20 novembre con una solenne cerimonia svoltasi al Kennedy Space Centre in Florida, negli Stati Uniti. Il lancio, schedulato per febbraio 2010 fin da prima della consegna, era stato messo in forse proprio all’inizio di quest’anno. Ma questa volta le condizioni meteo e la navetta non avevano alcuna responsabilità. Sul banco degli imputati è invece salito il manicotto di una conduttura che fa parte del sistema di controllo termico del modulo. Una serie di malfunzionamenti sarebbero infatti emersi quando il pezzo, che deve trasportare ammoniaca, era ancora dal produttore ogni qual volta veniva sottoposto a sollecitazioni gravose, simili a quelle di esercizio.

STS-131 Shuttle Discovery – Rinvio del lancio

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STS-131 Shuttle Discovery - Rinvio del lancio
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STS-131 Shuttle Discovery - Rinvio del lancio
STS-131 Shuttle Discovery - Rinvio del lancio
A causa delle temperature molto basse al Kennedy Space Center, è stato deciso di rinviare il trasferimento nel VAB (Vehicle Assembly Building, ovvero edificio assemblaggio dei veicoli) dello Space Shuttle Discovery che dovrà eseguire la Missione STS-131 per trasportare il Multi-Purpose Logistics Module (MPLM) Leonardo sulla Stazione Spaziale Internazionale.

Attualmente la data più probabile per lo spostamento è il 22 febbraio, con almeno 10 giorni di ritardo. La precedente data prevista per il lancio era il 18 marzo, e a causa di questo inconveniente dovrebbe passare al 25-28 marzo. Data la partenza prevista di una Soyuz per il 2 aprile, e ferma restando la norma che impedisce che qualsiasi veicolo si avvicini o si allontani durante il periodo di ormeggio di uno Shuttle, la STS-131 è costretta a spostarsi al dopo attracco della Soyuz alla ISS.

La nuova data prevista è il 5 aprile, Lunedì dell’Angelo. Dato inoltre che ogni giorno di ritardo nel decollo comporta un anticipo nella finestra lancio di circa 24 minuti, si avrebbe nuovamente un lancio notturno. L’ora prevista è infatti fissata per le 6:27 di mattina locali, 41 minuti prima dell’alba. Per noi sarebbero le 12:27.

Tutto il calendario di questa missione avrebbe quindi il seguente svolgimento:

  • 22 febbraio rollover verso il VAB
  • 2 marzo rollout verso il pad
  • 5 marzo prova countdown
  • 26 marzo Flight Readiness Review
  • 5 aprile (12:27 CEST) lancio
  • 18 aprile (6:30 CEST) atterraggio

Resta da vedere il possibile impatto sul resto delle missioni: le STS-134 ed STS-133 non dovrebbero risentirne, ma la STS-132 è a rischio rinvio, anche se di poco.

Nell’immagine l’equipaggio e lo stemma della missione STS-131

Supernova al VLA

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Supernova al VLA
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Supernova al VLA
Supernova al VLA
La chiave di questa curiosa vicenda sono le osservazioni radio della supernova SN2009bb compiute con le antenne del VLA (Very Large Array) di Socorro nel New Mexico. Da queste osservazioni è emersa la presenza di materiale espulso dalla supernova a velocità relativistiche, una situazione che, solitamente, si riscontra nelle supernovae associate a emissione di lampi gamma. Nel caso di SN2009bb, però, la radiazione gamma non è mai stata individuata.

“E’ pur vero – sottolinea Alicia Soderberg, ricercatrice dell’Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics – che la rilevazione dei lampi gamma non è una caratteristica costante delle esplosioni di supernova, ma la possibilità di individuare simili eventi grazie a osservazioni radio è estremamente interessante”. Lo studio su SN2009bb, tra i cui autori figura anche la Soderberg, è stato pubblicato su Nature a fine gennaio.

Vi sono almeno un paio di ottimi motivi che possono spiegare la mancata rilevazione di emissione gamma. Il primo – e più banale – è legato alla geometria dell’evento. Poiché i lampi gamma vengono emessi in fasci molto collimati, se questi fasci non sono allineati con la Terra la loro individuazione ci sarà inesorabilmente preclusa. Una seconda e più intrigante possibilità è che la radiazione gamma venga in qualche modo “ammorbidita” quando prova ad abbandonare la stella, una situazione che metterebbe fuori gioco i satelliti gamma che solitamente ci permettono di individuare e riconoscere queste supernovae.

Essere riusciti a individuare che SN2009bb appartiene a questa particolare categoria di supernovae grazie allo studio della sua emissione radio ci offre dunque una possibile valida alternativa per il riconoscimento di questi eventi.

Differenze pesanti

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Differenze pesanti
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Differenze pesanti
Differenze pesanti
Difficile trovare qualche somiglianza tra Ganimede e Callisto, le due principali lune di Giove. Paragonabili come dimensioni e certamente molto simili nella loro composizione, ma davvero molto differenti non solo nell’aspetto esteriore, ma anche nella struttura interna.

Fin dalle prime analisi ravvicinate delle sonde Voyager – confermate appieno anche dall’epico lavoro della sonda Galileo – i planetologi si trovarono di fronte a una bella gatta da pelare: pur essendosi formati nella stessa regione del Sistema solare e dunque condividendo la medesima materia prima e le medesime condizioni ambientali, Ganimede e Callisto avevano seguito due strade evolutive differenti. Qual era la chiave di questa differenza? Mistero davvero fitto, tanto che finora a nessuno era mai riuscito di giustificare in modo sufficientemente condivisibile una simile situazione.
In uno studio pubblicato online su Nature Geoscience a fine gennaio, però, si ipotizza una spiegazione che potrebbe risultare vincente. Amy C. Barr e Robin M. Canup, ricercatrici del SwRI Planetary Science Directorate, hanno infatti creato un modello matematico in cui si mostra come i cammini evolutivi di Ganimede e Callisto divergano circa 3,8 miliardi di anni fa, nel corso del periodo che i planetologi chiamano il Late Heavy Bombardment. Come dice il nome, si tratta del periodo primordiale dell’evoluzione della famiglia del Sole caratterizzato da violenti impatti provocati dal caotico e pericoloso intersecarsi delle orbite dei corpi asteroidali e cometari che popolavano il sistema.

Per Ganimede e Callisto si trattò di un vero tiro al bersaglio, reso ancora più drammatico dalla potente azione gravitazionale di Giove. A causa della differente distanza dal pianeta gigante, però, le due lune sperimentarono un destino diverso. Ganimede, più vicino a Giove, venne colpito dal doppio dei proiettili cometari che colpirono Callisto e per di più quei proiettili cosmici erano dotati di velocità più elevate. Il risultato di tale bombardamento fu un riscaldamento talmente intenso e profondo che sfociò nella completa fusione del satellite, rendendo in tal modo completamente differente la sua struttura interna da quella del gemello Callisto.

“E’ incredibilmente importante – ha sottolineato Amy Barr – comprendere come mai questi due corpi praticamente gemelli sono diventati così diversi l’uno dall’altro. In queste differenze si nascondono preziosi indizi sull’evoluzione iniziale del nostro Sistema solare.”

Quelle galassie a spirale che forse non c’erano

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Quelle galassie a spirale che forse non c'erano
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Quelle galassie a spirale che forse non c'erano
Quelle galassie a spirale che forse non c'erano
Una nuova “prima volta”dell’Hubble Space Telescope. Hubble ha compiuto un “censimento demografico”sulle galassie visibili nell’Universo attuale fino a quelle formatesi circa sei miliardi di anni fa (poco più di un miliardo di anni prima della formazione del nostro Sistema Solare).

Contrariamente a quanto si pensava, i dati rivelano che a quell’epoca dovessero esistere meno galassie a spirale rispetto a quelle che si osservano oggi, mentre quelle classificate come “galassie peculiari” dovevano essere molto più numerose. Quest’ultime, sono oggetti che per forma, dimensione, luminosità e composizione non sono classificabili come spirali, ellittiche, lenticolari o irregolari. Da questo studio si è arrivato a ipotizzare nel passato recente l’esistenza di collisioni e fusioni di moltissime galassie, studio che fornisce pure preziose informazioni sullo stato della nostra Galassia.

La morfologia e la formazione delle galassie sono fonte di numerosi dibattiti tra i ricercatori. In particolare, un importante strumento nell’analisi della loro morfologia è dato dal diagramma detto “sequenza di Hubble”, una classificazione schematica di tutte le galassie realizzato da Edwin Hubble nel 1926 sulla base delle immagini di varie galassie ottenute dalle lastre fotografiche, che divideva, quelle regolari in tre classi principali: le ellittiche, le lenticolari e le spirali.
Un gruppo di ricercatori europei guidati da François Hammer dell’Observatoire de Paris, per la prima volta ha completato un censimento demografico delle galassie in base ai tipi morfologici in due diversi momenti nella storia dell’Universo, creando in definitiva, su un campione di 116 galassie locali e 148 galassie lontane, due sequenze di Hubble che permettono di spiegare come si siano formate le galassie. Emerge chiaramente che la sequenza di Hubble sei miliardi di anni fa era molto differente da quella che gli astronomi osservano oggi.

“Sei miliardi di anni fa, c’erano molte più galassie peculiari di oggi, un risultato davvero sorprendente” ha affermato Rodney Delgado-Serrano, primo autore dell’articolo pubblicato recentemente su Astronomy & Astrophysics (R. Delgado-Serrano, et al, 2010, How was the Hubble Sequence, 6 Giga-years ago?, Astronomy & Astrophysics, 509, A78). “Questo implica che negli ultimi sei miliardi di anni, queste galassie peculiari devono essere diventate spirali normali, mostrandoci un’immagine dell’Universo recente più drammatica rispetto a quella nota”.

Si pensa che queste galassie peculiari siano divenute galassie a spirale attraverso numerose collisioni e fusioni. Il tracciare la storia della formazione delle galassie permette di avere un’idea dell’Universo attuale. Andando indietro nel tempo, deve esserci stato un periodo molto caotico seguito da un periodo più tranquillo, dove galassie nascenti collidevano facilmente con altre permettendone la nascita di nuove. Sebbene finora si ritenesse corretta l’idea che la fusione delle galassie dovesse essere diminuita sensibilmente circa otto miliardi di anni fa, il nuovo risultato porta a credere che le fusioni dovessero essere ancora in atto a quell’epoca e fossero molto frequenti da quel momento in poi fino a circa quattro miliardi di anni fa.

“Il nostro obiettivo è quello di trovare uno scenario che possa connettere l’immagine attuale dell’Universo con le morfologie delle vecchie lontane galassie in modo da far combaciare i vari pezzi del puzzle sull’evoluzione delle galassie” ha affermato Hammer.

Inoltre, contrariamente all’opinione più diffusa secondo la quale dalla fusione delle galassie ellittiche si formerebbero galassie minori, Hammer e il suo gruppo hanno portato avanti uno scenario nel quale le collisioni darebbero come risultato galassie a spirale. In un altro articolo pubblicato su Astronomy & Astrophysics (F. Hammer et al., 2009, The Hubble Sequence: just a vestige of merger events?, Astronomy & Astrophysics, 507, 1313) scavando più a fondo sulla loro ipotesi di “ricostruzione delle galassie a spirale”, i ricercatori hanno proposto che le galassie peculiari nelle fusioni con enormi quantità di gas, solo più lentamente rinascono come spirali giganti con dischi e bulge centrali.
Sebbene la nostra Galassia sia di tipo a spirale, sembra sia stata risparmiata dal dramma giovanile; la sua formazione pare sia avvenuta in modo più tranquillo e che non si siano svolte collisioni violente in tempi astronomici recenti. Tuttavia, la galassia di Andromeda che si trova nelle vicinanze della nostra, non deve essere stata così fortunata e sembra seguire meglio lo scenario della “ricostruzione delle galassie a spirale”. I risultati futuri permetteranno di chiarire meglio quale delle ipotesi sarà da confermare e quale da smentire.

Hammer e il suo gruppo hanno utilizzato i dati della Sloan Digital Sky Survey gestiti dall’Apache Point Observatory, New Mexico, (USA), da GOODS e dall’Hubble Ultra Deep Field grazie in particolare all’Advanced Camera for Surveys (ACS) a bordo di Hubble.

STS-130 – Space Shuttle Endeavour: partito!

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STS-130 - Space Shuttle Endeavour: partito!
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STS-130 - Space Shuttle Endeavour: partito!
STS-130 - Space Shuttle Endeavour: partito!
Lo Space Shuttle Endeavour ha lasciato la rampa 39/A del Kennedy Space Center in perfetto orario alle 0914:08 UTC in questo secondo tentativo di lancio.
Trasporta il Nodo 3 e la Cupola, elementi costruiti in Italia, che rappresentano il completamento della sezione non Russa della Stazione.

Il Nodo 3, battezzato Tranquility, rappresenterà un volume abitabile aggiuntivo per la Stazione e permetterà di avere altri punti di aggancio per altre eventuali estensioni. La Cupola invece sarà una finestra sul Mondo, con la visione mozzafiato del panorama della nostra Terra.

L’attracco con la ISS avverrà alle 05:53 UTC di mercoledì 10 febbraio.

Secondo i programmi l’Endeavour mollerà gli ormeggi il 19 febbraio per rientrare a Terra al KSC il 21 alle 4:48 italiane.

Data Lancio: 8 febbraio 2009.
Ora Lancio: 0914:08 UTC.
Sito di Lancio: Torre 39A – Kennedy Space Center, Florida.
Codice Lancio: 2010-004.
Esito: Successo.

Vettore.
Modello: United States Space Shuttle Orbiter.
Specifica: OV-105 – Endeavour.

Carico:
2 moduli: Node 3 + Cupola.
Committente: NASA.

Nome: 2009-004A – STS-130 Endeavour.
Orbita: 91,49′ – 51.64° – 352km x 343km.
Radar Cross Section: 268,926 m².
Satellite Catalog: TBD.
Data rientro: TBD.

Tracce di impatti cometari

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Tracce di impatti cometari
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Tracce di impatti cometari
Tracce di impatti cometari
Difficile riuscire a stabilire il tasso con cui il nostro pianeta è stato colpito – e può esserlo tutt’ora – da oggetti cosmici. E’ ben noto come la statistica risenta notevolmente della rilevazione incompleta degli episodi passati dovuta soprattutto all’azione erosiva dell’ambiente terrestre. Le tracce degli impatti, infatti, vengono ben presto nascoste dall’azione dei fenomeni atmosferici (vento, pioggia,…) e da quella della vegetazione. Riuscire dunque a scoprirne l’esistenza diventa spesso impossibile. Adrian Melott (University of Kansas) e i suoi collaboratori, però, ritengono di aver individuato un possibile metodo per superare questa difficoltà e lo hanno illustrato al meeting invernale dell’American Geophysical Union tenutosi a San Francisco lo scorso dicembre.

Alla base del nuovo metodo vi è un’accurata analisi dei carotaggi di ghiaccio per individuare anomale abbondanze di nitrati e ammoniaca. Che un’elevata presenza di nitrati si possa ricollegare a impatti cosmici è un’idea già ben nota a chi si occupa di questi eventi, mentre è una novità assoluta il collegamento di un impatto cosmico con picchi di ammoniaca atmosferica. Secondo Melott la formazione di questo gas sarebbe riconducibile alle elevate pressioni e temperature associate agli impatti, condizioni che, unite alla notevole disponibilità di acqua nel caso in cui il proiettile cosmico sia una cometa, permetterebbero il verificarsi del cosiddetto processo Haber, un metodo comunemente utilizzato per produrre industrialmente l’ammoniaca che utilizza azoto e idrogeno come reagenti.

Per verificare questa ipotesi i ricercatori hanno analizzato i carotaggi di ghiacci corrispondenti a due possibili impatti cometari: il ben noto evento di Tunguska del 1908 e quello – ancora piuttosto dibattuto e risalente a 13 mila anni fa – conosciuto come Younger Dryas Event, un impatto ritenuto responsabile del crollo della cultura preistorica di Clovis nell’America del Nord. Ebbene, in entrambi i casi il gruppo di ricerca di Melott ha trovato l’evidenza che il processo Haber si sia davvero verificato su larga scala.

Permane ancora, però, qualche dubbio e sono gli stessi ricercatori a sottolinearlo. Poichè, solitamente, i carotaggi vengono campionati a intervalli di cinque anni, tale risoluzione non è la più adeguata per ricercare eventuali picchi di ammoniaca: gli eventi atmosferici, infatti, dissipano molto rapidamente la sua concentrazione.

Un campionamento più accurato, dunque, potrebbe ovviare a tale lacuna e il metodo proposto da Melott potrebbe rivelarsi davvero un ottimo strumento per ricostruire i passati impatti cometari con il nostro pianeta.

Pianeta vulcanico

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Pianeta vulcanico
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Pianeta vulcanico
Pianeta vulcanico
Quando il satellite CoRoT (Convection, Rotation and Planetary Transits) individuò a 480 anni luce dalla Terra il pianeta CoRoT-7 b, la notizia della scoperta venne seguita con grande attenzione da chi si occupa di pianeti extrasolari. L’esopianeta, infatti, era il primo corpo celeste roccioso – dunque di tipo terrestre – ad essere scoperto al di fuori del nostro Sistema solare.

Le fantasie di chi vedeva in quel pianeta un gemello della Terra, però, vennero quasi subito bloccate dalle proibitive condizioni ambientali che regnano sulla sua superficie. L’orbita di CoRoT-7 b, infatti, si sviluppa molto vicino alla sua stella e questa vicinanza fa sì che la sua faccia illuminata si riscaldi fino a 2200 °C, mentre l’emisfero in ombra sperimenti gelide temperature di 210 °C sotto lo zero.
Un ulteriore colpo alle speranze di chi immaginava CoRoT-7 b una potenziale culla per la vita sono venute da alcune speculazioni sulle condizioni superficiali del pianeta proposte al Meeting della American Astronomical Society tenutosi a Washington qualche settimana fa. Punto di partenza di tali speculazioni è l’estrema vicinanza del pianeta al suo Sole (solamente 2,5 milioni di chilometri, cioè 60 volte più vicino della Terra al Sole) e la scoperta che l’orbita di CoRoT-7 b non è perfettamente circolare, probabilmente a causa di un oggetto planetario più esterno. Queste due condizioni fanno ragionevolmente ritenere che la superficie del pianeta sia caratterizzata da fenomeni estremi di vulcanesimo, molto più intensi di quelli osservati su Io, il satellite di Giove che, con i suoi oltre 400 vulcani attivi, è il corpo celeste geologicamente più attivo del nostro Sistema solare. Se la speculazione ha colto nel segno, dunque, la superficie di CoRoT-7 b si presenterebbe come una distesa incandescente di colate laviche continuamente alimentate da un gran numero di bocche vulcaniche.

Davvero estremamente difficile riuscire a inserire in tale scenario la possibilità che la vita trovi un angolo dove svilupparsi.

Collisione nella Fascia principale?

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Collisione nella Fascia principale?
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Collisione nella Fascia principale?
Collisione nella Fascia principale?
Non aveva destato grande interesse la scoperta annunciata lo scorso 7 gennaio all’osservatorio LINEAR di una nuova cometa: un astro chiomato di mag. +20 individuato tra gli asteroidi della Fascia Principale lungo un’orbita che non lo avrebbe mai portato nei dintorni della Terra. La P/2010 A2 (LINEAR) sembrava quindi una cometa piuttosto anonima, una delle tante scoperte dall’osservatorio del New Mexico.

Ma appena le osservazioni si sono fatte più sistematiche, la determinazione dei parametri orbitali ha evidenziato per P/2010 A2 una rara peculiarità: si tratta infatti di un oggetto che presenta delle caratteristiche orbitali simili a quelle degli asteroidi unite a quelle fisiche delle comete. Il che ne fa il quinto membro di quella speciale classe di oggetti denominata “Main Belt Comets”.

Le immagini riprese dimostrano infatti l’esistenza di una coda lunga circa 180 000 km in fase di progressivo sviluppo, con la mancanza però di una chioma ben definita.

A questo quadro già di per sé inusuale si è aggiunta di recente una scoperta del tutto inattesa: nel tentativo di ottenere immagini più definite dell’oggetto con il Nordic Optical Telescope delle Canarie, l’astronomo spagnolo Javier Licandro avrebbe individuato un piccolo asteroide (posizionato due secondi d’arco ad est dalla cometa), che sembra accompagnarla (stesso moto proprio rispetto alle stelle) lungo la sua orbita. Questo, oltre al fatto che la cometa non mostra alcuna condensazione centrale o traccia di attività del nucleo, ma soltanto una lunga scia di materiale che sembra originarsi quasi dal nulla, ha portato qualcuno ad ipotizzare che si stia assistendo “in diretta” alle conseguenze di una collisione tra due asteroidi, il più piccolo dei quali avrebbe strappato all’altro il mantello di rocce e polveri, mettendo allo scoperto lo strato di sostanze volatili sottostante. Il fatto poi che l’oggetto si trovi ad orbitare nella regione più calda della fascia asteroidale, quella delimitata dalla cosiddetta “frostline” (posta a 2,7 UA dal Sole), spiegherebbe la rapida degassificazione della sua superficie.

Per risolvere questo ed altri dubbi, gli astronomi hanno deciso di puntare i maggiori strumenti, compresi i telescopi spaziali Hubble e Spitzer, verso la “strana coppia”, nella speranza di poter confermare sia la natura cometaria della LINEAR (per esempio, rilevando l’impronta spettrale di gas tipici delle comete, come gli ossidi di carbonio), sia di poter ricostruire la dinamica dell’evento, con la conferma dell’avvenuta collisione.

E proprio in questi giorni è stata resa pubblica la ripresa effettuata da Hubble, che mostra in grande dettaglio la testa della cometa e l’inviluppo di polveri che si origina dal piccolo asteroide. La strana forma della chioma, a forma di X disegnata dalle parti più luminose, potrebbe indicare che altri frammenti più piccoli (e quindi inosservabili) stanno contribuendo al rilascio delle polveri.

Il fenomeno è alla portata anche di una buona strumentazione amatoriale, come dimostrato dalle immagini della “cometa” realizzate dal collaboratore della rivista Rolandro Ligustri, in pubblicazione nel prossimo numero di Coelum

Pio & Bubble Boy – Coelum n.136 – Febbraio 2010

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vignetta 136
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vignetta 136

Questa Vignetta è pubblicata su Coelum n.136 – Febbraio 2010. Leggi il Sommario.

Caccia ai pianetini killer

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Caccia ai pianetini killer
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Caccia ai pianetini killer
Caccia ai pianetini killer
Il progetto di rilevare l’80% degli oggetti fino a 140 metri di diametro (chiamato George Brown Near-Earth Object Survey) dovrebbe essere completato entro il 2020, ma con gli attuali finanziamenti (circa 4 milioni di dollari all’anno) non si riuscirà a completarlo.
Per ottenere questo risultato servirebbero almeno 50 milioni di dollari l’anno in modo da costruire dei telescopi appositi e lanciare dei satelliti di sorveglianza. Certo che con 250 milioni di dollari all’anno si potrebbe ottimizzare il tutto eseguendo anche dei test di impatto e esplosione per collaudare le tecniche di eventuale deviazione, nel caso che si scoprisse un oggetto in rotta di collisione con il nostro pianeta.

Attualmente il progetto Spaceguard permette di rilevare il 90% degli oggetti fino ad 1 km di diametro, piccoli asteroidi che potrebbero causare danni su scala globale.
I 140 metri di questo nuovo sistema di sicurezza mondiale salverebbero da potenziali danni su scala continentale, mentre oggetti più piccoli potrebbero provocare danni su scala locale. Ricordiamoci che l’esplosione di Tunguska che all’inizio del secolo scorso si è verificata nella Siberia russa, ha distrutto migliaia di chilometri quadrati di foresta ed è stata provocata da un oggetto di circa 30 metri di diametro. Se avesse colpito una zona densamente popolata, sarebbe stata una strage.

Gli oggetti NEO finora scoperti sono oltre 6’700, 800 dei quali superano il chilometro di diametro. Quindi una grande quantità di oggetti è già stata catalogata, ma moltissimi altri restano sconosciuti, senza considerare gli oggetti provenienti dallo spazio profondo, che non sono periodici o lo sono con periodi estremamente lunghi.

Il problema principale è il tempo intercorrente fra la scoperta e l’impatto. Se i tempi sono sufficientemente lunghi sarà possibile organizzare un qualsiasi tipo di difesa, anche solo una evacuazione della zona che verrà coinvolta dal disastro.
Agli attuali ritmi il progetto potrebbe completarsi entro il 2030, ma sono speculazioni che lasciano il tempo che trovano.

Forse sarebbe necessario stanziare un po’ più di quattrini in queste tecnologie: ne va della salvezza di tutti…

Marte alla minima distanza dalla Terra

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Marte alla minima distanza dalla Terra
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Marte alla minima distanza dalla Terra
Marte alla minima distanza dalla Terra
Ogni circa 26 mesi Marte raggiunge l’opposizione, portandosi così alla minima distanza dalla Terra consentita in quel periodo dalla geometria delle orbite dei due pianeti.

Un pianeta esterno si dice in opposizione quando si trova opposto al Sole rispetto alla Terra e cioè quando, nell’ordine, Sole, Terra e Pianeta (nel nostro caso Marte) si trovano allineati. Quando un pianeta è in opposizione si trova nelle migliori condizioni di osservabilità, essendo nel punto più vicino alla Terra e diametralmente opposto al Sole, è visibile per tutta la notte ed ha un diametro apparente ed una luminosità maggiori che in altri periodi.

A causa della notevole eccentricità orbitale (e=0,093) del pianeta, le opposizioni di Marte possono portare a delle minime distanze che variano tra un minimo assoluto di circa 55,8 milioni di chilometri (raggiunto nella storica “grande opposizione” del 27 agosto 2003) a quello di circa 100 milioni di chilometri, proprio delle cosiddette opposizione afeliche (quelle che si verificano con Marte nei pressi del suo afelio).

Quella presente sarà per l’appunto un’opposizione afelica, non molto favorevole dal punto di vista del diametro angolare del pianeta (circa 14″), ma in qualche modo sostenuta dal fatto che Marte si troverà quasi alla sua massima declinazione e quindi molto alto nel cielo (circa +70° di altezza) al momento del transito in meridiano.

Il 28 gennaio Marte raggiungerà una distanza dalla Terra di 99,3 milioni di chilometri, la minima nel periodo dal gennaio 2008 al marzo 2014. L’opposizione propriamente detta, quella legata alla massima elongazione dal Sole, verrà invece raggiunta il giorno dopo e regalerà al pianeta una luminosità apparente di mag. –1,28, tipica delle opposizioni afeliche (in quelle perieliche Marte può arrivare fino a una magnitudine di –2,9).

La caratteristica principale di questa opposizione sarà legata al fatto che per la prima volta da 13 anni a questa parte l’inclinazione dell’asse del pianeta rosso favorirà l’osservazione della calotta polare nord, invisibile da Terra fin dal lontano 1997.
Tra gennaio e febbraio, infatti, avanzerà la stagione primaverile nell’emisfero nord del pianeta e oltre allo scioglimento progressivo della calotta potremmo seguire molti fenomeni meteorologici svilupparsi tra le regioni equatoriali e temperate, come la presenza di spesse nubi di vapore acqueo e lo sviluppo di tempeste di sabbia.

Immagine ESA

Spirit e Opportunity su Marte

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Spirit e Opportunity su Marte
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Spirit e Opportunity su Marte
Spirit e Opportunity su Marte
Spirit
La tecnica tentata all’inizio di gennaio (Sol 2136), vale a dire lo sterzare le ruote per spostare il terreno prima di tentare i movimenti, sembra aiutare i tentativi. Altri drive sono stati effettuati durante i Sol 2138, 2140 e 2142, ma i progressi sono stati minimi: se non altro non è affondato ulteriormente.

A questo punto è stato deciso di invertire la direzione di marcia. Finora i tentativi di spostamento sono stati effettuati sempre in marcia avanti per ritornare nella direzione da cui Spirit era arrivato nella zona di sabbia soffice (ricordo che il rover si muoveva normalmente in marcia indietro a causa della ruota anteriore destra bloccata).

Durante il Sol 2145 si è deciso di avanzare all’indietro, sempre dopo aver spazzato con lo sterzo nelle buche. Ebbene, Spirit si è mosso, ma soprattutto si è sollevato leggermente, cosa che finora non era ancora successa. Con i movimenti dei Sol 2145, 2147 e 2150 il rover si è mosso fra i 3 e i 4 centimetri e si è arrampicato. Ogni sessione di movimento prevedeva 6 tranche di 5m ciascuna. Tre centimetri di spostamento il primo giorno (e 1 verso l’alto) e 3,5 di spostamento durante il secondo (e 0,3 verso l’alto). Purtroppo durante il tentativo del Sol 2150 la ruota centrale destra (l’ultima funzionante di quel lato) è andata in sovracorrente bloccando il movimento.
Si stanno eseguendo dei test diagnostici per capire se è un guasto vero e proprio o se la ruota è incappata in una roccia.

Il team ha anche preso in considerazione di sfruttare la spinta del braccio robotico, ma può solo spingere per 30N, assolutamente ininfluente sulla dinamica attuale del rover. Oltretutto si rischierebbe di spaccarlo, ma serve ancora, anche se Spirit restasse fermo: fin dove arriva potrebbe analizzare tutto il terreno e vederne le modificazioni con il passare del tempo.

Durante il Sol 2143 la produzione energetica dei pannelli solari è stata di 225 Wh, mentre durante il Sol 2150 è stata di 211 Wh. L’inverno si avvicina e il numero di tentativi per liberarsi diminuisce di Sol in Sol.

Opportunity

Si sta dirigendo velocemente verso un recente cratere da impatto, risalente a circa 1000 anni fa, chiamato Concepcion. Il rover eseguirà una circumnavigazione del catino largo una decina di metri per verificarne le caratteristiche.

Superati anch’esso i 6 anni terrestri sulla superficie marziana, ha anche superato i 19 chilometri (per la precisione 19’216,21 metri) percorsi sulle distese polverose del Pianeta Rosso.
La sua produzione energetica al Sol 2130 è stata di 304 Wh.

In foto il team del JPL durante i test nella “sand box” l’area dove provano i drive prima di applicarli sul vero rover. A destra alla consolle Paolo Bellutta, l’italiano che fa parte del gruppo dei driver.
Fonte: JPL.

Phoenix: notizie non buone.

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Phoenix: notizie non buone.
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Phoenix: notizie non buone.
Phoenix: notizie non buone.
Nessuna trasmissione proveniente da Phoenix.
Negli ultimi giorni la sonda Odyssey, in orbita intorno a Marte, si è messa in ascolto sulla banda UHF durante i 30 passaggi che ha effettuato nei cieli del Phoenix Mars Lander, ma non ha ricevuto nessuna chiamata.
Per questo primo tentativo d’ascolto non era neanche convinto il controllo missione che la sonda potesse chiamare, il Sole è ancora troppo basso e tramonta ancora. Ci saranno sicuramente momenti migliori, dato che fra un mese si tenterà nuovamente, così come a marzo. Da aprile il Sole non tramonterà più su Phoenix, ma le probabilità che il lander si risvegli sono bassissime.

In tutto questo si inserisce anche il problema monetario: sono stati interrotti i finanziamenti per Phoenix e quindi se non verranno riattivati si rischia di abbandonare tutto, comprese le analisi sui dati ricevuti.
Attualmente il team sta chiedendo alla NASA di dirottare una parte dei fondi per i programmi di ricerca e il governo garantisce che dovrebbero essere rifinanziate le analisi sui dati ricevuti.

Ci mancherebbe solo che Phoenix riuscisse a risvegliarsi in Lazarus Mode e non trovasse nessuno ad ascoltarlo…

Il più piccolo oggetto della Fascia di Kuiper

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Il più piccolo oggetto della Fascia di Kuiper
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Il piÃ&sup1; piccolo oggetto della Fascia di Kuiper
Il piÃ&sup1; piccolo oggetto della Fascia di Kuiper
L’Hubble Space Telescope ha scoperto il più piccolo oggetto mai visto prima in luce visibile nella cosiddetta Fascia di Kuiper, il vasto anello di asteroidi o frammenti rocciosi ghiacciati che circonda il Sistema Solare, al di là dell’orbita di Nettuno.

Si può definire questo oggetto come “un ago nel pagliaio” in quanto le sue dimensioni sono dell’ordine del chilometro (0,97 per la precisione) e ad una distanza di circa 6,75 miliardi di chilometri dal Sole. Il più piccolo oggetto della Fascia di Kuiper osservato prima in luce riflessa era dell’ordine dei 48 chilometri come dimensione, ossia circa 50 volte più grande.

Nell’immagine, una rappresentazione artistica del nuovo oggetto nella Fascia di Kuiper osservato dall’Hubble Space Telescope. Fonte NASA.
Le osservazioni compiute dall’Hubble Space Telescope delle stelle vicine mostrano che un certo numero di esse presentano una fascia di asteroidi simile alla Fascia di Kuiper (che porta il nome del primo astronomo che ne ipotizzò l’esistenza intorno agli anni Cinquanta del secolo scorso). Queste dischi non sono altro che il residuo della formazione planetaria, ossia oggetti che probabilmente sono stati espulsi dalle regioni interne della nube proto planetaria dal pianeta Giove, a causa della sua forte azione gravitazionale e, inoltre, oggetti che non si sono aggregati a formare un pianeta al di là di Nettuno a causa della debole azione gravitazionale a tali distanze.

Ares I, unica alternativa

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Ares I, unica alternativa
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Ares I, unica alternativa
Ares I, unica alternativa
Un gruppo di specialisti indipendenti ha scritto un rapporto alla NASA con un’analisi dell’attuale situazione del trasporto spaziale umano.
Nel rapporto stilato dall’Aerospace Safety Advisory Panel (ASAP) si mette subito in evidenza come il possibile abbandono del progetto Ares I sia un grave errore, a causa del livello non ottimale di sicurezza raggiunto dalle aziende private, che, con le loro soluzioni manned in via di sviluppo, dovrebbero assicurare l’accesso all’orbita bassa. L’unico motivo per cui si dovrebbe scegliere un veicolo alternativo dovrebbe essere la maggior sicurezza, ma SpaceX, Orbital Sciences, United Launch Alliance ed altre aziende, hanno presentato delle proposte per dei veicoli spaziali pilotati che non raggiungono i livelli record di sicurezza finora previsti per Ares I ed Orion.

Dal canto loro i privati stanno comunque facendo dei grossi passi avanti ed hanno già ottenuto dalla NASA oltre 3 miliardi di dollari per lo sviluppo dei loro cargo. Sia SpaceX che Orbital eseguiranno i primi voli di collaudo di Dragon e Cygnus fra il 2010 e il 2011 e le rispettive capsule abitate sono varianti di questi cargo.

La Augustine Commission ha però dato per scontato che le aziende private sarebbero state in grado di supplire alla mancanza di accesso spaziale americano senza però approfondire il discorso “sicurezza”.
Stante il fatto che Constellation sarà il programma dei record di sicurezza, diventa automaticamente inarrivabile da parte dei privati, ma d’altra parte non è nemmeno avvicinabile dall’attuale programma Shuttle, dato che il prolungamento della vita degli attuali orbiter era stato tassativamente vietato dal CAIB (Columbia Accident Investigation Board) definendo come data ultima il 2010, oltre la quale il sistema STS doveva subire una estesa ricertificazione con la revisione di tutti i parametri di volo. Beninteso: questo non vale per singoli voli rimasti da eseguire o aggiunti al programma per necessità dell’agenzia, ma un proseguimento stabile delle missioni Space Shuttle era assolutamente da escludere.

L’ASAP raccomanda inoltre di dare una nuova spinta all’esplorazione robotica, considerandone il rischio nullo per gli esseri umani.

Alla luce di queste nuove considerazioni, pare che il volo abitato americano sia in un vicolo chiuso e senza uscita, se non la prosecuzione del progetto Ares I/Orion.

Sono però convinto che molte cose siano cambiate da quel maledetto 2003 e che verranno considerate tutte le possibili alternative. Secondo me con Orion non si va da nessuna parte, al massimo la LEO o la Luna. Un progetto di più ampio respiro potrebbe aprire la strada all’esplorazione vera, al di fuori del nostro “cortile”.
Ma queste sono considerazioni personali…

Un pianeta per QS Vir

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Un pianeta per QS Vir
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Un pianeta per QS Vir
Un pianeta per QS Vir
Sarebbe uno spettacolo davvero splendido quello che potrebbe godere l’ipotetico abitante del pianeta appena scoperto in QS Virginis, con il cielo illuminato da due soli quasi appiccicati tra loro, uno bianco e l’altro rosso. Il sistema di QS Virginis, infatti, è costituito da una coppia di stelle – una nana rossa e una nana bianca – in orbita reciproca poste a 157 anni luce di distanza in direzione della costellazione della Vergine. Le due stelle sono davvero molto vicine tra loro (un paio di volte la distanza Terra-Luna) e orbitano l’una intorno all’altra in sole 3 ore e 37 minuti.

Impossibile distinguerle da Terra se non fosse che, per effetto della reciproca occultazione, la luce del sistema non mostrasse i periodici abbassamenti tipici delle variabili a eclisse. Lo studio accurato della temporizzazione di queste eclissi compiuto da un team di astronomi cinesi coordinati da Shengbang Qian (Osservatorio di Yunnan) ha portato i ricercatori a scoprire che i ritardi e gli anticipi rilevati potevano essere imputati alla presenza di un terzo oggetto. Secondo gli astronomi, cioè, intorno alle due stelle orbita un pianeta piuttosto massiccio. I calcoli di Qian e collaboratori indicano che la sua massa dovrebbe essere almeno sei volte e mezza quella di Giove e la sua orbita si collocherebbe a poco più di 4 unità astronomiche di distanza dalla coppia di stelle. Si tratterebbe dunque del primo pianeta scoperto intorno a una coppia di stelle così particolari come quelle del sistema di QS Virginis.

Il sistema, però, non è affatto destinato a durare. Man mano che perde energia orbitale a causa del vento stellare e dei campi magnetici, infatti, la nana rossa è destinata ad avvicinarsi sempre di più alla nana bianca, finché un giorno comincerà ad innescarsi un meccanismo dalle tragiche conseguenze. La nana bianca comincerà a sottrarre materiale alla compagna e ad accumulare sulla sua superficie uno strato sempre più spesso di idrogeno. Quando questo strato avrà raggiunto la quantità sufficiente si innescherà una rapidissima e violentissima sequenza di reazioni termonucleari che trasformeranno l’idrogeno in elio e in cielo si accenderà una nova.

La nana bianca trasformatasi in nova regalerà dunque a QS Virginis un momento di brillante celebrità. A quel punto, però, per l’ipotetico osservatore abitante il pianeta appena scoperto i giochi sarebbero davvero inesorabilmente terminati.

WISE apre gli occhi sulle stelle in Carina

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WISE Telescope
Una rappresentazione artistica del Telescopio Spaziale WISE
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WISE Telescope
Una rappresentazione artistica del Telescopio Spaziale WISE

Lanciata il 14 dicembre, la sonda WISE (come si chiama in breve) ha l’ambizioso progetto di scansionare l’intera volta celeste cercando milioni di oggetti “nascosti”, compresi asteroidi, stelle “mancate”, e potenti ma lontane galassie. In pratica, i dati raccolti da WISE serviranno come “mappe di navigazione” per altre missioni, come i telescopi con base nello spazio Hubble e Spitzer: il lavoro di WISE permetterà loro di effettuare puntamenti precisi verso gli oggetti più interessanti per i rispettive strumenti.

L’immagine WISE in infrarosso che è stata appena resa pubblica, è stata acquisita poco tempo dopo aver rimosso la copertura protettiva del telescopio stesso, esponendo così i rivelatori per la prima volta alla luce stellare. La foto mostra circa 3000 stelle nella costellazione di Carina, in una regione di cielo grande circa tre volte l’estensione della luna piena.

Tale regione è stata appositamente selezionata perché non contiene stelle particolarmente brillanti, che potrebbero danneggiare lo strumento se osservate troppo a lungo: l’utilità principale di tale immagine sarà infatti quella di effettuare una accurata calibrazione del motore di puntamento della sonda. Quando alfine comincerà il lavoro “ordinario” di WISE, terminati i controlli preliminari, la sonda scansionerà continuamente il cielo, raccogliendo milioni di immagini dell’intera volta celeste.

La prima “survey” sarà completata in circa sei mesi (data stimata: aprile 2011). mentre l’atlante e il catalogo “definitivo” dovrebbero essere pronti undici mesi più tardi, verso marzo del 2012. In ogni modo, già dal prossimo mese dovrebbero essere rese pubbliche delle immagini selezionate tra quelle più significative acquisite dalla sonda. La cosa si preannuncia davvero interessante: a noi per ora non resta che augurare buon lavoro a WISE…!

Nell’immagine, la suggestiva regione sulla quale ha aperto gli occhi WISE… “E’ pieno di stelle…!” si potrebbe dire citando il celebre film “2001: Odissea nello Spazio”.
Image credit: NASA/JPL-Caltech/UCLA

Attesa per Phoenix

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Attesa per Phoenix
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Attesa per Phoenix
Attesa per Phoenix
Sono oltre 14 mesi che la piccola sonda giace sotto una coltre di ghiaccio secco a temperature proibitive e per diversi mesi non ha neanche visto un solo raggio di Sole.

Se Phoenix sopravvive a queste condizioni estreme, riceverà ora sufficiente energia dal Sole per riattivare le sue funzioni di base e chiamare “casa”. Se succederà, la sonda orbitale Odyssey è pronta ad ascoltare il suo segnale e inviarcelo immediatamente.

“Durante queste campagne d’ascolto, attiveremo la radio di bordo di Odyssey nel momento in cui sorvolerà Phoenix, in modo da essere in grado di ricevere qualsiasi segnale dovesse giungere dalla superficie” ha detto Chad Edwards, capo ingegnere al Jet Propulsion Laboratory per le telecomunicazioni dei programmi marziani.

“Se Phoenix fosse vivo e trasmettesse, avremmo una rilevazione diretta basata sulla telemetria dell’orbiter che potrà rilevare il segnale UHF inviato dal lander”.

Odyssey inizierà ad ascoltare il 18 gennaio per 3 giorni, sorvolando la zona per ben 30 volte. Sono previste inoltre altre due campagne d’ascolto, una a metà febbraio ed un’altra a fine marzo.

“Resta molto improbabile che Phoenix possa essere sopravvissuto ai rigori dell’inverno polare marziano”, ha aggiunto Edwards, “ma se per caso lo fosse, saremo là ad ascoltare quello che avrà da dirci.

Attualmente la zona in cui si trova la sonda riceve circa 17 ore di Sole per Sol e quindi ci troviamo nelle condizioni presenti quando perdemmo i contatti con Phoenix. È per questo motivo che inizia ad avere senso sperare in un risveglio.

Le istruzioni del lander in caso di un risveglio sono di rimettersi in forze (caricare le batterie) e chiamare Terra per due ore al giorno. Odyssey passerà ed ascolterà per dieci minuti proprio ogni due ore assicurandosi così di captare un eventuale segnale.

In caso di risveglio, il primo compito per il lander sarà verificare quali componenti sono ancora in funzione, dopodiché verrà studiata una strategia per raccogliere, nuovamente, la maggior quantità di dati possibile.
Per aprile Phoenix sarà costantemente illuminato dal Sole, quindi, se è ancora “vivo”, avrà energia sufficiente per riavviarsi.

Nell’immagine in alto una vista dall’orbita della zona in cui si trova Phoenix.
Ripresa dalla High Resolution Imaging Science Experiment (HiRISE) del Mars Reconnaissance Orbiter il 6 gennaio.

E i tre finalisti sono…

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E i tre finalisti sono...
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E i tre finalisti sono...
E i tre finalisti sono...
Nei giorni scorsi la NASA ha reso pubblici i tre progetti che, dopo New Horizons (già in viaggio verso Plutone) e Juno (il cui lancio con destinazione Giove è previsto per l’agosto 2011), si contenderanno il privilegio di essere la terza missione del programma New Frontiers.

Davvero ben assortite le missioni finaliste. La prima, proposta dal Jet Propulsion Laboratory, è SAGE (Surface and Atmosphere Geochemical Explorer) e ha come destinazione Venere. Una sonda dovrà attraversare le spesse nubi del pianeta raccogliendo dati meteorologici e informazioni sulla composizione atmosferica e, giunta al suolo, strappare a Venere anche qualche segreto sulla composizione della sua superficie.

Il secondo progetto è stato presentato dal Goddard Space Flight Center e si chiama Osiris-Rex (Origins Spectral Interpretation Resource Identification Security Regolith Explorer). La destinazione della sonda è un asteroide e la missione prevede non solo di studiare accuratamente la morfologia del corpo celeste, ma anche di prelevare almeno mezzo etto di materiale dalla sua superficie e riportarlo sulla Terra.

Destinazione decisamente più vicina per il terzo finalista. La missione MoonRise, infatti, è rivolta verso il nostro satellite.
Anche questo progetto è gestito dal JPL e prevede che un lander si posi in un ampio bacino in prossimità del Polo Sud lunare, raccolga un chilo di materiale e lo riporti a Terra per uno studio dettagliato.

Ora ognuno dei tre progetti riceverà oltre 3 milioni di dollari per condurre un anno di studi dettagliati sulla fattibilità, i costi, la gestione della missione e tutti gli aspetti tecnici coinvolti. Gli studi serviranno alla NASA per scegliere nel 2011 il progetto vincitore che potrà disporre di un budget di 650 milioni di dollari (escluso il costo della messa in orbita) per diventare realtà.

E’ già stato comunque fissato il termine massimo entro cui la sonda prescelta dovrà iniziare il suo viaggio: il lancio dovrà avvenire entro il 30 dicembre 2018.

Titano: un riflesso rivelatore

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Titano: un riflesso rivelatore
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Titano: un riflesso rivelatore
Titano: un riflesso rivelatore
Era da un po’ di anni che gli scienziati attendevano di scorgere il riflesso della luce solare sulla superficie di qualcuno dei laghi che punteggiano l’emisfero nord di Titano. Finora, però, la grande luna di Saturno era stata avvolta dall’oscurità invernale ed era necessario pazientare e attendere l’equinozio dello scorso agosto e l’inizio della stagione primaverile.

Un colpo di fortuna, però, ha voluto che si riuscisse a catturare il sospirato riflesso luminoso già all’inizio di luglio. Benché la spessa atmosfera di Titano bloccasse i riflessi solari a molte lunghezze d’onda, quello splendido lampo luminoso è riuscito a sfuggire ed è stato immortalato dallo spettrometro visuale e infrarosso della sonda Cassini. La sorprendente immagine è stata presentata al pubblico lo scorso dicembre in occasione del Meeting autunnale dell’American Geophysical Union tenutosi a San Francisco.

L’accurata analisi dell’immagine e il confronto con quelle radar e infrarosse raccolte dal 2006 al 2008 hanno permesso a un team dell’Università dell’Arizona di individuare il bacino responsabile di quello storico riflesso. Si tratterebbe del Mare di Kraken, così nominato a ricordo del gigantesco e leggendario mostro marino. Questa distesa di idrocarburi liquidi posta a 71 gradi di latitudine nord e 337 gradi di longitudine ovest si estende su Titano per circa 400 mila chilometri quadrati, dunque è più vasta del Mar Caspio.

Il confronto avrebbe inoltre confermato che le sponde del Mare di Kraken sono rimaste pressoché le stesse negli ultimi tre anni e che dunque Titano possiede un attivo ciclo idrologico in grado di condurre idrocarburi liquidi sulla superficie.

Entusiasti gli astronomi. “Questa immagine – ha commentato Bob Pappalardo, Cassini project scientist – ci racconta un’incredibile quantità di cose di Titano, della sua spessa atmosfera, dei suoi laghi e della sua stranezza. Possiamo davvero considerarla una delle immagini simbolo della Cassini.”
Come dargli torto?

Sei anni su Marte

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Sei anni su Marte
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Sei anni su Marte
Sei anni su Marte
E’ dal 3 gennaio 2004 che Spirit compie il suo duro compito di esploratore del suolo marziano e il prossimo 24 gennaio toccherà anche al suo gemello Opportunity celebrare il sesto anniversario della missione. Sei lunghi anni di intenso e proficuo lavoro e viene un po’ da ridere a pensare che all’inizio si prevedeva che la missione durasse solamente tre mesi…

Opportunity è ancora in piena attività e sembra godere di ottima salute. Terminata l’esplorazione del piccolo cratere Victoria che lo ha tenuto impegnato per un paio d’anni, si è ora avviato verso Endeavor, un cratere ampio oltre 22 chilometri e distante una decina di chilometri da Victoria.
Dall’altra parte del pianeta, ormai in prossimità della stagione invernale, si sta invece consumando il dramma di Spirit. Intrappolato da ormai nove mesi in un banco di sabbia, non c’è stato proprio verso di riuscire a liberarlo. Se fino a qualche tempo fa la priorità dei tecnici era quella di riuscire a togliere il rover dalla sabbia e farlo nuovamente scorrazzare per il pianeta, ora le valutazioni si stanno indirizzando verso un’altra direzione. Avvicinandosi la stagione invernale, infatti, diminuirà sempre di più l’insolazione giornaliera e se i pannelli di Spirit non saranno posizionati al meglio il rover rischierà di rimanere senza energia.

Drammatico il quadro tracciato da Jennifer Herman, ingegnere del JPL: “Al ritmo attuale di accumulo della polvere e con i pannelli orientati come lo sono ora si riuscirà a malapena ad avere energia sufficiente a mantenere in funzione i generatori di calore di sopravvivenza durante il solstizio invernale di Marte.”

Tutto lascia credere, dunque, che i tentativi di togliere Spirit dalla sabbia verranno sospesi e si proverà invece a far inclinare il rover per ottimizzare l’orientamento dei suoi pannelli solari.

Probabilmente, però, il momento chiave della missione sarà in febbraio, quando la NASA stenderà il bilancio delle missioni su Marte. Dovendo distribuire risorse limitate sarà indispensabile valutare costi e benefici scientifici di ogni missione. E i tagli potrebbero essere anche molto dolorosi.

Buco nero quasi dietro l’angolo

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Buco nero quasi dietro l'angolo
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Buco nero quasi dietro l'angolo
Buco nero quasi dietro l'angolo
Le accurate misure astrometriche rese possibili dalle osservazioni interferometriche effettuate con l’High Sensitivity Array hanno permesso a un team internazionale di determinare la parallasse – e dunque la distanza dalla Terra – del buco nero di V404 Cygni ottenendo una misura di 7800 anni luce, valore molto più basso di quanto si era fino ad ora ipotizzato. I risultati sono stati pubblicati in dicembre su The Astrophysical Journal.

Coordinati da J.C.A. Miller-Jones (NRAO), i ricercatori hanno utilizzato una combinazione di radiotelescopi sparsi in tutto il mondo. Alle 10 antenne che costituiscono il VLB (Very Long Baseline Array), infatti, gli astronomi hanno affiancato anche i radiotelescopi di Arecibo (Portorico), Green Bank (West Virginia), Effelsberg (Germania) e le 27 parabole del VLA (Very Large Array) del New Mexico. Un dispiegamento di mezzi e di sofisticate tecniche interferometriche che ha permesso di impiegare anche per V404 Cyg la classica tecnica della parallasse trigonometrica. Sostanzialmente si tratta di misurare il minuscolo spostamento che un oggetto celeste sembra descrivere rispetto alle stelle di fondo. A parole un compito semplice, ma reso in realtà decisamente complicato dalle distanze in gioco e dunque dagli angoli incredibilmente minuscoli da rilevare.

La distanza di V404 Cyg è stata ottenuta inquadrando le emissioni radio provenienti dal buco nero e dalla stella morente che gli orbita intorno ed è caratterizzata da un margine d’errore davvero molto basso (minore del 6%). Questa precisione, unita con il fatto che la misurazione non dipende da alcun modello teorico, offre agli astronomi la possibilità di ottenere un quadro più accurato dei meccanismi che governano l’evoluzione del buco nero.

Si è ad esempio potuto appurare che il sistema, a seguito della spinta fornitagli in occasione dell’esplosione di supernova che ha originato il buco nero, si muove nello spazio alla velocità di 40 km al secondo. In casi simili, però, ci si aspetterebbe velocità più consistenti e in tal senso V404 Cyg sembra essere un sistema un po’ inusuale per il quale l’energico spintone della supernova si è rivelato essere solo una debole spintarella.

Le vagabonde blu di NGC 188

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Le vagabonde blu di NGC 188
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Le vagabonde blu di NGC 188
Le vagabonde blu di NGC 188
La prima osservazione delle cosiddette blue stragglers, come pure la scelta del loro nome, risale agli anni intorno al 1950. Osservando vecchi ammassi stellari ci si imbatteva in stelle che mostravano un aspetto decisamente più giovane delle altre, quasi avessero trovato la fontana della giovinezza. Nel corso degli anni sono state proposte alcune spiegazioni per giustificare questa stranezza e tutte quante chiamano in causa come elemento chiave di partenza una coppia di stelle in orbita reciproca.

In genere, gli scenari proposti suggeriscono che una delle due stelle finisca con l’essere inglobata dall’altra – una gigante rossa – che, grazie all’apporto di nuovo materiale, riaccenderebbe le reazioni nucleari tipiche di una stella giovane. Le difficoltà maggiori, però, stanno proprio nel giustificare questi scontri stellari, talvolta spiegati chiamando in causa il caos gravitazionale oppure l’azione di una stella esterna che, transitando in prossimità del sistema binario, ne sconvolgerebbe drammaticamente le orbite.

Proprio per cercare una risposta ai dubbi riguardanti le blue stragglers, Robert Mathieu e Aaron Geller, entrambi dell’Università del Wisconsin, hanno compiuto uno studio sul vecchio ammasso stellare NGC 188, un gruppo di stelle la cui età è stimata in circa 7 miliardi di anni posto a circa 5700 anni luce di distanza e osservabile nei pressi della stella Polare. I risultati ottenuti dai due astronomi, frutto di una decina d’anni di accurate osservazioni, sono stati pubblicati alla Vigilia di Natale su Nature.

Mathieu e Geller hanno scoperto che delle 21 blue stragglers individuate in NGC 188 ben 16, dunque il 76 per cento, appartengono tuttora a un sistema binario, una frequenza che è tre volte quella che solitamente si trova tra le normali stelle di tipo solare appartenenti alla sequenza principale. Studiando le dinamiche di questi sistemi, inoltre, i due ricercatori hanno notato sia una rotazione decisamente più elevata di quella tipicamente osservata nelle stelle con uguale temperatura superficiale, sia la particolarità delle orbite, quasi tutte con periodo di circa 1000 giorni e con una ben precisa distribuzione periodo-eccentricità.

Secondo i due astronomi tutte queste particolarità indicano che le blue stragglers provengono tutte da sistemi multipli giunti all’attuale situazione attraverso differenti meccanismi in grado anche di operare simultaneamente. In altre parole, i meccanismi dinamici invocati finora sono tutti ugualmente possibili dato che un ammasso stellare è un sistema dinamicamente molto vivace. “La presenza di un sistema binario composto da due blue stragglers – sottolinea Geller – è emblematica del complesso giro di danze e scambi di partner che hanno caratterizzato un ambiente così dinamicamente attivo come NGC 188.”

Insomma, guai a dire che la vita in un ammasso stellare scorre monotona e che le sue stelle vivono un’esistenza solitaria e senza emozioni.

Padova, 7 gennaio 1610: Galileo scopre nuovi mondi

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Padova, 7 gennaio 1610: Galileo scopre nuovi mondi
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Padova, 7 gennaio 1610: Galileo scopre nuovi mondi
Padova, 7 gennaio 1610: Galileo scopre nuovi mondi
Erano all’incirca le sei di sera di domenica 7 gennaio quando dalla sua casa padovana di Via de’ Vignali Galileo puntò per la prima volta il telescopio verso Giove.
Una data e un’ora precisa che, contrariamente alle pur importanti osservazioni lunari condotte in precedenza, sono leggibili nella configurazione di quanto osservato e dichiarate dallo stesso Galileo. Ed è forse da questo che si origina, al di là della straordinaria importanza della scoperta che ne seguì, la magia esercitata da un evento che può senz’altro essere considerato uno dei punti chiave
della rivoluzione scientifica seguita all’invenzione del telescopio.

Nella tarda serata del 7 gennaio Galileo intinse la penna nel calamaio, riprendendo in mano l’abbozzo di una lunga lettera steso qualche giorno prima. Alla descrizione delle osservazioni lunari delle ultime settimane, effettuate con un “occhiale il quale me la rappresenta di diametro venti volte maggiore di quello che apparisce con l’occhio naturale” decise di aggiungere qualche riga anche sull’apparenza telescopica delle stelle fisse, e sull’esistenza di molte altre invisibili a occhio nudo. Gli antichi a dire il vero ne avevano già disquisito, ed era ben nota la tesi di Democrito che la Via Lattea fosse composta da un formicolio di minutissime stelle; per quanto importante e “meravigliosa” l’osservazione non aveva una straordinaria valenza filosofica, tuttavia proprio quella sera, puntando per la prima volta un buon telescopio su Giove, gli era sembrato di notare alcune curiosità degne di nota:

Et oltre all’osservationi della Luna, ho nell’altre stelle osservato questo. Prima, che molte stelle fisse si veggono con l’occhiale, che senza non si discernono; et pur questa sera ho veduto Giove accompagnato da 3 stelle fisse, totalmente invisibili per la lor picciolezza, et era la lor configurazione in questa forma né occupava non più d’un grado in circa per longitudine. I pianeti si veggono rotondissimi, in guisa di piccole lune piene, et di una rotondità terminata et senza irradiatione; ma le stelle fisse non appariscono così, anzi si veggono folgoranti et tremanti assai più con l’occhiale che senza, et irradiate in modo che non si scuopre qual figura posseghino.

Nell’Immagine in alto
Il disegno della prima osservazione di Galileo, realizzato la sera del 7 gennaio verso le 18:00, messo a confronto con il reale aspetto della configurazione Giove-satelliti, calcolata per la stessa data. Come si può notare, Galileo vide solo tre delle quattro lune per il fatto che in quel momento due di esse (che oggi sappiamo essere Io ed Europa) si trovavano in una congiunzione così stretta (8″ di distanza) da essere percepite come un unico punto luminoso a causa del limitato potere risolutivo del suo strumento.

Il mistero del metano marziano

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Il mistero del metano marziano
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Il mistero del metano marziano
Il mistero del metano marziano
Due ricercatori dell’Imperial College di Londra, Richard Court e Mark Sephton, hanno nuovamente affrontato la questione del metano marziano. Dato che sul Pianeta rosso – a causa delle reazioni che avvengono in atmosfera sotto l’azione della luce solare – questo gas ha una vita piuttosto breve, è necessario individuare quale meccanismo sia attivo nel rimpiazzarlo altrettanto rapidamente.

Tempo fa si era ipotizzato che all’origine del metano potesse esserci l’attività vulcanica, ma poi l’idea era stata abbandonata. Era stato anche proposto che un ruolo chiave potessero averlo le meteoriti, riscaldate nel loro passaggio attraverso l’atmosfera di Marte, ma nel loro studio Court e Sephton hanno mostrato che tale apporto risulta troppo esiguo per giustificare il mantenimento degli attuali livelli di metano. La ricerca è stata pubblicata qualche giorno fa su Earth and Planetary Science Letters.

“Quando abbiamo ricreato in laboratorio l’infuocato arrivo dei meteoriti – spiega Court – abbiamo rilevato una quantità di gas davvero minima. Per quanto riguarda Marte, insomma, i meteoriti hanno fallito il test del metano.” I dati di laboratorio ottenuti dai due ricercatori hanno infatti indicato che l’origine meteoritica potrebbe giustificare solamente una decina di chilogrammi di metano ogni anno, di gran lunga lontani dalle 100-300 tonnellate richieste.

A questo punto, dunque, sembra proprio che non restino che due teorie in grado di spiegare in modo plausibile la presenza del metano: o il gas è un sottoprodotto di qualche reazione chimica tra le rocce vulcaniche e l’acqua, oppure viene prodotto da qualche processo metabolico imputabile a microorganismi marziani.

Diciamo la verità, la seconda ipotesi è sicuramente la più intrigante. Peccato, però, che per avere la certezza non ci sia altro modo che andare su Marte.

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