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Hayabusa è in arrivo

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Hayabusa è in arrivo

Hayabusa è in arrivo
Hayabusa è in arrivo
Mentre mancano due settimane al ritorno previsto sulla Terra, l’esploratore di asteroidi giapponese Hayabusa è nel bel mezzo di una serie di correzioni di traiettoria impresse dal suo motore a ioni superstite che la indirizzeranno entro uno stretto corridoio di rientro verso l’Australia.

L’agenzia spaziale giapponese (JAXA) ha comunicato che il veicolo è perfettamente in rotta per raggiungere il 13 giugno la Woomera Test Facility in Australia meridionale dove rientrerà alle 14:00 UTC, quindi nelle tarde ore serali in ora locale.

Il veicolo madre rilascerà circa tre ore prima del rientro la capsula di ritorno dei campioni di 40 cm di diametro mentre si troverà a circa 40’000 km di distanza dalla Terra. Durante l’attraversamento atmosferico dovrà sopportare i circa 2’700°C dell’attrito con l’aria, ma il piccolo guscio sarà protetto da uno scudo termico in fibra di carbonio. Infine i paracadute lo depositeranno dolcemente al suolo.

A causa dell’esaurimento dei propellenti chimici, i tecnici hanno dovuto utilizzare i propulsori a ioni che hanno alta efficienza ed affidabilità, ma bassa spinta. Normalmente vengono usati per lunghe accelerazioni dolci che possono durare anche migliaia di ore, ma qui sono stati usati per tutto.

Nelle tre accensioni programmate per queste ultime correzioni di rotta, durate ciascuna diversi giorni, l’ultimo motore a ioni operativo (su quattro che ne aveva) ha funzionato egregiamente sopperendo ai propulsori tradizionali ormai esausti.
La sonda ha completato giovedì scorso la sua terza accensione che in circa 100 ore ha variato la traiettoria di Hayabusa di 17,5 km/h. In questo modo la rotta è ora allineata con un punto teorico posto a circa 200 km al disopra della superficie terrestre.

Secondo i dati della Japan Aerospace Exploration Agency, la sonda si trova attualmente a circa 3,5 milioni di km dalla Terra e in queste due settimane correggerà la sua rotta almeno altre due volte.
La prima è prevista il 6 giugno e piegherà la traiettoria in modo da spostare il punto di tangenza e centrare l’Australia, dopodiché l’ultima correzione farà l’allineamento finale compensando ogni piccolo errore rimasto. Verrà eseguita tre giorni prima del flyby finale.

Hayabusa ha le dimensioni di una piccola utilitaria è stata lanciata dal Giappone nel 2003 ed ha impiegato tre mesi nell’esplorazione dell’asteroide Itokawa nel tardo 2005. Benché non sia certo che la capsula di rientro contenga dei campioni dell’asteroide, il Falco Pellegrino (questo è il significato del nome in Giapponese) è comunque una missione eccezionale dato che è la prima che esegue il viaggio di andata e ritorno da un asteroide.
Questo a patto che questo impavido viaggiatore da 200 milioni di dollari riesca a completare indenne queste ultime due settimane di viaggio.

Ganbatte Hayabusa!!
(Buona fortuna Falco Pellegrino!!)

Nella foto una rappresentazione artistica della sonda spaziale Hayabusa – Fonte: JAXA.

STS-132 Atlantis: fine missione.

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STS-132 Atlantis: fine missione.

STS-132 Atlantis: fine missione.
STS-132 Atlantis: fine missione.
Avvicinandosi da sud, il comandante Kenneth Ham ha preso i comandi a circa 15’000 metri di quota sopra lo spazioporto ed ha guidato Atlantis in una virata di 320 gradi per allinearsi alla pista numero 33 della Shuttle Landing Facility.
Mentre scendeva con un angolo di 21°, Ham ha tirato su il muso della navetta mentre il pilota Dominic “Tony” Antonelli estendeva il carrello permettendo un tranquillo touch-down alle 1248:11 UTC.

La durata della missione è stata di 11 giorni, 18 ore, 28 minuti e 2 secondi, eseguendo così 186 orbite complete e percorrendo oltre 7,8 milioni di chilometri.

Momento dolceamaro per i tecnici che attendevano il rientro di Atlantis, soprattutto perché, iniziando da questo atterraggio, si avranno soltanto più “ultime volte”: la navetta Atlantis ha toccato Terra per non lasciarla più.

Discovery sarà la prossima, a settembre od ottobre, mentre ad Endeavour toccherà il capitolo finale, alla fine di quest’anno o più probabilmente all’inizio del prossimo.

In teoria Atlantis potrà eseguire una ulteriore missione, ma solo se dovrà eseguire la missione di salvataggio per Endeavour nel caso che quest’ultimo si trovasse in grosse difficoltà durante la sua missione. In effetti l’orbiter appena rientrato tornerà nell’OPF per iniziare la preparazione per un volo che non verrà mai compiuto.
Quindi la prossima destinazione per Atlantis sarà un museo.

Varato dalle officine di Palmdale il 6 marzo del 1985, Atlantis ha effettuato la sua prima missione il 3 ottobre dello stesso anno eseguendo la STS-51J. Nella sua carriera ha eseguito cinque missioni militari, sette verso la Stazione Spaziale Russa MIR e 11 verso la ISS. Ha lanciato due sonde planetarie, la Magellano verso Venere e Galileo verso Giove, ha depositato in orbita il Compton Gamma Ray Observatory e l’anno scorso ha visitato il telescopio spaziale Hubble per la sua ultima missione di manutenzione.

Ha trasportato complessivamente 191 membri d’equipaggio durante 300 giorni in orbita e percorrendo oltre 190 milioni di chilometri.

Bentornato a casa, Atlantis.
Bentornato sul nostro pianeta per rimanerci per sempre…

In foto Atlantis pochi secondi prima di toccare la pista al Kennnedy Space Center – Foto cortesia di Stephen Clark – Spaceflight Now.

LOLA osserva i crateri lunari

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LOLA osserva i crateri lunari

LOLA osserva i crateri lunari
LOLA osserva i crateri lunari
A bordo del Lunar Recoinnaissance Orbiter (LRO) vi è il Lunar Orbiter Laser Altimeter (LOLA) della NASA che sta ricavando in questi mesi un modello della topografia completa della Luna e una griglia geodetica di notevole importanza per le future missioni lunari, in particolare per individuare i siti di allunaggio sicuri per robot mobili che si sposteranno da un punto all’altro del suolo lunare.
Recentemente, l’attenzione è stata puntata su un paio di crateri lunari, Einstein ed Einstein A che da Terra si osservano sul bordo ovest della Luna solo in particolari condizioni di visibilità.

Il cratere Einstein A è più giovane del cratere Einstein proprio per il fatto che Einstein A si viene a trovare al centro del cratere Einstein. I dati di LOLA hanno permesso di ampliare le conoscenze sull’età e la forma del cratere d’impatto. Einstein, in particolare, ha una dimensione di circa 198 chilometri di diametro. Le sole dimensioni del cratere, però, non sono sufficienti a determinare l’età del cratere stesso. Ma, dalla frequenza e dalla distribuzione dei crateri d’impatto che si sono venuti a formare sul bordo e sulla parte interna, si può fare una stima.

I crateri più giovani sono quelli che sono stati colpiti meno da impatti successivi e questo permette di mantenere la loro morofologia originaria. Einstein A rivela molto della sua struttura originaria, come la presenza di un bordo e la depressione che non è stata modificata nel corso del tempo da più piccoli impatti, cosa che invece si nota in corrispondenza del cratere Eistein.

Il loro nome, è superfluo ricordarlo, è legato al grande fisico Albert Einstein (1879-1955).

Giove ha perso una fascia

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Giove ha perso una fascia

Giove ha perso una fascia
Giove ha perso una fascia
Giove, dunque, ha approfittato del passaggio in congiunzione per cambiare look. Le osservazioni compiute fino al termine dello scorso anno, cioè fino a quando è stato possibile osservare il pianeta gigante prima che si nascondesse dietro il disco solare, non mostravano nulla di anormale. Una grande sorpresa, però, attendeva gli astronomi e gli astrofili qualche mese più tardi, al riemergere di Giove dalla luce solare.

Da qualche giorno, infatti, si è potuto notare che manca all’appello la fascia sud-equatoriale, la cosiddetta SEB (South Equatorial Belt), una delle due evidenti fasce più scure che caratterizzano Giove, visibili anche quando lo si osserva con strumenti amatoriali. All’origine delle fasce, come di numerose altre caratteristiche che rendono unico l’aspetto di Giove, vi è la natura gassosa del pianeta gigante e le incredibili turbolenze che si generano sia per il gradiente termico che per l’elevata velocità di rotazione. Il mix di sostanze chimiche e le reazioni che le coinvolgono finiscono poi col rendere tutto molto più pittoresco, colorando i vari elementi con tinte che vanno dal giallo, al rosso, al bianco e al marrone.

La scomparsa della SEB, comunque, non è affatto una novità assoluta. Ogni 3-15 anni, infatti, questa fascia equatoriale, una delle regioni più sensibili del gigantesco pianeta gassoso ai cambiamenti climatici, sfuma gradatamente fino a scomparire del tutto. Il fenomeno è noto come South Equatorial Belt Disturbance e la sua evoluzione la si può quasi osservare in tempo reale. Dopo che è rimasta invisibile per alcune settimane, infatti, la SEB comincia nuovamente a formarsi. Inizialmente si genera un ovale biancastro dal quale poi, quasi fosse un rubinetto aperto, comincia a riversarsi materiale più scuro proveniente dagli strati atmosferici più profondi. Ci pensano poi gli impetuosi venti equatoriali di Giove a stiracchiare quel materiale formando strisce più scure che pian piano avvolgeranno l’intero pianeta. Tempo qualche settimana, dunque, e Giove potrà sfoggiare una SEB nuova fiammante.

Nonostante qualche difficoltà osservativa, il momento è davvero unico per potersi gustare lo spettacolo di un pianeta Giove davvero insolito. E i lettori di Coelum non ci faranno certo mancare immagini spettacolari, magari un curioso e drammatico accostamento tra immagini recenti e riprese effettuate quando il pianeta non aveva ancora deciso di rifarsi il trucco.

STS-132 – Lo Space Shuttle Atlantis è in partenza!

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STS-132 - Lo Space Shuttle Atlantis è in partenza!

STS-132 - Lo Space Shuttle Atlantis è in partenza!
STS-132 - Lo Space Shuttle Atlantis è in partenza!
La preparazione dell’ultimo lancio dello Space Shuttle Atlantis, prevista per questa sera alle 19:30 (ora italiana) prosegue alla perfezione e senza alcun intoppo.

Segui il lancio in diretta sul web alle 19:30 su Coelum Stream! Con commento audio in italiano a cura dello staff ISAA e AstronautiCAST. Per seguire la diretta clicca qui .

Il 10 Maggio scorso sono arrivati al Kennedy Space Center i sei componenti dell’equipaggio per la preparazione finale al lancio.

L’ 11 maggio alle 21:30 italiane c’è stata la “Call to Stations”, la chiamata alle postazioni che avvia solennemente l’inizio del countdown fissato per le ore 16 in Florida, cioè le 22 italiane.

Intanto si è saputo che uno dei problemi a cui si è discusso molto alla FRR finale è stato il difetto alle campane dei motori che presentano curiosamente una grande quantità di microfori. I motori di Atlantis hanno le campane riparate, ma sono state elaborate diverse teorie sulla causa di queste micro fratture.

Herschel guarda la culla delle stelle

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Herschel guarda la culla delle stelle

Herschel guarda la culla delle stelle
Herschel guarda la culla delle stelle
Alla vigilia del primo compleanno in orbita, l’osservatorio spaziale Herschel porta a casa nuove spettacolari immagini che mostrano particolari finora sconosciuti del processo che dà vita a nuove stelle.

Gli scatti di Herschel mostrano nubi di stelle in formazione lungo tutta la Via Lattea e galassie lontane in piena attività come fossero delle vere e proprie fucine stellari.
Ma è un’immagine in particolare a catturare l’attenzione dei ricercatori dell’Esa riuniti a Noordwijk in Olanda per la presentazione dei primi risultati scientifici di Herschel.
Il potente occhio del telescopio Esa ha infatti catturato l’embrione di una nuova stella molto speciale, chiamata RCW 120, definita dagli scienziati “impossibile” e candidata a diventare una delle stelle più grandi e luminose della nostra galassia entro alcune centinaia di migliaia di anni.

La sua massa attuale è tra le otto e le dieci volte quella del nostro Sole ed è avvolta in una nube di gas e polveri in espansione grande quanto 2000 masse solari. “Ed è destinata a crescere”, spiega Annie Zavagno del laboratorio di astrofisica di Marsiglia. Questo basta a definire RCW 120 un astro “impossibile”. “In base alle nostra attuali conoscenze su questi corpi celesti- continua la Zavagno- non possono esistere stelle in formazione con una massa otto volte superiore quella del Sole”. Questo perché la violenta emissione di luce da parte di stelle tanto grandi dovrebbe allontanarsi dalla nube embrionale prima dell’accumularsi della massa. Ma a volte questo non succede dando vita a stelle “giganti”. Alcune di questi oggetti “impossibili”, corpi con una massa pari a 150 volte il nostro Sole, sono già state osservate. Si tratta di stelle massive molto rare e dalla vita breve. Per questo catturarne e seguirne una durante la sua nascita, come sta facendo Herschel, rappresenta un’occasione unica per risolvere questo irrisolto paradosso astronomico.

Herschel, lanciato il 14 maggio dello scorso anno insieme al “gemello” Planck, è il telescopio astronomico più grande mai inviato nello spazio. Il diametro del suo specchio principale è quattro volte maggiore di ogni altro osservatorio all’infrarosso mai realizzato ed è una volta e mezzo quello di Hubble. Quando una stella inizia a formarsi, il gas e la polvere che la circondano si riscaldano fino a raggiungere una temperatura di circa dieci gradi sopra lo zero assoluto e iniziano a emettere nelle lunghezze d’onda dell’infrarosso. Dato che l’atmosfera terrestre filtra la maggior parte di queste onde è necessario osservarle da un luogo privilegiato: lo spazio.

Grazie alla risoluzione e alla sensibilità dei suoi strumenti, Herschel sta compiendo un censimento celeste di quelle regioni della nostra galassia dove si stanno producendo nuove stelle. “Prima di Herschel non era chiaro come la materia presente nella Via Lattea si aggregasse fino a formare una densa massa alla temperatura necessaria per dare vita a nuove stelle, spiega Sergio Molinari, dell’Istituto di Fisica dello Spazio Interplanetario di Roma.

Problemi per la Voyager 2

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Problemi per la Voyager 2

Problemi per la Voyager 2
Problemi per la Voyager 2
La sonda ha iniziato alcuni giorni fa ad inviare dati corrotti: un problema nella formattazione dei dati raccolti renderebbe indecifrabile il blocco dati inviato. In realtà non tutte le informazioni provenienti dal lontanissimo veicolo sono illeggibili, ma soltanto le informazioni scientifiche.

La Voyager 2 si trova a qualcosa come 92 unità astronomiche dal Sole, equivalenti a 13,8 miliardi di chilometri. Le comunicazioni impiegano ben 12,71 ore a raggiungerla e altrettanto per tornare indietro.

L’anomalia è sotto studio e dopo aver messo la sonda in una modalità di invio dei semplici dati diagnostici, i tecnici stanno tentando la riparazione.

Sono 33 anni che viaggia nello spazio e sarebbe un peccato perderla ora che sta uscendo dalla eliosfera (la zona d’influenza del nostro Sole).

La Voyager 2 è stata una delle prime sonde spaziali automatiche realizzate per l’esplorazione del Sistema Solare esterno, ed è ancora in attività. Fu lanciata il 20 agosto 1977 dalla NASA da Cape Canaveral, a bordo di un razzo Titan-Centaur, poco prima della sua sonda sorella, la Voyager 1, in un’orbita che l’avrebbe portata nel tempo a visitare i maggiori pianeti del Sietema Solare.

Testato il LAS di Orion

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Testato il LAS di Orion

Testato il LAS di Orion
Testato il LAS di Orion
Il test effettuato il 6 maggio nella base di White Sands Missile Range, nel New Mexico, è costato 220 milioni di dollari ed è riuscito alla perfezione.
Si trattava del collaudo della torre di fuga d’emergenza per la nuova capsula Orion (il LAS, Launch Abort System) ed è stato effettuato partendo da terra.

Il simulacro della capsula agganciato al LAS è partito alle 1300 UTC ed è schizzato verso l’alto con un’accelerazione bruciante. Pensate che in due secondi e mezzo era già a circa 700 km/h imprimendo un’accelerazione di circa 16g. Per salvaguardare l’incolumità di un possibile equipaggio, i parametri di spinta verranno rivisti per evitare di superare un’accelerazione di 10 g. I motori del torrino sono a propellente solido e generano una spinta di 225 tonnellate. Il motivo di un allontanamento così rapido è dato dal fatto che il LAS deve intervenire in caso di guasto al vettore o, peggio, in caso di esplosione dello stesso. Un’accelerazione di questo tipo garantisce una via di fuga sicura.

La spinta è durata solo sei secondi al termine della quale il simulacro si trovava già a 1200 metri di quota. La sua parabola lo ha portato fino a 1800 metri, dopodiché Orion si è separato dal LAS (che ha altri piccoli motori per allontanarsi) ed ha iniziato la discesa con l’apertura dei paracadute pilota ed infine dei tre paracadute principali del diametro di 35 metri ciascuno, che hanno depositato dolcemente la capsula al suolo.
Il simulacro è stato costruito appositamente per questo test e non verrà più utilizzato.

Resta importantissimo questo test in quanto il tipo di sistema di fuga collaudato può essere utilizzato per qualsiasi capsula, quindi anche altri modelli o Orion stesso montato su un altro vettore diverso da Ares I ormai cancellato.

La marea nera influisce sulla NASA

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La marea nera influisce sulla NASA

La marea nera influisce sulla NASA
La marea nera influisce sulla NASA
Allo stabilimento Michoud Facility della Lockheed Martin hanno da poco terminato la costruzione del penultimo serbatoio esterno del programma Shuttle, quello che servirà al Discovery a settembre per eseguire la sua ultima missione.
La chiatta Pegasus si trova in Louisiana dove è stata caricata con l’enorme “siluro”, ma contrariamente al solito, non sarà la Freedom Star, una delle due navi della NASA che si occupano di recuperare gli SRB dopo le missioni, a trasportarla al KSC, bensì un rimorchiatore commerciale che eseguirà la prima parte delle 900 miglia di viaggio prima di passare il carico al vascello tradizionale.
Questo a causa della chiazza di petrolio che si sta allargando nel Golfo del Messico. La Freedom Star per evitare rischi inutili si trova ora nel porto di Gulfport in Mississippi pronta ad incrociare, nella mattinata di martedì, la rotta della chiatta per subentrarne nel trasporto.

La partenza è prevista per questa sera, lunedì 3 maggio.
Dato che il tempo a disposizione è veramente molto, non ci dovrebbero essere problemi con le tempistiche di preparazione delle varie missioni, anche se qualsiasi intoppo porta sempre un po’ di preoccupazione nella dirigenza del Programma Space Shuttle.

Qui si sta parlando dell’External Tank n° 137 che in un primo tempo era assegnato alla STS-134 quando doveva essere eseguita a luglio, mentre ora è destinato alla STS-133 in partenza a settembre. Il prossimo serbatoio che verrà terminato, fra circa un mese, sarà il n° 138, ultimo esemplare, ora assegnato all’Endeavour per la STS-134 di novembre.

In foto il caricamento dell’ET sulla chiatta Pegasus a Michoud.

Space Shuttle Mission News

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Space Shuttle Mission News

Space Shuttle Mission News
Space Shuttle Mission News
È stato ufficializzato il 26 aprile scorso lo spostamento dell’ultima missione di Endeavour.
L’esperimento AMS è in fase di ripristino per la sostituzione del magnete principale e non potrà arrivare al Kennedy Space Center per la preparazione al volo prima del tardo agosto di quest’anno. Di conseguenza il lancio di STS-134 (missione con una durata prevista di almeno 12 giorni) non potrà avvenire il 29 luglio, ma dovrà superare STS-133 (previsto per metà settembre) e portarsi a novembre, circa a metà mese.

Ma c’è un problema.
L’esposizione solare della ISS ha i famosi momenti di “beta cutout” quando per evitare surriscaldamenti deve restare di taglio rispetto ai raggi solari. In questi periodi non possono esserci missioni Shuttle perché, essendo la navetta attraccata ad una estremità e posta perpendicolare all’asse principale della Stazione, sarebbe illuminata e quindi scaldata eccessivamente. Ebbene, uno dei periodi di “beta cutout” è proprio dall’8 al 25 novembre.

Ma non basta.
Il 26 novembre lascia la stazione una Expedition e il 10 è previsto che arrivi quella successiva (della quale farà parte il nostro Paolo Nespoli). Se c’è lo Shuttle sulla Stazione gli altri veicoli non possono muoversi e quindi non abbiamo sufficienti giorni per una missione completa.

Pensate che sia finita? Invece no.
Dal 15 dicembre non si può lanciare, dato che la NASA ha sempre evitato di far subire ai computer di bordo degli Shuttle un cambio di anno in missione, per timori di comportamenti imprevisti nei vari software di bordo.
E quindi si passa all’anno nuovo.

Ma non finisce qui.
Dal 4 al 20 gennaio c’è nuovamente un “beta cutout” e quindi bisogna saltare a fine gennaio.

Ora sappiamo che non si parte più a luglio, ma a questo punto la data di febbraio è decisamente la più probabile.

Per la STS-132 il carico (composto dal modulo russo Mini Research Module-1/Rassvet e da una serie di pezzi di ricambio per la Stazione) è stato trasferito nella stiva di Atlantis. Intanto al pad i camion del rifornimento hanno riempito il serbatoio dell’idrogeno liquido, una delle due grandi sfere bianche che sono installate all’estremità dello spiazzo della rampa (l’altra è per l’ossigeno che è stato caricato un paio di giorni fa).

Esiste ancora una possibilità di rinvio “d’ufficio” della STS-132 a causa della eccessiva distanza dalla successiva missione (la STS-133 a settembre) dato che dovrebbe essere la missione di soccorso se capitasse qualcosa all’Atlantis.

I tecnici stanno verificando se la ISS è in grado di dare sostentamento a 12 persone (6 residenti e 6 dell’Atlantis) per quattro mesi nel caso che la navetta risulti danneggiata. Prima dello spostamento di STS-134, era quest’ultima a dover eseguire l’eventuale soccorso, ma con soli 2 mesi e mezzo di ritardo.

Per la STS-133, Discovery si trova nella baia 3 dell’OPF e domenica è stato rimosso Leonardo dalla stiva. Intanto i tecnici stanno eseguendo i test sui motori di manovra anteriori.

Venti di questi anni Hubble!

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Venti di questi anni Hubble!

Venti di questi anni Hubble!
Venti di questi anni Hubble!
Era il 24 aprile 1990: lo Space Shuttle Discovery “depositava” in orbita l’Hubble Space Telescope. Nel corso dei venti anni successivi, le immagini del cosmo riprese dal telescopio orbitante hanno letteralmente rivoluzionato diversi campi delle scienze astronomiche, dalla planetologia alla cosmologia.

In questi due decenni non sono mancati incidenti di percorso: a cominciare dallo specchio difettoso che durante i primi anni di vita dl telescopio ne comprometteva seriamente le prestazioni, e che ha richiesto l’installazione di ottiche correttive nel corso di diverse “Servicing Missions” (le missioni Shuttle dedicate alla manutenzione del telescopio). Fino all’ultima missione di riparazione, quella destinata a prolungarne la vita: prevista, poi rimandata sine die dopo il disastro del Challenger, infine approvata e perfettamente eseguita lo scorso anno.

Ora però il futuro di Hubble è assicurato, fino almeno al 2014, data in cui dovrebbe dargli il cambio il James Webb Space Telescope, che proseguirà nell’infrarosso lo straordinario lavoro di osservazione che Hubble ha svolto nell’ottico.

La NASA celebra ora i venti anni di quello che è forse il suo strumento scientifico più popolare, con una nuova immagine della Carina Nebula (sopra un dettaglio, qui è visibile la versione in grande formato) una porzione di cielo molto studiata perché in essa è particolarmente intensa la nascita di nuove stelle.

L’uomo su Marte nel 2030

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L'uomo su Marte nel 2030

L'uomo su Marte nel 2030
L'uomo su Marte nel 2030
“La questione per noi è se questo sia l’inizio o la fine di qualcosa. Io preferisco credere che sia l’inizio”: è solo uno dei passaggi del discorso tenuto il 15 aprile dal presidente Usa Barack Obama al Kennedy Space Center della NASA in Florida, ma rende bene il sapore di tutto il resto. Il Rapporto Augustine, reso pubblico a novembre dello scorso anno, aveva analizzato e messo in fila uno per uno tutti i nodi problematici dei progetti in cantiere e chiedeva alla politica di fare delle scelte. Adesso le scelte sono arrivate. Con delle scadenze precise. La più altisonante, quella che ha suggerito il titolo ai giornali di mezzo mondo, resta sicuramente l’immagine dell’uomo su Marte.

Obama ha detto chiaramente che l’esplorazione umana dello Spazio profondo è l’obbiettivo più importante e che il pianeta rosso verrà raggiunto negli anni Trenta di questo secolo. Il razzo capace di arrivare fin lassù sarà progettato nei prossimi cinque anni, mentre dal 2015 si comincerà a svilupparlo e costruirlo. Nel frattempo si lavorerà al successore dello Shuttle e verranno avviate una serie di partership strutturali coi privati per tutti i trasporti, inclusi quelli umani, nelle orbite basse. Proprio per questo verrà avviata e conclusa entro il 2012 una complessa ristrutturazione di tutto il Kennedy Space Center.

La stop al programma Constellation, che aveva generato negli Stati Uniti infinite polemiche sul futuro della NASA, non significa dunque un ritiro dall’esplorazione umana dello Spazio. Di fatto resta sicuramente escluso dal programma di rilancio della NASA solo il razzo Ares X-1, quello che avrebbe dovuto servire le orbite basse. Mentre il progetto del vettore maggiore (probabilmente assieme allo sviluppo di un propulsore ad energia nucleare) riprenderà sicuramente quota. In termini economici, al budget della NASA si aggiungeranno altri sei miliardi di dollari, di cui 3,1 dedicati proprio alla progettazione del nuovo razzo. Sul piano dell’occupazione, che sta pagando al momento un prezzo molto pesante in Florida (si calcola che il pensionamento dello Shuttle potrebbe costare circa 7mila posti di lavoro) il nuovo programma creerà nel breve termine 2500 nuovi impieghi.

“Se parliamo di esplorazione umana dello Spazio – ha dichiarato il presidente dell’ASI Enrico Saggese commentando le dichiarazioni di Obama al quotidiano La Stampa – il resto dell’Occidente non può fare a meno della leadership americana”. Ma portare astronauti ad orbite elevate non è certo l’unico modo per osservare l’Universo. “Al di fuori dell’esplorazione umana – sottolinea Saggese, riferendosi alle missioni ESA su Marte ExoMars del 2016 e 2018 – abbiamo ruoli di leader (…) questo perché nelle missioni marziane coi robot si spende 500 volte di meno di quelle con esseri umani”. Senza dimenticare, comunque, che “nell’esplorazione umana l’Italia fornisce il 19% di quanto spende l’ESA e cura importanti esperimenti sulla Stazione Spaziale”.

Aggiornamento sulle Missioni Shuttle

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Aggiornamento sulle Missioni Shuttle

Aggiornamento sulle Missioni Shuttle
Aggiornamento sulle Missioni Shuttle
Aggiornamento importante per quanto riguarda le ultime missioni Shuttle.

STS-132 – Atlantis.
Il carico è già in rampa e per questa notte (a partire dalla mezzanotte UTC – le 2 italiane) si prevede il rollout, lo spostamento dello stack completo composto da Orbiter, serbatoio e razzi a propellente solido, fino alla rampa 39/A. Domani è anche previsto l’arrivo dell’equipaggio per i primi test. Se tutto va bene potrebbe esserci un incrocio virtuale fra il Discovery in atterraggio e l’Atlantis in rampa. Ovviamente se il meteo peggiorasse il rollout verrebbe rinviato.

STS-133 – Discovery.
Il probabile rientro di domani porterà la navetta nell’OPF per la preparazione a questa missione che prevede anche l’allestimento del MPLM Leonardo per essere installato permanentemente sulla Stazione Spaziale. Le ultime notizie danno uno spostamento della data di lancio dal 16 settembre ad almeno la metà di ottobre. E’ stato anche annunciato da poco che a bordo della STS-133 sarà presente anche Robonaut-2 (R2), un androide che inizierà ad operare nel laboratorio Destiny per collaudare le ultime applicazioni in campo robotico. Sarà quasi un vero e proprio componente dell’equipaggio grazie alle sue capacità operative molto avanzate e al suo aspetto antropomorfo. Se la sperimentazione andrà bene, R2 potrà successivamente anche spostarsi all’interno della Stazione e in seguito eseguire delle attività extraveicolari.

STS-134 – Endeavour.
Questa è la missione più penalizzata. Il carico principale AMS-2 ha dei problemi legati al rendimento del magnete superconduttore che ne è il cuore.
Gli scienziati addetti alla preparazione si sono resi conto che il magnete della prima versione dell’esperimento era più performante e per permettere un tempo di funzionamento più lungo degli attuali 18 mesi garantiti dall’attuale magnete, hanno deciso di sostituirlo, operazione che porterà via parecchio tempo.
Alla luce di questa decisione il lancio previsto per il 29 luglio è destinato ad essere rinviato. La prima possibilità è rappresentata dal novembre 2010, anche se la contemporanea posticipazione della missione precedente renderebbe i due lanci troppo vicini. Si è quindi fatta strada la possibilità di rinviarla a febbraio 2011, data che probabilmente verrà definitivamente presa in considerazione.

In foto una curiosa situazione che si era creata il 9 agosto 1990, quando il Columbia e l’Atlantis si incrociarono sulla Crawlerway con il primo diretto in rampa ed il secondo che effettuava un rollback nel VAB.
Fonte: NASA.

La vita nascosta dei buchi neri

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La vita nascosta dei buchi neri
La vita nascosta dei buchi neri
La vita nascosta dei buchi neri

Quando due galassie collidono tra loro, evento piuttosto comune in un universo ancora giovane, il buco nero supermassiccio della galassia più grande fa i salti di gioia. Si trova infatti improvvisamente a disposizione un’incredibile quantità di gas da poter inghiottire, strada facile facile per una crescita senza problemi. Logico, però, supporre che gas e polveri agiscano anche come efficace schermatura, impedendoci di osservare la frenetica attività – e la connessa produzione di energia – del buco nero: soltanto dopo che questa coltre si sarà dissolta saremo in grado di osservare un brillante quasar. Il gioco a nascondino era noto, un po’ meno quanto tempo durasse l’oscuramento dei quasar in quei periodi di frenetica acquisizione di materia.

I primi quasar oscurati dalle polveri vennero faticosamente scoperti solamente verso la fine degli anni Novanta e per anni, proprio per la difficoltà a individuarli, gli astronomi ritennero che si trattasse di oggetti celesti estremamente rari. Ora, fortunatamente, non è più così ed è stato dunque possibile tentare un’analisi statistica, mettendo a confronto il numero dei quasar nascosti e di quelli ormai liberatisi dal mantello di polveri. Grazie alle osservazioni di Hubble, Chandra e Spitzer, un team di astronomi è riuscito a determinare che il rapporto tra quasar oscurati e non oscurati è significativamente più elevato nel giovane universo che non in epoche più vicine a noi. Poiché in quei tempi remoti le fusioni tra galassie erano molto più frequenti, è naturale collegare a tali episodi di merging la produzione di quasar.

Mettendo poi in relazione le osservazioni telescopiche con la stima del tasso di fusioni galattiche e i relativi modelli, i ricercatori hanno potuto determinare quanto tempo occorresse perché il buco nero supermassiccio riuscisse a liberarsi dell’involucro di polveri per apparire come un brillante quasar. “Abbiamo trovato – spiega Priyamvada Natarajan, docente di Astronomia a Yale e appartenente al team di ricerca – che questi buchi neri attivamente impegnati a crescere trascorrono circa metà della loro esistenza nascosti tra le polveri. E’ dunque probabile che finora ci sia sfuggita circa la metà dei buchi neri che si stavano sviluppando nel giovane universo.”

La ricerca è stata pubblicata a fine marzo su Science Express.

I misteri di Mimas

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I misteri di Mimas

I misteri di Mimas
I misteri di Mimas
Mimas, curiosa luna di Saturno, non cessa di stupire. I dati termici rilevati dalla sonda Cassini, infatti, mostrano un andamento delle temperature completamente diverso da quello che ci si attendeva.

Perfettamente logico prevedere che per un corpo celeste le regioni che hanno il Sole proprio sulla verticale o sono nel primo pomeriggio presentino una temperatura più elevata. Per Mimas, però, non è così. Nel corso del flyby avvenuto a metà febbraio, lo strumento CIRS (Composite Infrared Spectrometer) a bordo della sonda Cassini ha rilevato le temperature di Mimas ed è emersa una distribuzione misteriosa e curiosa allo stesso tempo. Curiosa perché le immagini fanno assomigliare Mimas a un gigantesco pac-man (mitico protagonista dei videogames ideato da Tohru Iwatani esattamente trent’anni fa). Misteriosa perché proprio non è chiaro a cosa possa essere dovuta.

Si potrebbero associare le differenze di temperatura alle diverse tipologie del terreno, pesantemente modificato dall’impatto che ha creato l’enorme cratere Herschel, ma risulta comunque difficile ipotizzare che quelle variazioni non abbiano risentito del continuo bombardamento di polvere cosmica. A detta degli astronomi, però, un ruolo cruciale potrebbe giocarlo la continua caduta su Mimas di materiale ghiacciato proveniente dall’anello E di Saturno.

Comete e vita

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Comete e vita

Comete e vita
Comete e vita
Benché nello spazio abbondino i composti a base di carbonio (i cosiddetti composti organici), come sulla Terra si sia giunti alla sintesi degli amminoacidi e allo sviluppo della vita è ancora un mistero. Alcune teorie parlano di una sorta di brodo primordiale composto da molecole elementari sulle quali hanno agito le scariche elettriche di violenti fulmini, altre collocano la creazione delle molecole organiche direttamente nello spazio. Un recente studio pubblicato su Nature aggiunge ai possibili scenari anche l’impatto radente di una cometa.

Nir Goldman (Lawrence Livermore National Laboratory) e i suoi collaboratori hanno predisposto una serie di simulazioni computerizzate per osservare quali reazioni chimiche potessero verificarsi quando i ghiacci di una cometa fossero stati coinvolti in un evento così estremo come un impatto. Per garantire un minimo di sopravvivenza ai composti eventualmente creatisi grazie alle elevate pressioni e temperature, le simulazioni hanno previsto un impatto radente con il nostro pianeta. La composizione dei ghiacci cometari introdotta nelle simulazioni è un mix di oltre 200 molecole, tra cui acqua, metanolo, ammoniaca e ossidi di carbonio, una composizione comunemente utilizzata dai planetologi per descrivere i ghiacci cometari.

In alcuni casi i ricercatori hanno notato la formazione di numerose molecole caratterizzate da legami tra azoto e carbonio, tra cui l’acido cianidrico e l’urea, e numerosi idrogenioni. Cosa più interessante, le simulazioni hanno mostrato anche composti molto simili alla glicina (il più semplice degli amminoacidi) con appiccicate molecole di anidride carbonica. Secondo Goldman tali composti potrebbero reagire spontaneamente con gli idrogenioni producendo glicina, acqua e anidride carbonica.

In via teorica il meccanismo funziona, ma ora ci si aspetta si vedere grazie a ulteriori calcoli le reali probabilità del suo verificarsi. Senza comunque dimenticarci che le comete in viaggio verso la Terra avrebbero già potuto trasportare al loro interno tali preziosissimi elementi chimici. In tal caso l’unico elemento davvero necessario sarebbe un impatto il meno energetico e distruttivo possibile.

La corsa dei flussi solari

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La corsa dei flussi solari

La corsa dei flussi solari
La corsa dei flussi solari
Il moto del plasma solare non è completamente caotico. All’interno del Sole, infatti, vi sono due imponenti correnti di plasma – una nell’emisfero settentrionale e l’altra in quello meridionale – denominate Great Conveyor Belt. Secondo gli astrofisici sarebbero queste circolazioni di materia a regolare il ciclo delle macchie solari.

Recenti misurazioni della velocità di circolazione della corrente nord effettuate da David Hataway (NASA) grazie agli strumenti dell’osservatorio solare orbitante SOHO (Solar and Heliospheric Observatory) hanno mostrato i valori più alti degli ultimi cinque anni. Abituati in ambito astronomico a valori limite, conviene subito quantificare la velocità di questo flusso di plasma per evitare fraintendimenti: si parla di valori compresi tra i 10 e i 15 metri al secondo (tra i 36 e i 54 km/h), velocità che un buon pedalatore potrebbe tranquillamente sostenere. Per completare un ciclo completo, insomma, ciascuna delle due correnti impiega una quarantina d’anni.

Le misure di Hataway, però, hanno portato con sé un paio di grosse sorprese. La prima riguarda proprio le macchie solari. Secondo i modelli correnti sarebbero queste correnti di plasma a determinare la produzione di macchie e una velocità più elevata dovrebbe coincidere con una maggiore produzione di macchie. Qualcosa, però, non quadra: il Sole, infatti, sta attraversando un lunghissimo periodo caratterizzato dalla pressoché completa assenza di macchie solari. La Great Conveyor Belt, insomma, non sarebbe la causa delle macchie solari, ma agirebbe piuttosto come inibitore della loro produzione.

La seconda sorpresa riguarda la componente più profonda della corrente di plasma. Benché si tratti di misurazioni estremamente delicate (riguardano flussi di plasma a 200 mila chilometri di profondità), si è visto con chiarezza che mentre la componente superiore scorre a velocità record, quella inferiore è caratterizzata da velocità estremamente basse. Una misteriosa contraddizione, dunque.

Come ha sottolineato lo stesso Hataway, insomma, i nuovi dati sfidano gli attuali modelli del ciclo solare e impongono di provare a proporne di alternativi.

Buchi neri e materia oscura

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Buchi neri e materia oscura
Buchi neri e materia oscura
Buchi neri e materia oscura

Dato che circa il 23% dell’universo è costituito dalla enigmatica materia oscura, riuscire a tracciarne la presenza sarebbe un gran bel colpo per gli astronomi. Xavier Hernandez e William Lee, astronomi dell’UNAM (Università Nazionale Autonoma del Messico), hanno appena pubblicato su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society uno studio teorico che potrebbe risultare davvero molto utile.

Attraverso simulazioni numeriche i due ricercatori hanno provato a determinare in che modo i buchi neri massicci posti al centro delle galassie possano assorbire la materia oscura e hanno scoperto che il ritmo di assorbimento è molto sensibile alla quantità di materia oscura che si trova nei pressi del buco nero. Se tale concentrazione supera la densità critica di sette masse solari per anno luce cubico, la massa del buco nero cresce così rapidamente e il quantitativo di materia oscura ingoiato è così elevato da rendere in breve tempo l’intera galassia irriconoscibile.

Le simulazioni, inoltre, mostrerebbero che la densità della materia oscura nelle regioni centrali delle galassie tenderebbe a un valore costante. Secondo Hernandez e Lee, però, qualche differenza tra le loro conclusioni e i modelli correnti di evoluzione dell’universo potrebbero rendere necessario un aggiustamento delle modalità di comportamento della materia oscura.

La caccia alla vera natura della materia oscura, insomma, è ancora piuttosto lontana dalla sua conclusione.

L’affidabilità del CO e del Calcio II

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L'affidabilità del CO e del Calcio II

L'affidabilità del CO e del Calcio II
L'affidabilità del CO e del Calcio II
Nello studio dell’evoluzione dell’universo è fondamentale saperne il più possibile dei meccanismi che hanno portato alla costruzione delle galassie. Una tra le proprietà critiche di cui poter disporre è la massa delle galassie, un parametro che si può dedurre studiando il moto delle stelle che le compongono.

Le misure solitamente impiegate, soprattutto per le galassie più splendenti nell’infrarosso (le cosiddette LIRG – Luminous InfraRed Galaxies e ULIRG – Ultra Luminous InfraRed Galaxies), coinvolgono osservazioni delle linee di CO nel vicino infrarosso. Tali osservazioni, però, portano a valutazioni molto dissimili da quelle ottenute nel dominio visibile osservando le linee del tripletto del calcio II. Le osservazioni infrarosse, infatti, forniscono sistematicamente una valutazione inferiore della massa e il dubbio degli astronomi era se questo fosse dovuto a una particolare caratteristica delle LIRG e ULIRG studiate oppure dipendesse dalle osservazioni del CO.

Per venirne a capo, Barry Rothberg e Jacqueline Fischer (Naval Research Laboratory) si sono affidati alla vista acuta del telescopio Gemini e al suo spettrografo GNIRS (Gemini Near-InfraRed Spectrograph). Le loro osservazioni, recentemente pubblicate su Astrophysical Journal, hanno mostrato che all’origine delle differenti valutazioni sono proprio alcune particolarità delle valutazioni del CO nel vicino infrarosso, risultate inaffidabili per ricostruire la massa delle LIRG e delle ULIRG. Le intense emissioni infrarosse di questi sistemi, infatti, provengono dall’ambiente polveroso che accompagna la formazione stellare e, poiché le misurazioni del CO sono estremamente sensibili a queste stelle più giovani, si finisce col rilevare solo le curve di rotazione di queste ultime, giungendo così a una valutazione della massa della galassia sensibilmente inferiore.

Le osservazioni del tripletto del calcio II, invece, non riescono a penetrare la coltre polverosa delle regioni centrali, dunque le misurazioni delle velocità di dispersione conducono a una massa più corretta. Una volta sparita l’influenza delle giovani stelle e della regione polverosa che le avvolge, le valutazioni suggerite dal CO e dal calcio sono consistenti tra loro.

Una sconvolgente catastrofe

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Una sconvolgente catastrofe

Una sconvolgente catastrofe
Una sconvolgente catastrofe
La galassia SMM J1237+6203 si trova in direzione della costellazione dell’Orsa Maggiore. E’ talmente lontana che la sua luce ha impiegato 10 miliardi di anni per giungere fino a noi. Un lunghissimo viaggio per riuscire a portarci la notizia, almeno stando alla ricostruzione di un team di astronomi, di una catastrofe senza precedenti.

Utilizzando il Gemini NIFS (Near-Infrared Integral Field Spectrometer), Dave Alexander (Durham University) e i suoi collaboratori hanno misurato le velocità dei materiali di quella galassia. Hanno così scoperto l’esistenza di flussi talmente intensi da permettere al gas che alimenta la formazione stellare di sfuggire all’attrazione gravitazionale della galassia. Secondo i ricercatori questi flussi di materia sono talmente vasti e le energie in gioco talmente elevate da riuscire a bloccare definitivamente in SMM J1237 ogni processo di formazione stellare.

All’origine di quelle potenti espulsioni di materia vi sarebbe una serie ininterrotta di spaventose deflagrazioni che hanno squassato la galassia per milioni di anni al ritmo forsennato di un’esplosione al secondo. Sul banco degli imputati potremmo far sedere sia il supermassiccio buco nero centrale della galassia, sia una terribile sequenza di supernovae.

“Di fatto – ha commentato Alexander – quella galassia ha attivato un meccanismo di regolazione della sua crescita e non si tratta di un evento isolato. Siamo infatti convinti che anche altre galassie nell’universo ancora giovane hanno visto bloccata la loro crescita da meccanismi analoghi”.

Un ulteriore promemoria che l’universo non è affatto quel posticino tranquillo che potremmo essere indotti a pensare, magari sviati dalle bucoliche condizioni che sperimentiamo qui sulla Terra.

Gliese 710 in agguato

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Gliese 710 in agguato

Gliese 710 in agguato
Gliese 710 in agguato
Finalmente un nuovo filone di catastrofismo astronomico. Ormai gli asteroidi killer sono passati di moda e manca davvero poco al flop della fantastica accoppiata tra Nibiru e il calendario dei Maya. A far sorgere un nuovo filone – purtroppo con un fondamento di verità – ci hanno pensato la correzione delle misure di distanza del satellite Hipparcos e le simulazioni numeriche di Vadim V. Bobylev (Pulkovo Astronomical Observatory).

La vicenda inizia una decina d’anni fa, allorché Joan García-Sánchez (Jet Propulsion Laboratory) e altri ricercatori si accorsero che Gliese 710, una piccola stella arancione di decima magnitudine nella costellazione del Serpente, sarebbe passata dalle parti del nostro Sistema solare. I calcoli, basati sulle distanze determinate dal satellite Hipparcos, indicavano che tra circa un milione e mezzo di anni Gliese 710 sarebbe transitata a 1,3 anni luce dal Sole. La distanza e le ridotte dimensioni della stella (poco più della metà del nostro Sole) mettevano i nostri discendenti abbastanza al sicuro. García-Sánchez e il suo team stimarono che la perturbazione indotta nella Nube di Oort da quell’incontro avrebbe aumentato solo del 10% le probabilità per il nostro pianeta di finire nel mirino di una cometa a lungo periodo. Nulla di particolarmente eclatante, dunque.

Recentemente, però, le distanze di Hipparcos sono state corrette e Vadim Bobylev si è preso la briga di fare nuovamente due conti sull’avvicinamento di Gliese 710. Le numerosissime simulazioni computerizzate effettuate dall’astronomo russo hanno confermato una probabilità dell’86% di un passaggio attraverso la Nube di Oort, ma hanno anche indicato uno scenario ben più allarmante. Dai dati numerici, infatti emerge anche la possibilità di un incontro molto più ravvicinato: un transito a soli 0,02 anni luce, dunque a circa un migliaio di unità astronomiche dal Sole.

Le probabilità che questo accada sono solamente una su 10 mila, sufficienti comunque a indurci con terrore a immaginare quello che tra un milione e mezzo di anni potrebbe capitare al nostro Sistema solare. Per i futuri abitanti della Terra tornerebbero all’improvviso di moda le comete e gli asteroidi killer…

Pio & Bubble Boy – Coelum n.138 – Aprile-Maggio 2010

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vignetta 138

vignetta 138

Questa Vignetta è pubblicata su Coelum n.138 – Aprile-Maggio 2010. Leggi il Sommario.

Una stella davvero antica

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Una stella davvero antica

Una stella davvero antica
Una stella davvero antica
Per determinare quanto vecchia possa essere una stella, gli astronomi cercano di risalire alla sua composizione chimica. Il loro obiettivo è valutare quale sia l’abbondanza dei metalli, cioè gli elementi chimici più pesanti di idrogeno ed elio. Poichè tale abbondanza rispecchia la disponibilità di questi elementi chimici al momento della formazione della stella, più una stella è antica e più risulterà povera di metalli.

Andare a caccia di stelle così vecchie, però, non è impresa facile. Anna Frebel (Harvard-Smithsonian CfA) e i suoi collaboratori, convinti che i metodi finora impiegati non fossero completamente affidabili, hanno provato a seguire una strada differente. Anzichè osservare una stella per volta, hanno ideato un sistema che permettesse loro di stimare in un unico colpo le abbondanze metalliche di un gran numero di stelle. Hanno poi rivolto la loro attenzione alla popolazione stellare della galassia nana dello Scultore, posta a 290 mila anni luce di distanza. All’origine della scelta il fatto che, essendo le galassie nane i blocchi elementari dai quali si sono formate quelle più grandi, è altamente probabile che contengano anche la popolazione stellare più antica.

Il nuovo metodo ha dato i suoi frutti: in mezzo alle vecchie stelle di quella galassia, infatti, i ricercatori hanno individuato un astro di gran lunga più vecchio degli altri. Le misure spettroscopiche di una stellina di 18a magnitudine denominata S1020549 effettuate con il telescopio Magellan-Clay a Las Campanas in Cile hanno indicato che si era in presenza di un astro incredibilmente povero di metalli. In S1020549, infatti, l’abbondanza di metalli era cinque volte inferiore a quella rilevata finora nelle stelle di una galassia nana, circa 6000 volte inferiore a quella che si osserva per il Sole.

“E’ probabile che questa stella sia vecchia quasi come lo stesso universo” – ha commentato la Frebel. Forse non è proprio così: S1020549 non può certo appartenere alla prima generazione di stelle, ma le probabilità che appartenga a quella immediatamente successiva sono davvero molto elevate.

La magnetar non si svela

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La magnetar non si svela

La magnetar non si svela
La magnetar non si svela
Entrato ufficialmente in servizio nel luglio scorso, il Gran Telescopio CANARIAS detiene il record del più grande telescopio ottico al mondo (10,4 metri di diametro). La sua sensibilità eccezionale ne fa lo strumento ideale per osservare gli oggetti più elusivi, tra i quali figurano a pieno titolo le magnetar.

Con questo termine (sostanzialmente “stelle magnetiche”) vengono indicate rarissime stelle di neutroni caratterizzate da un campo magnetico eccezionalmente intenso. Nella nostra galassia ne conosciamo sei e si presume ve ne possa essere al massimo una ventina. La loro individuazione è dovuta a spaventosi sussulti che ne squarciano la crosta più esterna quando il campo magnetico si riconfigura. In tale occasione la magnetar emette incredibili energie soprattutto nel dominio X e gamma.

Lo scorso giugno i due osservatori spaziali Swift e Fermi hanno rilevato un’intensa emissione proveniente dalla magnetar SGR 0418+5729, una ghiotta occasione per osservarne l’emissione anche nell’ottico e carpirne qualche segreto. Occasione che Paolo Esposito (IASF-INAF di Milano) e il suo team internazionale non si sono lasciati sfuggire. La campagna osservativa ha tenuto sotto controllo un’ampia gamma di lunghezze d’onda e si è protratta per 160 giorni. Nonostante l’impiego del telescopio più grande al mondo e del suo fantastico spettrografo OSIRIS (Optical System for Imaging and low-Intermediate-Resolution Integrated Spectroscopy), però, la radiazione luminosa di SGR 0418+5729 è risultata troppo debole per essere registrata.

Un apparente buco nell’acqua, dunque. Ma la cosa non ha affatto scoraggiato Esposito: “Anche il fatto di non aver osservato nell’ottico questo oggetto – ha commentato – è per noi fonte di preziose informazioni su di esso”. Queste indagini, le più approfondite mai ottenute finora per una simile sorgente, possono infatti fornire agli astronomi preziose e stringenti informazioni sui limiti delle caratteristiche fisiche di questa elusiva classe di corpi celesti.

L’Enterprise tornerà a volare

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L'Enterprise tornerà a volare

L'Enterprise tornerà a volare
L'Enterprise tornerà a volare
Come saprete tutti, gli Space Shuttle sono alla fine della loro onorata carriera ed una volta eseguito il loro ultimo volo verranno consegnati a dei musei per entrare definitivamente nella storia passata.
Uno degli orbiter, nella fattispecie il Discovery, è già stato assegnato allo Smithsonian di Washington.
Ma in quel museo hanno già la prima navetta che abbia mai volato: l’Enterprise. Anche se ha eseguito solo dei voli atmosferici, è stato il primo veicolo spaziale alato a volare in atmosfera ed atterrare come un aliante.

E alla NASA si sono chiesti: cosa se ne fa lo Smithsonian di due orbiter?
Nulla!
Allora uno dei due lo possiamo assegnare ad un altro museo.
Altro problema: come lo portiamo via di lì?

L’Enterprise è fermo dal 1985, anno in cui è stato consegnato al museo per essere esposto al pubblico e non è detto che sia ancora in grado di sopportare il viaggio in groppa al 747 SCA, quindi è necessario verificare tutti i punti di aggancio e i dispositivi dell’avionica di bordo necessari per il volo di trasferimento. E per far questo sono stati inviati 12 tecnici dal Kennedy Space Center, 12 dei migliori che si occupano da anni della manutenzione alle navette, e li hanno mandati a Washington per controllare Enterprise.
Dopo due settimane di controlli hanno detto che lo Shuttle è in perfetta forma e che 25 anni di fermo non gli hanno assolutamente fatto perdere lo smalto di un tempo.

Non è ancora stato deciso dove verrà inviato Enterprise, ma ora sappiamo che potrà sicuramente volare ancora una volta.

Nella Foto: il battesimo del primo Shuttle, l’Enteprise, quando era presente quasi tutto l’equipaggio della USS-Enterprise NCC-1701, cioè quella di Star Trek.
Fonte: NASA.

Grandi stelle e campi magnetici

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Grandi stelle e campi magnetici

Grandi stelle e campi magnetici
Grandi stelle e campi magnetici
Da tempo gli astronomi sanno che i campi magnetici sono fondamentali nella formazione delle stelle di piccola massa come il nostro Sole. Il sospetto era che questa azione così importante fosse presente anche per le stelle più massicce, ma mancava la prova. Grazie alle osservazioni radioastronomiche del team di Wouter Vlemmings (Università di Bonn), però, sembra proprio che ora queste prove siano finalmente arrivate.

Per determinare la struttura tridimensionale del campo magnetico di una grande stella in formazione, i ricercatori hanno utilizzato MERLIN (Multi-Linked Radio Interferometer Network), la rete di sette radiotelescopi distribuiti intorno al Regno Unito controllata dall’Osservatorio di Jodrell Bank. La stella presa di mira da Vlemmings e collaboratori è Cepheus A HW2, una massiccia protostella distante 2300 anni luce appartenente alla regione di formazione stellare Cepheus A. Precedenti osservazioni avevano rivelato la presenza di un disco di gas i cui materiali cadevano verso HW2. Le nuove osservazioni hanno permesso di scoprire che, nonostante questo massiccio trasferimento di materia, il campo magnetico è sorprendentemente regolare, chiara indicazione che è proprio il campo magnetico a fare da controllore del processo.

La determinazione della distribuzione del campo magnetico è stata possibile raccogliendo e analizzando la sua azione sull’emissione dei maser al metanolo attivi nella nube intorno alla protostella. Anche in presenza di campi magnetici molto intensi la traccia lasciata nell’emissione maser è davvero debole e solo l’impiego dell’interferometria con MERLIN ha reso possibile la corretta identificazione.
“Grazie alle nuove tecniche impiegate – ha sottolineato Huib Jan van Langevelde, coautore dello studio e direttore del JIVE (Joint Institute for Very Long Baseline Interferometry in Europe) – è stato possibile per la prima volta misurare il campo magnetico attorno a una protostella di grande massa. E abbiamo potuto vedere come la sua struttura sia sorprendentemente simile a quella presente nella formazione delle stelle più piccole.”

Per ulteriori conferme sono già state proposte altre campagne osservative rivolte a protostelle di grande massa in diversi stadi della loro formazione. Queste nuove osservazioni, tra l’altro, potranno contare sulle aumentate potenzialità della rete di radiotelescopi (MERLIN diventerà e-MERLIN), in grado di offrire una sensibilità dieci volte superiore.

Phobos da vicino

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Phobos da vicino

Phobos da vicino
Phobos da vicino
La campagna di Phobos è entrata nel vivo. Il piano di volo della Mars Express prevede ben 12 sorvoli del misterioso satellite di Marte e la speranza è quella di venire a capo delle sue incongruenze. A prima vista Phobos sembra un oggetto compatto e massiccio, ma le analisi dei dati raccolti in occasione di precedenti incontri con sonde spaziali indicano che è tutt’altro che compatto.

Secondo i calcoli dei planetologi avrebbe una “porosità” del 25-35%. Si tratterebbe, cioè, di un agglomerato di materiali rocciosi di ogni dimensione nel quale sarebbero però presenti grandi e numerose cavità. Una struttura molto diffusa tra gli asteroidi: gli astronomi la indicano con il termine di “rubble pile”, mucchio di detriti.

L’idea corrente è che Phobos appartenga alla seconda generazione degli oggetti del Sistema solare. Non si sarebbe formato, cioè, dalla nube di polveri originaria che circondava il Sole e dalla quale è nato il suo pianeta, ma sarebbe apparso solo in un secondo tempo. Ancora da chiarire, comunque, la regione della sua formazione. I dati spettrali, infatti, indicherebbero una composizione molto simile a quella degli asteroidi di classe C o D, il che suggerirebbe una sua cattura da parte del Pianeta rosso.

Il sorvolo da parte della Mars Express avvenuto nei primi giorni marzo ha portato la sonda a transitare a soli 67 chilometri dalla superficie di Phobos e i dati raccolti in tale occasione si spera riescano a rispondere alle domande che riguardano sia la formazione di questa misteriosa luna sia la sua struttura interna.

Se la nascita di Phobos è avvolta nel mistero, non così la sua fine. Nel futuro di questo satellite, infatti, vi è un lento ma inesorabile avvicinamento al suo pianeta finchè, disgregato dalle forze mareali di Marte, ritornerà quel nugolo di detriti che fu in origine.

Per lo Shuttle non tutto è perduto

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Per lo Shuttle non tutto è perduto

Per lo Shuttle non tutto è perduto
Per lo Shuttle non tutto è perduto
Qualcuno aveva affermato l’impossibilità di estendere il Programma Shuttle dato che le linee dei componenti erano ormai definitivamente chiuse. Il Responsabile del Programma ha detto martedì che è “un grande equivoco”, aprendo quindi la porta ad un eventuale estensione dei voli shuttle oltre l’attuale limite di pensionamento, stabilito in settembre 2010.

In effetti la richiesta è partita dal congresso per ottenere un allungamento dell’operatività delle navette, ma il costo corrispondente sarebbe di circa 200 milioni di dollari al mese, equivalenti a 2,4 miliardi all’anno.
Le linee di produzione dei componenti potrebbero ripartire, anche se ci vorrebbero circa due anni da quando si ha la richiesta ufficiale al completamento del primo serbatoio esterno.

Attualmente sono previste ancora 4 missioni Shuttle e i componenti per una quinta sono già disponibili (quelli per un eventuale lancio di soccorso per l’ultima missione) quindi dilatando un po’ i tempi si riuscirebbe a rendere più costante la presenza americana nello spazio: in fondo 5 missioni in due anni non sono un cattivo risultato, sicuramente migliore di nessuna missione in cinque anni…

La chiusura del programma Space Shuttle è stata stabilita dal presidente Bush nel 2004 quando ha dato il via al programma Constellation. Da allora sono cambiate molte cose, l’ultima delle quali è stata la cancellazione del Constellation a causa dei ritardi e della poca innovazione di questo sistema.
La cancellazione voluta da Obama e sancita nel bilancio ufficiale previsto per il 2011, ha però reso evidenti quei problemi di ritardo nello sviluppo di un nuovo trasporto umano verso lo spazio.
Dal canto suo, la presidenza ha dato il via alle aziende private aprendo i finanziamenti per chi decide di sviluppare dei sistemi di trasporto spaziale da offrire poi alla NASA. Questo sprone dovrebbe innescare un sistema virtuoso in cui una sorta di concorrenza spinge diverse aziende a creare il veicolo più sicuro ed economico da proporre all’agenzia spaziale americana. Anche i 9000 esuberi alle attività produttive interne alla NASA stessa, dovrebbero venir assorbiti dalla maggior richiesta proveniente dall’ambito privato.

Teniamo presente che il famoso Budget 2011 previsto, non ha subito nessun taglio, anzi è stato incrementato rispetto a quello dell’anno precedente. Gli investimenti che non fanno più parte dei programmi cancellati saranno reindirizzati sulla ricerca e sviluppo delle tecnologie necessarie per fare in modo che i futuri sistemi di trasporto possano basarsi su reali innovazioni, in grado di portarci nello spazio in modo più veloce, più sicuro e più economico.

Ricapitolando, John Shannon, lo Shuttle Program Manager al Johnson Space Center di Houston dice chiaramente che gli unici problemi sono il riavvio delle catene di produzione dei componenti e la ricertificazione degli Orbiter.
Per il primo problema non c’è nessun grosso impedimento grazie al fatto che i grossi appaltatori del sistema Shuttle sono tutte industrie che non lavorano esclusivamente per la NASA. Per esempio la North Carolina Foam Industries, quella che costruisce il rivestimento in schiuma del serbatoio esterno, è uno dei principali produttori continentali di materiali d’isolamento termico e quindi per loro il contratto con la NASA è una parte trascurabile della loro produzione. E così per molte altre aziende. Per loro si tratterebbe solo di ripristinare delle linee di produzione e nulla più.
Per la ricertificazione delle navette occorre aprire una piccola parentesi che riguarda la richiesta iniziale effettuata dalla commissione d’inchiesta sull’incidente del Columbia. Ufficialmente il CAIB (Columbia Accident Investigation Board) ha richiesto chiaramente che le navette dovevano essere ricertificate se avessero dovuto volare dopo il 2010. Però dal 2005 i cicli di manutenzione applicati agli Shuttle sono giunti a livelli di precisione e scrupolosità da garantirne una ricertificazione continua, infatti molti particolari vengono sostituiti durante ogni intervento che si esegue normalmente fra una missione e l’altra. Ad ogni ciclo di manutenzione vengono aggiunti una media di 23 nuovi punti di ispezione fra i componenti degli Shuttle. Sotto questo aspetto le vecchie navette possono essere paragonate a dei B-52 che sono operativi da oltre 50 anni e rimangono dei veicoli estremamente sicuri.

Vedremo cosa succederà. Per ora queste affermazioni si uniscono alle centinaia che abbiamo già sentito negli ultimi mesi, anche se, pronunciate dal Manager del Programma Shuttle, hanno un certo peso.
E a quanto pare il fatto di restare senza quella sudata supremazia spaziale inizia a dare fastidio a molti Americani!

Intanto ad aprile è previsto un viaggio di Obama in Florida per una conferenza incentrata sul nuovo approccio della sua amministrazione verso i voli spaziali abitati.

Perché le galassie sono meno prolifiche?

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Perché le galassie sono meno prolifiche?

Perché le galassie sono meno prolifiche?
Perché le galassie sono meno prolifiche?
I dati raccolti osservando le galassie più vicine – dunque in uno stadio evolutivo comparabile a quello della nostra Via Lattea – indicano che la produzione stellare media è di circa 10 masse solari all’anno. Man mano, però, si considerano galassie più lontane – dunque più giovani della nostra – il tasso di produzione stellare risulta molto più elevato. Di questa curiosa situazione, nota da oltre un decennio, non si sapeva proprio rendere ragione. A dire il vero, sul tappeto c’erano ben due convincenti motivazioni, ma proprio non si riusciva a decidere quale delle due fosse quella corretta.

Il dubbio era se il tasso più elevato di produzione stellare nelle giovani galassie dipendesse da una maggiore disponibilità di materiale oppure se, in qualche modo misterioso, l’evoluzione dei sistemi stellari avesse portato con sé una minore efficienza dei meccanismi fisici che governano la formazione stellare.

Per provare a vederci più chiaro, un team internazionale di ricercatori ha utilizzato le informazioni raccolte in precedenti studi – un’indagine riguardante circa 50 mila galassie – per selezionarne un campione che potesse correttamente rappresentare una popolazione media di galassie.

Successivamente hanno puntato su questo campione numerosi telescopi, non limitandosi al solo dominio visibile ma spingendosi anche nell’infrarosso e oltre. Osservare queste galassie nell’infrarosso e analizzare il loro spettro radio, infatti, era l’unico modo per i ricercatori di riuscire a rendere “visibile” la loro componente gassosa, assolutamente invisibile nel dominio ottico.

Lo studio, pubblicato su Nature in febbraio, ha mostrato che le galassie più antiche della Via Lattea potevano contare su una disponibilità di gas superiore a quella attuale della nostra galassia. Secondo i ricercatori, una tipica galassia nel giovane universo poteva contenere una quantità di gas molecolare da tre a dieci volte maggiore di quanto si osserva nelle galassie attuali.

Non c’è bisogno, dunque, di invocare leggi fisiche diverse per la produzione stellare nelle antiche galassie, più semplicemente c’era una maggiore quantità di materia prima alla quale attingere.

Orbital Test Vehicle 1 in Florida

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Orbital Test Vehicle 1 in Florida

Orbital Test Vehicle 1 in Florida
Orbital Test Vehicle 1 in Florida
L’Orbital Test Vehicle, lo spazioplano delle forze aeree statunitensi ha raggiunto la base di Cape Canaveral a bordo di un aereo cargo.
Inizia ora la preparazione finale per il lancio previsto per il 19 aprile. Lungo nove metri e largo 4,5 verrà inserito nel fairing da 5 metri di diametro ed agganciato al vettore Atlas 5.

Lo sviluppo dell’X-37B (così si chiamava in origine il progetto NASA) è iniziato nel 1999 e nel 2001 alcuni prototipi in scala eseguirono già dei test di collaudo. Ed è qui che si inserisce l’aviazione americana; infatti nel settembre 2004 il progetto si sposta all’Air Force e passa sotto il controllo del DARPA.
E non venne abbandonato. Nel 2007 vennero eseguiti una serie di test di rientro partendo dall’aereo madre della Scaled Composites, il Whithe Knight.

Questa sarà la prima missione di una nuova classe di veicoli, i piccoli spazioplani non abitati e quindi esclusivamente pensati per il trasporto cargo.
Dopo la partenza effettuerà manovre orbitali e al termine porterà le sue cinque tonnellate di peso a planare dolcemente sulla pista della base di Vandenberg.

Nessuna risposta dalla Phoenix Mars Lander

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Nessuna risposta dalla Phoenix Mars Lander

Nessuna risposta dalla Phoenix Mars Lander
Nessuna risposta dalla Phoenix Mars Lander
Ormai per Phoenix Mars Lander il peggio dovrebbe essere passato. I dati che Mars Odissey sta trasmettendo indicano che la situazione ambientale sta migliorando e i ghiacci superficiali depositatisi nel corso del lungo e rigido inverno marziano stanno lentamente scomparendo. Dovrebbe dunque essere il momento del risveglio per il lander, sempre ammesso che i suoi circuiti abbiano superato indenni l’ardua prova invernale.

Giunto su Marte il 25 maggio 2008, Phoenix si è comportato ottimamente riuscendo a lavorare per quasi due mesi oltre il termine fissato per la sua missione originaria. Il sopraggiungere dell’inverno e la ridotta insolazione, con la conseguente impossibilità di ricaricare correttamente le batterie, hanno poi imposto la cessazione di ogni attività in attesa del ritorno della bella stagione.

Benché Phoenix non sia stato espressamente progettato per resistere alle basse temperature dell’inverno marziano, il suo software prevede comunque che, nel caso in cui il lander riesca a disporre di energia sufficiente, lanci periodicamente un segnale radio. La speranza è che quel segno di risveglio dal letargo possa essere raccolto da un orbiter di passaggio e ritrasmesso a Terra.

Finora, purtroppo, i sorvoli da parte di Mars Odissey della zona in cui ha svernato Phoenix non hanno portato a nessun risultato. Se i 60 sorvoli previsti nelle prime due fasi di questa campagna di ascolto non avranno portato buone notizie bisognerà attendere i primi giorni di aprile. Per quell’epoca il Sole sarà costantemente sopra l’orizzonte e Phoenix, se ancora operativo, non dovrebbe avere più problemi di ricarica delle sue batterie.

Se neppure ad aprile, poi, dal lander non dovesse giungere l’atteso segnale, avremmo purtroppo l’amara conferma che l’inverno marziano è stato per Phoenix una prova al di là delle sue possibilità.

Pio & Bubble Boy – Coelum n.137 – Marzo 2010

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vignetta 137

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Questa Vignetta è pubblicata su Coelum n.137 – Marzo 2010. Leggi il Sommario.

Le due aurore di Saturno

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Le due aurore di Saturno

Le due aurore di Saturno
Le due aurore di Saturno
Ogni 15 anni, per effetto della sua orbita intorno al Sole e dell’inclinazione del suo asse, Saturno si presenta alla nostra osservazione con gli anelli praticamente invisibili offrendoci inoltre la possibilità di scorgere entrambe le sue regioni polari. Una situazione rara e scientificamente ricca di opportunità che gli astronomi non si sono lasciata sfuggire.

Utilizzando il telescopio spaziale Hubble, infatti, hanno catturato una sequenza di immagini che hanno permesso loro di confrontare il comportamento dei due poli di Saturno scoprendo caratteristiche finora sconosciute. Tra gennaio e marzo 2009, dunque, Hubble ha raccolto dati importanti sulle caratteristiche aurore polari del pianeta, dati che ci consegnano informazioni cruciali sulla natura del campo magnetico di Saturno e sui meccanismi che accendono questi spettacoli luminosi.

Neppure per il nostro pianeta possiamo per il momento disporre di una simile copertura osservativa e per questo gli astronomi confidano di poter ottenere dall’analisi della situazione di Saturno preziose informazioni valide anche per la Terra.

Benché in prima analisi le aurore polari di Saturno possano sembrare simmetriche, i dati di Hubble hanno indicato sottili differenze tra i due emisferi. L’ovale dell’aurora settentrionale, infatti, è leggermente più piccolo e più intenso di quello meridionale, una asimmetria che indica un campo magnetico planetario non uniforme, più intenso al nord che al sud. Questa differente intensità fa sì che al nord le particelle cariche vengano accelerate a energie più elevate rispetto a quanto avvenga in corrispondenza del polo meridionale.

Quasar binari e incontri di galassie

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Quasar binari e incontri di galassie

Quasar binari e incontri di galassie
Quasar binari e incontri di galassie
Da tempo gli astronomi erano convinti che i quasar binari, come pure gli altri quasar, fossero un risultato diretto dei fenomeni di fusione tra galassie. Questa convinzione, però, non poteva appoggiarsi su nessuna osservazione concreta: finora, infatti, non era mai stata individuata la presenza di quasar binari in galassie che erano sicuramente coinvolte in processi di merging.

Recenti immagini acquisite dal telescopio Baade-Magellan, in servizio presso l’osservatorio cileno di Las Campanas, hanno però colmato questa lacuna. Le riprese acquisite da John Mulchaey (Carnegie Institution), infatti, hanno dimostrato che i due quasar noti come SDSS J1254+0846 si trovano all’interno di due galassie caratterizzate da due “code” allungate, chiaro risultato della reciproca interazione gravitazionale. Una ulteriore conferma è venuta anche da dettagliate analisi spettrali.

Una teoria che sta riscuotendo sempre più consensi prevede che siano proprio i fenomeni di merging tra le galassie, moltiplicando il tasso di accrezione del materiale da parte dei buchi neri che risiedono al loro centro, i diretti responsabili della creazione di energetici quasar. Poiché, però, tali aggregazioni tra le galassie sono avvenute nel lontano passato, la loro individuazione richiede osservazioni davvero al limite delle possibilità strumentali.

Una conferma indiretta che le due galassie sono realmente coinvolte in un processo di merging è venuta anche dalle simulazioni computerizzate predisposte da Thomas Cox (Carnegie Observatories). I modelli computerizzati, infatti, mostrano strutture caratteristiche davvero molto simili a quelle osservate nelle immagini raccolte dal telescopio Baade-Magellan.

Endeavour: missione compiuta

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Endeavour: missione compiuta

Endeavour: missione compiuta
Endeavour: missione compiuta
Lo Shuttle Endeavour, con a bordo il suo equipaggio di sei astronauti, è regolarmente rientrato al Centro Spaziale Kennedy di Cape Canaveral il 22 febbraio alle 22:20, quando in Italia erano le 4:20. La missione Sts-130, cominciata due settimane fa con un ritardo di 24 ore dovuto alle avverse condizioini metereologiche, si è dunque conclusa nel migliore dei modi. Gli astronauti Bob Behnken e Nicholas Patrick avevano terminato l’ultima delle tre passeggiate spaziali in programma alle 9:03 del 17 febbraio scorso (ora italiana), perfezionando le operazioni di aggancio e istallazione dei due nuovi elementi della Stazione Spaziale Internazionale. Il nodo Tranquillity e la Cupola erano stati spostati dal payload alle 9:49, sempre ora italiana, del 12 febbraio scorso.

Lo Shuttle, lanciato dal Kennedy Space Center di Cape Canaveral, si era regolarmente agganciato alla Stazione Spaziale Internazionale due giorni dopo, alle 6:06 del 10 febbraio. “Davvero un bel lancio – commentava l’Associated administrator per le missioni spaziali della NASA Bill Gestermaier – e un grande inizio di una missione così complessa”. Il direttore generale dell’ESA Jean-Jacques Dordain ha ringraziato la NASA, il team di terra e l’equipaggio, sottolineando che “si tratta di un evento particolarmente importante perché lo Shuttle stavolta è pieno di hardware europeo”. Quello di lunedì scorso è stato l’ultimo lancio in notturna dello Shuttle: le prossime quattro missioni partiranno tutte di giorno.

A bordo il suo preziosissimo carico: il terzo modulo per la Stazione, il Nodo-3 ribattezzato “Tranquillity” la scorsa primavera in omaggio alla missione Apollo 11. Un cilindro lungo 7 metri e largo 4,6 pieno di tecnologia e corredato di una gran quantità di cose: da una vera e propria palestra a un sistema per ricavare acqua potabile dall’urina e un avanzatissimo impianto di ricondizionamento dell’aria. Ma soprattutto dotato di una spettacolare Cupola a sette finestre che spalancherà alla vista degli inquilini della ISS un panorama spaziale a 360 gradi mai visto prima.

Tranquillity è stato interamente realizzato negli stabilimenti torinesi di Thales Alenia Space ed è parte dell’accordo NASA-ESA del 1997 (firmato proprio nel capoluogo piemontese) che impegnava l’Agenzia Spaziale Europea a fornire alla ISS il secondo e terzo dei tre moduli abitativi previsti. Così, non appena le operazioni di “aggancio” saranno ultimate, l’Italia potrà legittimamente farsi vanto di aver realizzato metà dello spazio abitabile sulla Stazione Spaziale Internazionale.

Il modulo aveva lasciato Torino lo scorso 17 maggio ed era stato ufficialmente consegnato alla NASA il 20 novembre con una solenne cerimonia svoltasi al Kennedy Space Centre in Florida, negli Stati Uniti. Il lancio, schedulato per febbraio 2010 fin da prima della consegna, era stato messo in forse proprio all’inizio di quest’anno. Ma questa volta le condizioni meteo e la navetta non avevano alcuna responsabilità. Sul banco degli imputati è invece salito il manicotto di una conduttura che fa parte delsistema di controllo termico del modulo. Una serie di malfunzionamenti sarebbero infatti emersi quando il pezzo, che deve trasportare ammoniaca, era ancora dal produttore ogni qual volta veniva sottoposto a sollecitazioni gravose, simili a quelle di esercizio.

Plutone come non lo si era mai visto

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Plutone come non lo si era mai visto

Plutone come non lo si era mai visto
Plutone come non lo si era mai visto
In attesa che la sonda News Horizon arrivi fin laggiù e al termine di un viaggio di nove anni faccia finalmente luce su tante domande, alla NASA hanno deciso di festeggiare il compleanno dello scomparso scopritore di Plutone. Clyde William Tombaugh, che individuò questo piccolo e lontanissimo planetoide nel lontano 18 febbraio 1930, era infatti nato a Streator il 4 febbraio del 1906.

Così all’Agenzia Spaziale Usa hanno lavorato a lungo sulle tante “foto” che dal 1994 il supertelescopio orbitante Hubble ha scattato a Plutone, fornendone un ritratto decisamente inedito. Un po’ un riscatto, dopo il declassamento deciso nel 2006 dall’Unione Astronomica Internazionale, che ha tolto a Plutone la qualifica di “pianeta” per classificarlo come “pianeta-nano” o, meglio, “oggetto trans-nettuniano”.

La definizione delle immagini non è sufficiente a fornire informazioni di carattere orografico, ma ne da invece moltissime di tipo cromatico. Così, nonostante il periodo orbitale plutonico sia lunghissimo (248,09 anni terrestri) l’intervallo di tempo in cui Hubble ha potuto guardare il “pianeta-nano” è bastato a mostrarci un caleidoscopio di sfumature tra il grigio, il marrone e l’arancione. Tutti colori che mutano con l’illuminazione del Sole, che per quanto in quella estrema periferia del nostro sistema solare arrivi fioca, è comunque sufficiente a far sciogliere il ghiaccio ai poli nella faccia esposta alla luce.

Ma per saperne di più, bisogna aspettare ancora cinque anni, quando News Horizon – che ha imbarcato simbolicamente a bordo le ceneri di Tombaugh – comincerà il flyby sul pianeta-nano.

Nodo-3 e Cupola: completata l’installazione alla ISS

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Nodo-3 e Cupola: completata l'installazione alla ISS

Nodo-3 e Cupola: completata l'installazione alla ISS
Nodo-3 e Cupola: completata l'installazione alla ISS
Gli astronauti Bob Behnken e Nicholas Patrick hanno terminato anche l’ultima delle tre passeggiate spaziali in programma nella missione Sts-130. Dopo cinque ore e quarantotto minuti di lavoro, alle 9:03 del 17 febbraio (ora italiana) i due hanno perfezionanto le operazioni di aggancio e installazione dei due nuovi elementi della Stazione Spaziale Internazionale. Il nodo Tranquillity e la Cupola erano stati spostati dal payload alle 9:49, sempre ora italiana, del 12 febbraio scorso. Si avvia a terminare dunque nel segno della massima “tranquillity” il compito degli uomini partiti a bordo dell’Endeavour lunedì scorso alle 10 e 14 (ora italiana) dopo un rinvio di 24 ore dovuto alle condizioni meteo.

Lo Shuttle, lanciato dal Kennedy Space Center di Cape Canaveral, si era regolarmente agganciato alla Stazione Spaziale Internazionale due giorni dopo, alle 6:06 del 10 febbraio. “Davvero un bel lancio – commentava l’Associated administrator per le missioni spaziali della NASA Bill Gestermaier – e un grande inizio di una missione così complessa”. Il direttore generale dell’ESA Jean-Jacques Dordain ha ringraziato la NASA, il team di terra e l’equipaggio, sottolineando che “si tratta di un evento particolarmente importante perché lo Shuttle stavolta è pieno di hardware europeo”. Quello di lunedì scorso è stato l’ultimo lancio in notturna dello Shuttle: le prossime quattro missioni partiranno tutte di giorno.

A bordo il suo preziosissimo carico: il terzo modulo per la Stazione, il Nodo-3 ribattezzato “Tranquillity” la scorsa primavera in omaggio alla missione Apollo 11. Un cilindro lungo 7 metri e largo 4,6 pieno di tecnologia e corredato di una gran quantità di cose: da una vera e propria palestra a un sistema per ricavare acqua potabile dall’urina e un avanzatissimo impianto di ricondizionamento dell’aria. Ma soprattutto dotato di una spettacolare Cupola a sette finestre che spalancherà alla vista degli inquilini della ISS un panorama spaziale a 360 gradi mai visto prima.

Tranquillity è stato interamente realizzato negli stabilimenti torinesi di Thales Alenia Space ed è parte dell’accordo NASA-ESA del 1997 (firmato proprio nel capoluogo piemontese) che impegnava l’Agenzia Spaziale Europea a fornire alla ISS il secondo e terzo dei tre moduli abitativi previsti. Così, non appena le operazioni di “aggancio” saranno ultimate, l’Italia potrà legittimamente farsi vanto di aver realizzato metà dello spazio abitabile sulla Stazione Spaziale Internazionale.

Il modulo aveva lasciato Torino lo scorso 17 maggio ed era stato ufficialmente consegnato alla NASA il 20 novembre con una solenne cerimonia svoltasi al Kennedy Space Centre in Florida, negli Stati Uniti. Il lancio, schedulato per febbraio 2010 fin da prima della consegna, era stato messo in forse proprio all’inizio di quest’anno. Ma questa volta le condizioni meteo e la navetta non avevano alcuna responsabilità. Sul banco degli imputati è invece salito il manicotto di una conduttura che fa parte del sistema di controllo termico del modulo. Una serie di malfunzionamenti sarebbero infatti emersi quando il pezzo, che deve trasportare ammoniaca, era ancora dal produttore ogni qual volta veniva sottoposto a sollecitazioni gravose, simili a quelle di esercizio.

STS-131 Shuttle Discovery – Rinvio del lancio

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STS-131 Shuttle Discovery - Rinvio del lancio

STS-131 Shuttle Discovery - Rinvio del lancio
STS-131 Shuttle Discovery - Rinvio del lancio
A causa delle temperature molto basse al Kennedy Space Center, è stato deciso di rinviare il trasferimento nel VAB (Vehicle Assembly Building, ovvero edificio assemblaggio dei veicoli) dello Space Shuttle Discovery che dovrà eseguire la Missione STS-131 per trasportare il Multi-Purpose Logistics Module (MPLM) Leonardo sulla Stazione Spaziale Internazionale.

Attualmente la data più probabile per lo spostamento è il 22 febbraio, con almeno 10 giorni di ritardo. La precedente data prevista per il lancio era il 18 marzo, e a causa di questo inconveniente dovrebbe passare al 25-28 marzo. Data la partenza prevista di una Soyuz per il 2 aprile, e ferma restando la norma che impedisce che qualsiasi veicolo si avvicini o si allontani durante il periodo di ormeggio di uno Shuttle, la STS-131 è costretta a spostarsi al dopo attracco della Soyuz alla ISS.

La nuova data prevista è il 5 aprile, Lunedì dell’Angelo. Dato inoltre che ogni giorno di ritardo nel decollo comporta un anticipo nella finestra lancio di circa 24 minuti, si avrebbe nuovamente un lancio notturno. L’ora prevista è infatti fissata per le 6:27 di mattina locali, 41 minuti prima dell’alba. Per noi sarebbero le 12:27.

Tutto il calendario di questa missione avrebbe quindi il seguente svolgimento:

  • 22 febbraio rollover verso il VAB
  • 2 marzo rollout verso il pad
  • 5 marzo prova countdown
  • 26 marzo Flight Readiness Review
  • 5 aprile (12:27 CEST) lancio
  • 18 aprile (6:30 CEST) atterraggio

Resta da vedere il possibile impatto sul resto delle missioni: le STS-134 ed STS-133 non dovrebbero risentirne, ma la STS-132 è a rischio rinvio, anche se di poco.

Nell’immagine l’equipaggio e lo stemma della missione STS-131

Supernova al VLA

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Supernova al VLA

Supernova al VLA
Supernova al VLA
La chiave di questa curiosa vicenda sono le osservazioni radio della supernova SN2009bb compiute con le antenne del VLA (Very Large Array) di Socorro nel New Mexico. Da queste osservazioni è emersa la presenza di materiale espulso dalla supernova a velocità relativistiche, una situazione che, solitamente, si riscontra nelle supernovae associate a emissione di lampi gamma. Nel caso di SN2009bb, però, la radiazione gamma non è mai stata individuata.

“E’ pur vero – sottolinea Alicia Soderberg, ricercatrice dell’Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics – che la rilevazione dei lampi gamma non è una caratteristica costante delle esplosioni di supernova, ma la possibilità di individuare simili eventi grazie a osservazioni radio è estremamente interessante”. Lo studio su SN2009bb, tra i cui autori figura anche la Soderberg, è stato pubblicato su Nature a fine gennaio.

Vi sono almeno un paio di ottimi motivi che possono spiegare la mancata rilevazione di emissione gamma. Il primo – e più banale – è legato alla geometria dell’evento. Poiché i lampi gamma vengono emessi in fasci molto collimati, se questi fasci non sono allineati con la Terra la loro individuazione ci sarà inesorabilmente preclusa. Una seconda e più intrigante possibilità è che la radiazione gamma venga in qualche modo “ammorbidita” quando prova ad abbandonare la stella, una situazione che metterebbe fuori gioco i satelliti gamma che solitamente ci permettono di individuare e riconoscere queste supernovae.

Essere riusciti a individuare che SN2009bb appartiene a questa particolare categoria di supernovae grazie allo studio della sua emissione radio ci offre dunque una possibile valida alternativa per il riconoscimento di questi eventi.

Differenze pesanti

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Differenze pesanti

Differenze pesanti
Differenze pesanti
Difficile trovare qualche somiglianza tra Ganimede e Callisto, le due principali lune di Giove. Paragonabili come dimensioni e certamente molto simili nella loro composizione, ma davvero molto differenti non solo nell’aspetto esteriore, ma anche nella struttura interna.

Fin dalle prime analisi ravvicinate delle sonde Voyager – confermate appieno anche dall’epico lavoro della sonda Galileo – i planetologi si trovarono di fronte a una bella gatta da pelare: pur essendosi formati nella stessa regione del Sistema solare e dunque condividendo la medesima materia prima e le medesime condizioni ambientali, Ganimede e Callisto avevano seguito due strade evolutive differenti. Qual era la chiave di questa differenza? Mistero davvero fitto, tanto che finora a nessuno era mai riuscito di giustificare in modo sufficientemente condivisibile una simile situazione.
In uno studio pubblicato online su Nature Geoscience a fine gennaio, però, si ipotizza una spiegazione che potrebbe risultare vincente. Amy C. Barr e Robin M. Canup, ricercatrici del SwRI Planetary Science Directorate, hanno infatti creato un modello matematico in cui si mostra come i cammini evolutivi di Ganimede e Callisto divergano circa 3,8 miliardi di anni fa, nel corso del periodo che i planetologi chiamano il Late Heavy Bombardment. Come dice il nome, si tratta del periodo primordiale dell’evoluzione della famiglia del Sole caratterizzato da violenti impatti provocati dal caotico e pericoloso intersecarsi delle orbite dei corpi asteroidali e cometari che popolavano il sistema.

Per Ganimede e Callisto si trattò di un vero tiro al bersaglio, reso ancora più drammatico dalla potente azione gravitazionale di Giove. A causa della differente distanza dal pianeta gigante, però, le due lune sperimentarono un destino diverso. Ganimede, più vicino a Giove, venne colpito dal doppio dei proiettili cometari che colpirono Callisto e per di più quei proiettili cosmici erano dotati di velocità più elevate. Il risultato di tale bombardamento fu un riscaldamento talmente intenso e profondo che sfociò nella completa fusione del satellite, rendendo in tal modo completamente differente la sua struttura interna da quella del gemello Callisto.

“E’ incredibilmente importante – ha sottolineato Amy Barr – comprendere come mai questi due corpi praticamente gemelli sono diventati così diversi l’uno dall’altro. In queste differenze si nascondono preziosi indizi sull’evoluzione iniziale del nostro Sistema solare.”

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