L’immagine è stata scattata dal potente occhio robotico HiRISE a bordo di MRO il 1° novembre. La fotocamera ha ripreso il sito con tre diversi filtri, che gli scienziati hanno poi assemblato a formare un’unica immagine a colori. Rispetto alla precedente immagine ad alta risoluzione, questo nuovo scatto è stato ripreso leggermente più a ovest, in modo da fornire agli scienziati un punto di vista diverso.
Questa nuova fotografia conferma che i puntini bianchi che costellano i dintorni immediati del cratere lasciato da Schiaparelli sono oggetti reali. Gli scienziati sospettano che si tratti dei frammenti espulsi dall’impatto del modulo, oppure dalla successiva esplosione dei serbatoi di idrazina, che visto lo spegnimento prematuro del sistema di propulsione a 2-4 chilometri di quota, erano probabilmente quasi del tutto pieni al momento del contatto con il suolo.
Un possibile puntino bianco è visibile anche al centro del cratere, largo circa 2,4 metri, ma la sua identificazione è ai limiti delle capacità strumentali di HiRISE. Nell’immagine si nota anche una chiazza più chiara appena a sinistra del cratere, forse dovuta al materiale superficiale sollevato dall’impatto oppure alla decompressione esplosiva dei serbatoi.
Le osservazioni suggeriscono che lo scudo anteriore sia appoggiato con l’interno rivolto verso la superficie; tuttavia, ulteriori immagini, possibilmente stereoscopiche, saranno necessarie per confermare quest’ipotesi. Anche lo scudo termico frontale è stato fotografato di nuovo, ma anche stavolta in bianco e nero, visto che, al momento del passaggio di MRO, si trovava appena al di fuori del campo visivo dei tre filtri.
L’Agenzia Spaziale Cinese (CNSA) ha recentemente confermato il lancio della sonda Chang’e-5 previsto per il 2017, la missione robotica che raccoglierà dei campioni del suolo lunare e li riporterà sulla Terra.
Ouyang Ziyuan, capo scientifico del Lunar Exploration Project, oltre a confermare che l’altra missione, Chang’e-4, atterrerà sul lato lontano della luna, ha aggiunto che le successive analisi dei reperti geologici collezionati da Chang’e-5 potranno aiutare a far luce sulla formazione ed evoluzione del nostro satellite.
«Siamo pronti. Ogni laboratorio è pronto>», ha dichiarato. «Una volta che i campioni saranno tornati, potremo iniziare subito le nostre analisi».
Chang’e-5 sarà lanciata con un vettore Long March 5, un razzo che farà il suo volo inagurale a breve. La partenza, tuttavia, ancora non è stata fissata ma indicativamente avverrà nella seconda metà del prossimo anno.
La missione sarà la prima a riportare sulla Terra campioni della Luna dopo il Luna 24 sovietico, a più di 40 anni di distanza, e la Cina sarà il terzo paese a tentare l’impresa.
La zona di atterraggio era stata mappata dal modulo di servizio Chang’e 5-T1 e, anche se non è stato dichiarata pubblicamente, dovrebbe corrispondere più o meno al Mare Crisium, a nordest del Mare della Tranquillità.
Nel frattempo, come da programma, il modulo spaziale Tiangong-2 (TG-2) ha ricevuto la visita del primo equipaggio (potete seguire le orbite della TG-2 e TG-1 nel mission log di Marco Di Lorenzo).
Il secondo “Palazzo Celeste” aveva iniziato la sua missione biennale alle 16:04 ora italiana del 15 settembre con un lancio perfetto dal Pad 921 del Jiuquan Satellite Launch Center nel deserto del Gobi ed il vettore Chang Zheng (Long March) 2F/T2.
I due astronauti, il comandante Jing Haipeng e il pilota Chen Dong, vivranno a bordo del laboratorio orbitante per 30 giorni, periodo durante il quale verranno condotti esperimenti scientifici e visite mediche per il monitoraggio della salute nello spazio.
Meraviglioso Marte, nel nuovo numero di Coelum astronomia di novembre
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Il corso di Master internazionale in astronomia e astrofisica “AstroMundus” è un programma di eccellenza rivolto a studenti particolarmente motivati e meritevoli di qualsiasi nazionalità. Si tratta di un corso di studi equivalente a un corso italiano di laurea magistrale, ma offerto congiuntamente da cinque università in Austria, Italia, Germania e Serbia e prevede che gli studenti si spostino da una università all’altra nell’arco dei 2 anni di durata del corso, in modo da trarre vantaggio dell’ampia gamma di settori astrofisici in cui le università partecipanti eccellono.
Kristhell López dal Guatemala ci racconta la sua esperienza.
Tuttavia, il numero di borse disponibili è limitato e ci sono sempre molti studenti meritevoli in lista di riserva per l’assegnazione di una borsa di studio che, pur essendo stati selezionati, non sono in grado di partecipare al corso per mancanza di risorse finanziarie. Tra questi, molti provengono da paesi in via di sviluppo, dove le possibilità di studiare astronomia e astrofisica a livello universitario sono assenti o scarse, o stanno soltanto ora iniziando a svilupparsi.
Per questo Astromundus ha avuto l’idea di lanciare una campagna di raccolta fondi per finanziare la partecipazione proprio di studenti selezionati che provengano da queste aree geografiche, in particolare varie aree dell’Africa, alcuni paesi dell’Asia e dell’America Centro-meridionale e anche alcuni stati del Centro-Est Europeo, scelti a partire dall’esperienza con studenti che hanno partecipato alle precedenti edizioni del programma e da suggerimenti forniti dai vari nodi regionali dell’Office of Astronomy for Development, dell’Unione Astronomica Internazionale.
ASTROMUNDUS. Il corso di Master internazionale in astronomia e astrofisica “AstroMundus”, che coinvolge le Università di Innsbruck, Padova, Roma “Tor Vergata”, Göttingen e Belgrado, è nato nel 2009 nel quadro del programma Erasmus Mundus 2009-2013 della Commissione Europea (CE), a partire da un’idea del Professor Piero Rafanelli, allora direttore del Dipartimento di Astronomia dell’Università di Padova, e della Professoressa Sabine Schindler all’epoca direttrice dell’Istituto di Astrofisica e Fisica delle Particelle e attualmente Vice Rettore alla Ricerca dell’Università di Innsbruck. Ad oggi, in seguito al risultato nettamente positivo della valutazione effettuata dall’EACEA nel 2014, il corso, ormai giunto alla settima edizione, prosegue con il co-finanziamento del programma Erasmus+ dell’Unione Europea e con il supporto finanziario del Consorzio AstroMundus, che a partire dal 2015 include come partner associati INAF, in particolare con gli Osservatori Astronomici di Padova e di Roma, INFN, tramite il Gran Sasso Science Institute dell’Aquila, il Max- Planck Institute for Solar System Research di Göttingen e l’Osservatorio Astronomico di Belgrado.
Il 6 novembre la Luna (fase 39%), Marte (mag. +0,4) e la stella Dabih (Beta Cap, mag. +3,0) della costellazione del Capricorno, saranno protagonisti di una spettacolare congiunzione in ascensione retta: i tre astri saranno allineati quasi perfettamente in verticale sull’orizzonte sudovest.
L’ora consigliata per l’osservazione è a partire dalle 20:15, quando Marte, il più basso dei tre, avrà un’altezza di almeno 10° (mentre alle 21:00 sarà già molto più basso e difficile da osservare, essendo a poco più di 6° sull’orizzonte).
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Esplorando la superficie marziana, il rover americano Curiosity si è imbattuto in un meteorite caduto nei cieli del Pianeta Rosso. Il meteorite era stato individuato per la prima volta in alcune immagini scattate dalla fotocamera Mastcam il 27 ottobre; ora, nuove analisi condotte dallo spettrometro laser ChemCam confermano la natura aliena dell’oggetto.
Le analisi indicano che la roccia, soprannominata “Egg Rock”, è un meteorite ferroso, ovvero ricco di ferro e nichel.
«L’aspetto scuro, liscio e lucido di questo bersaglio e la sua forma sferica hanno attirato l’attenzione degli scienziati non appena abbiamo ricevuto le immagini scattate da Mastcam,» spiega Pierre-Yves Meslin del CNRS.
Le immagini erano state scattate in seguito a una breve passeggiata eseguita da Curiosity. I dati raccolti da ChemCam sono indicativi della presenza di ferro, nichel e fosforo, con altri elementi in traccia le cui concentrazioni sono ancora in fase di analisi. L’individuazione di questi elementi è stata resa possibile dall’analisi spettrale di dozzine di impulsi laser sparati verso nove diversi punti lungo la superficie del meteorite.
Si pensa che i meteoriti ferrosi rappresentassero in origine i cuori di asteroidi ben più grandi e differenziati. Violente collisioni con altri corpi celesti avrebbero poi liberato i nuclei, che si sarebbero andati a schiantare contro i vari pianeti del Sistema Solare.
«I meteoriti ferrosi provengono da una grande varietà di asteroidi che si sono spaccati in più pezzi, con frammenti dei loro nuclei che sono finiti sulla Terra e su Marte,» spiega Horton Newsom dell’Università del New Mexico. «Marte potrebbe aver campionato una diversa popolazione di asteroidi rispetto alla Terra».
Studiare questo meteorite potrebbe consentire agli scienziati di osservare come l’esposizione alle condizioni della superficie marziana ne ha alterato la composizione e la struttura. Al momento, gli scienziati sospettano che il meteorite sia caduto sul Pianeta Rosso milioni e milioni di anni fa, ma ulteriori analisi della sua struttura interna forniranno una stima più accurata.
Il rover, che ormai ha superato da oltre due anni la sua missione primaria, sta mostrando i primi segni di invecchiamento. Lo strumento DAN, ad esempio, sta operando a una differenza di potenziale elettrico minore di quella prevista; tuttavia, anche qualora DAN non dovesse più essere in grado di generare neutroni, potrebbe continuare a mappare l’acqua nel suolo usando la sua modalità passiva. Anche lo strumento REMS, deputato allo studio dei venti marziani, ha recentemente manifestato dei segnali di anomalia. Oltre a questi piccoli acciacchi, Curiosity continua a operare alla perfezione.
Proprio in queste ore, nel pieno di un nuovo sciame sismico che sta colpendo duramente il centro Italia, i satelliti radar gemelli Sentinel-1 della costellazione Copernicus — programma di ricerca condotto congiuntamente da ESA e dall’Unione Europea — in combinazione con il cloud computing del segmento di terra, stanno monitorando le zone sismiche per la rilevazione degli spostamenti del terreno con una precisione nell’ordine di pochi millimetri.
Aggiornamento ASI sui dati raccolti tra il 30 ottobre e il 1 novembre
Come già avvenuto negli eventi dello scorso agosto nelle stesse aree, o nei precedenti eventi in Emilia Romagna, le informazioni rilevate dai satelliti saranno fondamentali per caratterizzare le aree colpite, permettendo di scoprire le strutture geologiche che le costituiscono e coordinare i soccorsi a seguito dei crolli e delle deformazioni del terreno.
Il radar è stato sviluppato nel secolo scorso per identificare aerei che si muovevano a centinaia di chilometri all’ora. Oggi il radar satellitare può rivelare cambiamenti altrimenti invisibili da terra che avvengono a velocità paragonabili alla crescita delle nostre unghie.
Il nuovo servizio automatico radar offerto dalla costellazione Europea copre le regioni sismiche d’Europa, monitorando una superficie complessiva di tre milioni di chilometri quadrati suddivisi in blocchi di 200m di lato. Ogni volta che un movimento viene identificato vengono avviati controlli più dettagliati che possono essere effettuati tramite la Geohazards Exploitation Platform dell’ESA.
«Il servizio è stato attivato in tutte le regioni sismiche dallo scorso gennaio, sfruttando l’elaborazione automatizzata dei dati e sviluppata dal Centro aerospaziale tedesco DLR,» spiega Fabrizio Pacini di Terradue, sovrintendere alla piattaforma.
«Il nostro piano il prossimo anno è quello di scalare gradualmente fino a coprire tutte le regioni sismiche del mondo, ovvero fino a un quarto dell’intera superficie terrestre. Tale copertura è davvero senza precedenti. Si tratta di un passo fondamentale per permettere alla società di ridurre i rischi da terremoti e vulcani».
I satelliti riprendono immagini radar successive della stessa posizione, che vengono poi combinate per rivelare il minimo spostamento. È una tecnica consolidata, utilizzata per dare istantanee affidabili dei movimenti sulla terra in seguito ad eventi come i recenti terremoti in Italia centrale.
Quando, negli anni ’80, le prime reti GPS di precisione rivelarono spostamenti, allora inattesi, lungo le placche tettoniche durante eventi sismici su larga scala, gli scienziati della Terra rimasero fortemente sorpresi.
Le scansioni radar combinate oggi arrivano a un livello di sensibilità di millimetri e su vaste aree, grazie a misure GPS punto per punto, ma il processo richiede una enorme potenza di calcolo.
«Il vero cambio di passo qui è che i dati vengono prodotti in tutte le aree interessate su una base completamente automatizzata», aggiunge Fabrizio.
Il servizio elabora una media di 50 coppie di immagini al giorno di tutta Europa, provenienti dai satelliti Sentinel-1A e 1B, e riprese a sei giorni di distanza.
Il prossimo anno, il numero aumenterà a 130 coppie al giorno, con un massimo di 24 giorni e, potenzialmente, di 12 giorni tra tra un’acquisizione e l’altra, per aree al di fuori dell’Europa, elaborando ogni giorno 1 terabyte di dati e con la possibilità di aumentare la risoluzione in caso di necessità. Elaborazione, su così grande scala, permessa dalla piattaforma on-line e cloud-based Geohazards Exploitation Platform appositamente realizzata per lavorare con grandi quantità di dati satellitari.
Le osservazioni satellitari di questo tipo consentono di ricavare informazioni fondamentali istantanee in caso di eventi sismici e costituiscono un importante patrimonio informativo per analizzare a fondo i meccanismi fisici che sono alla base di questi fenomeni.
Il programma Copernicus
I satelliti Sentinel 1 sono parte di un più ampio programma di ricerca condotto congiuntamente da ESA e dall’Unione Europea denominato Copernicus (prima del 2012 era noto come GMES, Global Monitoring for Environment and Security), che ha lo scopo di fornire informazioni operative sulle terre emerse, gli oceani e l’atmosfera terrestre utili sia alle politiche ambientali che ad esigenze di sicurezza con la capacità di raccogliere informazioni in tempi rapidissimi in caso di disastri naturali.
Copernicus prevede 6 famiglie di satelliti, oltre alla citata Sentinel 1: Sentinel 2 (il primo lancio è stato effettuato il 23 giugno 2015) ha il compito di riprendere immagini ad alta risoluzione nello spettro visibile e nell’infrarosso delle terre emerse e della vegetazione; Sentinel 3 (il primo satellite è in orbita dal 16 febbraio 2016) è dedicata principalmente all’osservazione degli oceani; Sentinel 4 e Sentinel 5 forniranno dati sull’atmosfera rispettivamente da un’orbita geostazionaria e da un’orbita polare (e saranno preceduti da Sentinel 5 Precursor); infine Sentinel 6 porterà a bordo un radar altimetrico per misurare la profondità dei mari, per scopi oceanografici e per lo studio del clima.
ESA cura le operazioni di lancio e LEOP dei satelliti Sentinel, mentre le operazioni si svolgono in modo coordinato con EUMETSAT.
I satelliti Sentinel 1
Sentinel 1A, che è in tutto e per tutto identico a Sentinel 1B, sono stati costruiti da Thales Alenia Space sulla piattaforma satellitare “Prima” (Piattaforma Italiana Multi-Applicativa) ed è dotato di un radar ad apertura sintetica (SAR) di 12 metri operante in banda C, prodotto da Airbus Defence and Space. I dati raccolti possono essere trasmessi a terra via radio, ma anche attraverso un terminale Laser in grado di comunicare con i satelliti della rete di trasmissione EDRS, posizionati in orbita geostazionaria.
Il satellite ha la forma di un parallelepipedo di 4 x 2,8 x 2,5 metri, dal quale sporgono lateralmente due pannelli solari da 10 metri e, alla base, l’antenna radar di 12 metri. Il peso al momento del lancio era di 2.164 kg, ai quali vanno aggiunti 130 kg di carburante.
Sulla Luna c’è un enorme bacino, formatosi circa 3.8 miliardi di anni fa, caratterizzato da una forma ad anelli concentrici. Si chiama Mare Orientale, e utilizzando i dati provenienti dalla missione Gravity Recovery and Interior Laboratory (GRAIL) della NASA i ricercatori sono riusciti a gettare nuova luce sulla sua formazione. I risultati dei loro studi sono stati pubblicati sulla rivista Science, in due articoli distinti.
Il Mare Orientale ha una forma a bersaglio facilmente riconoscibile, in cui il cratere più esterno misura quasi mille chilometri di diametro. Trovandosi lungo il bordo sud-occidentale della Luna è poco visibile da Terra, ed è stato studiato in dettaglio solo grazie a missioni spaziali dedicate al nostro satellite naturale. Gli scienziati hanno discusso per anni su come potessero essersi formate quelle strutture ad anello, e finalmente, grazie a una serie di passaggi ravvicinati delle sonde gemelle GRAIL, siamo vicini a una risposta.
I dati raccolti nel 2012 dalla missione GRAIL hanno mostrato nuovi dettagli sulla struttura interna del bacino e gli scienziati sono stati in grado di ricreare, attraverso simulazioni al computer, il processo di formazione degli anelli.
«I grandi impatti, come quelli che hanno formato il Mare Orientale, sono stati i principali responsabili del cambiamento delle superfici planetarie nel sistema solare», spiega Brandon Johnson, geologo della Brown University, primo autore di uno dei due studi e co-autore dell’altro. «Grazie ai dati forniti da GRAIL abbiamo un’idea molto più chiara di come si formano questi bacini, e siamo in grado di applicare le nostre conoscenze a crateri di dimensioni simili osservati su altri pianeti o lune».
«In passato sapevamo molto poco di questo bacino», dice Jim Head, geologo della Brown Univesity e co-autore della ricerca. «Dovevamo affidarci a ciò che riuscivamo a vedere della sua superficie, senza conoscenze approfondite del sottosuolo. È come cercare di capire come funziona il corpo umano solo studiandone la pelle. La bellezza dei dati GRAIL è che ci ha permesso di mettere il Mare Orientale in una macchina a raggi X, offrendoci uno sguardo dettagliato sia sulle sue caratteristiche superficiali che su quelle del sottosuolo».
Uno dei misteri fondamentali che sono stati risolti riguarda la dimensione e la posizione della “cavità transiente”, ovvero il cratere generato inizialmente dall’impatto. Per impatti di piccola taglia il cratere iniziale rimane visibile, ma per collisioni più grandi il rimbalzo della superficie che avviene dopo l’impatto può cancellare ogni traccia del bacino iniziale. Alcuni ricercatori pensavano che uno degli anelli potesse rappresentare questo cratere primordiale, mentre le osservazioni di GRAIL hanno dimostrato che non è così: i dati gravitazionali rivelano che la cavità transiente si trova tra i due anelli più interni, e ha un diametro pari a circa 300-500 km. La stima sulla dimensione del cratere iniziale ha permesso al team di valutare quanto materiale sia fuoriuscito durante la collisione: oltre un milione di metri cubi di roccia.
Nel contesto del secondo lavoro, i ricercatori hanno sviluppato un modello che, a partire dai dati GRAIL, è in grado di fornire informazioni circa l’oggetto che ha impattato sulla Luna per formare il Mare Orientale. La migliore concordanza con i dati è rappresentata da un oggetto con un diametro di circa 60 km, che viaggiava a 15 km al secondo.
La simulazione spiega come si sono formati gli anelli concentrici, e mostra come la crosta sia rimbalzata dopo l’impatto, con rocce calde e fluide del sottosuolo che si muovevano in profondità all’altezza del punto di impatto. Questo flusso di materiale verso l’interno ha causato delle fratture alla crosta, che è poi scivolata in direzione esterna, dando vita ai due anelli più lontani.
L’anello più interno si è formato attraverso un processo differente. In genere, negli impatti di piccola taglia, il rimbalzo della crosta può formare un picco centrale di materiale che si accumula e si raffredda, ma nel caso del Mare Orientale questo picco risultava troppo grande. Il materiale fuoriuscito a seguito dell’impatto si è andato a disporre in forma circolare, dando vita all’anello più piccolo.
«Si tratta di un processo molto intenso», aggiunge Johnson. «Questi rilievi e l’anello centrale si sono formati a pochi minuti dall’impatto, ed è la prima volta che siamo in grado di riprodurre la loro formazione con tale dettaglio. GRAIL ci ha fornito i dati di cui avevamo bisogno per dare una base solida ai modelli».
«Ci sono diversi bacini di questo tipo su Marte», continua Johnson. «Ma, rispetto alla Luna, Marte è un pianeta geologicamente più attivo, e questo fa sì che la storia dei crateri venga cancellata dal tempo. Ora che abbiamo una comprensione migliore di come si possano formare crateri di questo tipo, possiamo ricostruire i processi che sono avvenuto dopo».
«La Luna è una specie di laboratorio», dice Head. «Il fatto che sia così ben conservato ci permette di analizzare con grande precisione una serie di caratteristiche che possono essere osservate in tutto il sistema solare».
Per saperne di più:
Leggi su Science l’articolo “Gravity field of the Orientale basin from the Gravity Recovery and Interior Laboratory Mission” di Maria T. Zuber et al.
Leggi su Science l’articolo “Formation of the Orientale lunar multiring basin” di Brandon C. Johnson et al.
Meraviglioso Marte, nel nuovo numero di Coelum astronomia di novembre
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In diretta web con il Telescopio Remoto UAI Skylive dalle ore 21:30 alle 22:30, ovviamente tutto completamente gratuito. Un viaggio deep-sky in diretta web con il Telescopio Remoto UAI – tele #2 ASTRA Telescopi Remoti. Osservazioni con approfondimenti dal vivo ogni mese su una costellazione del periodo. Basta un collegamento internet, anche lento. Con la voce del Vicepresidente UAI, Giorgio Bianciardi
I convegni e le iniziative dell’UAI
Novembre Meeting Nazionale UAI Supernovae e Profondo Cielo Un appuntamento per rilanciare anche in ambito UAI un settore di ricerca che negli ultimi anni ha avuto un notevole impulso nel mondo astrofilo: l’astronomia extragalattica e la ricerca ed osservazione delle supernovae (data e sede da definire).
La sonda è uscita dalla modalità di emergenza alle 19:05 del 24 ottobre, ovvero 5 giorni e 11 ore dopo l’anomalia. Gli ingegneri stanno ancora cercando di isolare la causa dell’anomalia; nel frattempo, alle 20:51 di ieri, Juno ha eseguito una manovra di 31 minuti con il suo sistema di propulsione secondario. La manovra è risultata in un cambiamento di velocità pari a 2,6 metri al secondo e ha consumato 3,6 chilogrammi di carburante.
La manovra è stata eseguita in vista del prossimo perigiovio di Juno, previsto per le 18:03 dell’11 dicembre. Durante il sorvolo, tutti gli strumenti scientifici a bordo della sonda saranno attivi.
«Non vediamo l’ora del prossimo passaggio ravvicinato,» spiega Scott Bolton, a capo della missione. «I dati raccolti finora sono stati davvero incredibili».
Ancora non è chiaro quando e se Juno eseguirà la manovra di riduzione del periodo (PRM) con cui si calerà nella sua prima orbita scientifica. La sonda si trova ancora nella sua orbita di cattura, e la manovra PRM era prevista proprio per il perigiovio del 19 ottobre. Recenti commenti da parte degli scienziati di Juno suggeriscono che la sonda potrebbe rimanere nella sua orbita di cattura fino alla fine della missione.
L’esplorazione del Sistema Solare continua con lo speciale Marte, nel nuovo numero di Coelum astronomia di novembre
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I primi giorni di novembre saranno caratterizzati, sull’orizzonte ovest, da Venere e Saturno che si incontreranno in una bella congiunzione il primo di novembre (la separazione sarà poco più di 4°). A questi, il 2 novembre, si aggiungerà anche una sottilissima falce di Luna (fase 8%) a formare un terzetto.
L’orario consigliato è quello delle 17:45, quando saranno ancora immersi nel chiarore del crepuscolo (la notte astronomica inizia circa un’ora dopo, alle 18:41), ma non troppo bassi sulla la linea dell’orizzonte (circa 10°), dietro la quale tramonteranno dopo solo mezz’ora.
Poco il tempo quindi per scattare affascinanti fotografie assieme al paesaggio circostante e un’interessante occasione per confrontare la differenza di magnitudine di questi oggetti, ad occhio nudo o con l’ausilio di un binocolo.
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Verso la mezzanotte si avvicinerà al “mezzocielo superiore” (il punto in cui l’equatore celeste taglia il meridiano, che alle nostre latitudini è situato a circa 48° di altezza) l’inconfondibile Orione, accompagnato da Toro, Gemelli e Cane Maggiore. Più in basso il meridiano sarà attraversato dalla estesa ma debole costellazione dell’Eridano, mentre più in alto transiteranno le Pleiadi. Cigno e Pegaso saranno al tramonto sull’orizzonte ovest, mentre dalla parte opposta del cielo starà sorgendo il Leone.
All’inizio di novembre il Sole si troverà ancora nella Bilancia, e solo il giorno 23 entrerà nello Scorpione, costellazione in cui non si “fermerà” per un mese intero, come di solito fa nelle altre, ma solo per una settimana. L’eclittica, infatti, passa nella parte alta dello Scorpione, attraversandola solo per un breve tratto, così che il giorno 30 il Sole sarà già nella costellazione dell’Ofiuco. Nel corso del mese continuerà la discesa della nostra stella verso declinazioni e culminazioni al meridiano sempre più basse.
La più recente immagine, scattata il 25 ottobre dalla fotocamera ad alta risoluzione HiRISE, rivela la presenza di una macchia scura di 15 per 40 metri che con ogni probabilità è stata causata dall’impatto di Schiaparelli contro la superficie marziana. Al centro della struttura è visibile un piccolo cratere da impatto, largo circa 2,4 metri. Le dimensioni del cratere sono indicative di un impatto da parte di un oggetto di circa 300 chilogrammi di massa a una velocità di oltre 300 chilometri orari. Gli scienziati ritengono che la profondità del cratere sia di circa mezzo metro.
Ciò che stupisce è la distribuzione non uniforme dei detriti scuri intorno al cratere. Generalmente, distribuzioni asimmetriche sono caratteristiche di collisioni ad elevata velocità laterale; la parte finale della discesa di Schiaparelli, però, dovrebbe essere stata quasi del tutto verticale. Si sospetta che, visto lo spegnimento prematuro del sistema di propulsione, i serbatoi di idrazina a bordo di Schiaparelli fossero ancora pieni al momento del contatto con il suolo; l’esplosione dei serbatoi potrebbe essere avvenuta lungo una direzione preferenziale, il che spiegherebbe la forma asimmetrica della macchia.
La superficie attorno al cratere di Schiaparelli è costellata di piccoli puntini bianchi. Ancora non si sa se questi puntini siano prodotti artificiali di un qualche problema della fotocamera, oppure se siano strutture reali in qualche modo collegate con l’impatto. Anche la struttura scura e arcuata che si può notare appena in alto e a destra del cratere sembra eludere qualunque spiegazione, almeno in attesa di analisi più approfondite.
Il paracadute largo 12 metri che ha rallentato la discesa di Schiaparelli attraverso l’atmosfera del Pianeta Rosso è stato ritrovato 1,4 chilometri a sud della cicatrice lasciata dall’impatto del modulo sperimentale. Attaccato al modulo, come previsto, è visibile anche lo scudo termico posteriore.
La separazione del paracadute e dello scudo termico posteriore sarebbe avvenuta prima del previsto. Il sistema di propulsione avrebbe poi preso controllo della discesa, ma si sarebbe spento dopo appena qualche secondo, rilasciando Schiaparelli su una traiettoria di caduta libera da 2-4 chilometri di quota. Lo scudo termico anteriore, che ha protetto Schiaparelli per i primi quattro minuti della sua discesa, è visibile 1,4 chilometri a est del modulo. Il suo aspetto chiaro è probabilmente dovuto al riflesso dei vari strati isolanti. Quest’ipotesi potrà essere confermata scattando immagini da varie angolazioni.
MRO continuerà a sorvolare il sito e a riprendere l’intera area. Gli scienziati potranno usare le ombre per identificare con certezza i vari oggetti visibili nelle immagini. Nel frattempo, le indagini su cosa abbia portato al fallimento del drammatico atterraggio di Schiaparelli continuano, con la pubblicazione di un primo rapporto prevista entro metà novembre.
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Ma ExoMars non è solo Schiaparelli… La corsa al Pianeta Rosso non si ferma.
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Grazie all’utilizzo di un catalogo di 740 supernove 1a, un numero più di dieci volte superiore a quello del campione originale che portò alla fondamentale scoperta, gli autori hanno trovato che l’evidenza a favore di un’accelerazione cosmica dello spazio potrebbe essere marginale, cioè meno robusta di quanto fin qui ritenuto. I risultati del nuovo studio sarebbero invece consistenti con un tasso di espansione costante.
Cinque anni fa, il premio Nobel per la Fisica venne attribuito a Brian P. Schmidt, Adam Riess e Saul Perlmutter per la loro scoperta dell’espansione cosmica accelerata. La loro conclusione si basava sull’analisi di una particolare classe di supernove, dette di tipo 1a, osservate sostanzialmente dal telescopio spaziale Hubble assieme ad altri grandi telescopi terrestri. Essa portò all’idea, ormai comunemente accettata, che l’universo sia dominato da una misteriosa forza non direttamente rilevabile, chiamata energia oscura, che determinerebbe il ritmo accelerato dell’espansione cosmica.
«La scoperta dell’espansione cosmica accelerata ha portato alla vincita del premio Nobel, del Gruber Cosmology Prize e del Breakthrough Prize in Fisica Fondamentale», spiega Subir Sarkar del Dipartimento di Fisica all’Università di Oxford e co-autore dello studio. «Essa ha ormai portato all’idea comunemente accettata che l’universo è dominato da una forma di energia oscura che si ritiene agisca come la famosa costante cosmologica di Einstein. Questo concetto sta alla base del ‘modello standard’ della cosmologia».
Gli autori del nuovo studio, tuttavia, compiendo tutta una serie di analisi statistiche sul loro più ampio database di supernove, hanno trovato che l’evidenza a favore di un’espansione accelerata sta entro uno scarto statistico di ‘3 sigma’. «È poco per avere i classici ‘5 sigma’ richiesti per affermare invece che siamo di fronte a una vera e propria scoperta di significato fondamentale», afferma Sarkar.
Ci sono, comunque, altri dati disponibili che sembrano supportare l’idea di un’espansione cosmica accelerata: ad esempio, l’informazione sulla radiazione cosmica di fondo ottenuta mediante una serie di esperimenti, condotti da terra e dallo spazio, come quelli – più recenti – del satellite Planck dell’ESA. «Tutti questi test sono indiretti», continua Sarkar. «Essi vengono eseguiti nell’ambito di uno specifico modello, che si basa su determinate assunzioni, e la radiazione cosmica non è direttamente influenzata dall’energia oscura. In realtà, esiste un effetto molto piccolo, il cosiddetto effetto Sachs-Wolfe integrato, che però non è stato rivelato in maniera convincente».
In altre parole, gli autori sostengono che le argomentazioni basate sulla radiazione cosmica di fondo sarebbero dipendenti dal modello assunto e che il modello potrebbe essere sbagliato, il che renderebbe invalide le argomentazioni stesse basate sulla radiazione cosmica di fondo.
«Credo che esista una possibilità di essere sviati e che l’apparente manifestazione dell’energia oscura sia una conseguenza di come vengono analizzati i dati nell’ambito di un modello teorico estremamente semplificato, che di fatto venne costruito negli anni ’30, cioè parecchio tempo prima che fossero disponibili molti più dati osservativi reali», fa notare Sarkar. «Un quadro teorico più sofisticato, che tenga conto del fatto che l’universo non sia esattamente omogeneo e che il suo contenuto di materia possa non comportarsi come un gas ideale, due assunzioni fondamentali della cosmologia standard, potrebbe tener conto di tutte le osservazioni senza richiedere la necessità di introdurre il concetto di energia oscura. Il vero problema è che l’energia del vuoto è qualcosa che ancora non comprendiamo con certezza».
Certo, sarà necessario un grande lavoro per convincere la comunità scientifica di tutto questo in quanto, secondo gli autori, il presente lavoro serve a dimostrare che un pilastro fondamentale del modello cosmologico standard risulterebbe piuttosto traballante. Ma per chiarire questi concetti e per fare il punto sui risultati ottenuti da Nielsen, Guffanti e Sarkar, Media INAF ha posto alcune domande a Massimo Della Valle, direttore dell’INAF – Osservatorio Astronomico di Capodimonte, già collaboratore di Saul Perlmutter sugli studi di supernove-1a ad alto redshift.
Dovremmo fare un passo indietro in relazione alla scoperta dell’espansione cosmica accelerata, cioè rivedere tutto e mettere in discussione il modello standard della cosmologia?
«Se dobbiamo fare un passo indietro non lo so, ma sicuramente non lo faremo sulla base di quanto riportato nel lavoro di Nielsen et al. che mettono in discussione non solo l’espansione accelerata dell’Universo, ma, implicitamente, anche il fatto di vivere in un universo caratterizzato da una geometria “piatta”, come misurato in passato dall’esperimento BOOMERANG e più recentemente da Planck. L’analisi della figura 2 di Nielsen et al. rivela il punto critico delle loro conclusioni. Al termine della loro analisi statistica su un campione di oltre 700 supernove, gli autori trovano che i dati sono ‘consistenti’ entro ‘3 sigma’ con un universo in espansione costante, caratterizzato da Ωm ~0.1 e quindi ΩΛ ~0.05, che però sono valori incompatibili con Ωk = 0.000±0.005, il parametro di curvatura, corrispondente all’universo “piatto” misurato da Planck».
Sarebbe, dunque, solo una questione di statistica, e perciò di un’analisi più dettagliata dei dati, che porterebbe gli autori a queste conclusioni?
«Si, direi che le loro conclusioni si basano su un’interpretazione puramente statistica dei dati, ma nel contempo gli autori perdono di vista il contesto cosmologico, a formare il quale hanno contribuito altre evidenze osservative (BAO e Galaxy clusters, per esempio). È quasi sicuro che le supernove-1a soffrano di effetti sistematici e che quindi non sia stato sufficiente aumentare il campione di supernove-1a per migliorare la precisione delle misure dei parametri cosmologici (la figura 3 di Nielsen et al. è emblematica, da questo punto di vista). Tuttavia, quando andiamo a considerare solo gli oggetti meglio osservati, specialmente includendo oggetti a redshift maggiori di 1, l’andamento mi sembra inequivocabile e l’espansione accelerata non sembra in discussione. Le parole del cosmologo inglese Martin Rees, a questo proposito, chiariscono in modo esemplare questo punto: “Storicamente le supernove hanno fornito la prima evidenza osservativa per un universo in espansione accelerata. Ma se l’ordine degli eventi fosse stato diverso, avremmo potuto predire l’accelerazione dell’espansione solamente sulla base del modello CDM e a questo punto le supernove avrebbero semplicemente fornito una conferma soddisfacente”».
Siamo sicuri, però, che le supernove-1a siano davvero “candele standard”?
«In realtà sono “candele” standardizzabili. Nell’universo locale il processo di “standardizzazione” delle supernove-1a funziona, e non si hanno indizi che facciano ritenere che lo stesso non accada a redshiftpiù alti. Però, se vogliamo tornare ad una misura diretta dei parametri cosmologici, l’unico modo per circoscrivere e valutare l’azione degli errori sistematici è quello di cambiare la metodologia sperimentale fin qui adottata, basata, per l’appunto, sulle supernove-1a. In questo senso, l’utilizzo dei Gamma-Ray Bursts (GRB) per misurare Ωm, in modo indipendente dalle supernove-1a, è stato un passo importante. Sebbene la misura di Ωm ottenuta con i GRB sia ancora caratterizzata da barre d’errore molto grandi, il risultato ottenuto converge verso un valore di Ωm~ 0.3 e quindi confermerebbe il risultato trovato dalle supernove-1a nel 1998».
Secondo gli autori, dovremmo pensare a un quadro teorico più sofisticato che tenga conto di tutte le osservazioni senza richiedere la necessità di introdurre il concetto di energia oscura. Dunque, l’energia oscura sarebbe un falso problema?
«Al contrario, a me più che “falso” sembra “oscuro”, anzi uno dei problemi più enigmatici della moderna astrofisica. Nel lungo termine, come sottolineato da Nielsen et al. verso la fine del loro articolo, l’esperimento CODEX presso l’European Extremely Large Telescope (EELT) dovrebbe chiarire in modo definitivo il punto in discussione, misurando direttamente la variazione del tasso di espansione dell’universo (redshift-drift). Nel breve termine, invece, la scoperta di supernove-1a a grandi redshift (z=1.5-2) e la loro collocazione nel diagramma magnitudine-distanza potrebbe dare indicazioni molto interessanti sul tipo di espansione che caratterizza l’universo nel quale viviamo».
11 giorni di mostre, laboratori, spettacoli, conferenze, incontri ed eventi speciali. Una festa, un melting pot, un grande contenitore dove tutti possono parlare di scienza e avvicinarsi alle discipline scientifiche. Un’occasione per toccare con mano la scienza in modo efficace e divertente per stimolare l’interesse di qualsiasi fascia d’età o livello di conoscenza.
La quattordicesima edizione del Festival della Scienza si terrà a Genova dal 27 ottobre al 6 novembre 2016 e avrà come parola chiave segni. La scienza studia i segni che l’uomo ravvisa nella natura, ma anche la scienza è scritta con i segni di un linguaggio appropriato inventato dall’uomo. Una parola chiave che ha ispirato un programma variegato, eterogeneo e multidisciplinare.
484 animatori, fra studenti universitari e giovani ricercatori provenienti da tutta Italia, a cui si affiancheranno studenti delle scuole secondarie genovesi in un progetto di alternanza scuolalavoro supportato dalla Regione Liguria, vi accoglieranno negli oltre 280 eventi in programma. Conferenze, incontri, mostre, laboratori, spettacoli ed eventi speciali, per toccare con mano la scienza in modo divertente e per stimolare l’interesse di qualsiasi fascia d’età o livello di conoscenza.
Segnaliamo in particolare: 29.10: “Le stelle del cinema. Scienza e fantascienza sul grande schermo” di Roberto Battiston, Presidente ASI. 29.10: “Astronomia Gravitazionale. Nascita di una nuova scienza” con Marica Branchesi, Laura Cadonati, Marco Drago, Giorgio Pacifici, Fulvio Ricci. 30.10: “Onda su onda. La radioastronomia da Marconi ad Einstein” di Nicki D’Amico. 31.10: “ExoMars: l’Italia è su Marte. Alla ricerca di segni di vita sul pianeta rosso” con Massimo Della Valle, Francesca Esposito, Barbara Negri. 02.11: “Buchi neri e onde gravitazionali. Segni dallo spazio” con Gianluca Gemme, introduce: Enrico Beltrametti. 04.11: “Qual è la materia che riempie l’Universo? Alla ricerca dei segreti della dark matter” di Elena Aprile 06.11: “Cacciatori di Onde. Advanced Virgo e LIGO, la nascita di una nuova scienza” di Adalberto Giazotto.
…e lo spettacolo: “Da Talete a Higgs. Una passeggiata molto fisica” di e con Massimo Schuster il 4 novembre al Teatro Cargo.
L’appuntamento è fissato per il 2028, anno in cui – con la complicità di un fenomeno chiamato effetto “lente gravitazionale” e al possibile conseguente anello di Einstein – si aprirà la caccia “indiretta” ad un presunto inquilino del sistema stellare a noi più prossimo, Alpha Centauri.
A segnalare il save the date, un team di scienziati francesi guidati da Pierre Kervella del CNRS/Universidad de Chile: collezionando i dati raccolti con i telescopi dello European Southern Observatory, l’equipe ha calcolato le traiettorie della coppia stellare Alpha Centauri A e B, predicendo ogni allineamento da qui al 2050 tra gli astri in questione e altri oggetti sullo sfondo, con una possibilità di errore trascurabile.
L’analisi ha permesso di identificare il futuro allineamento tra il sistema AB e la lontana 5S — probabilmente una stella rossa — con conseguente deflessione della sua radiazione luminosa (l’effetto lente gravitazionale, appunto) e probabile Anello di Einstein. Gli astronomi, conosciuta la massa delle due stelle, stimano di poter risalire al grado di curvatura della radiazione luminosa e calcolare, in caso di variazione rispetto alle misurazione prevista, la presenza di altre masse, come appunto i pianeti.
Secondo infatti le ipotesi degli astronomi Alpha Centauri A nasconderebbe un pianeta che con un po’ di fortuna potrebbe essere individuato con la complicità di S5. Non resta che aspettare il maggio 2028.
28-30 ottobre ICARA 2016, XIII Congresso Nazionale di Radioastronomia Amatoriale Organizzato da SdR
Radioastronomia UAI e IARA – Italian Amateur Radio Astronomy in collaborazione con l’Associazione Astrofili Urania presso l’Osservatorio Astronomico Val Pellice, in provincia di Torino. radioastronomia.uai.it
Le campagne nazionali UAI
29 ottobre Riaccendiamo le stelle, Giornata nazionale dell’inquinamento luminoso Eventi e conferenze locali per sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema dell’inquinamento luminoso. Promossa dalla Commissione Inquinamento Luminoso UAI. inquinamentoluminoso.uai.it
Ancora non ci sono dichiarazioni ufficiali da parte dell’ESA sulla sorte toccata al lander Schiaparelli ma in rete si possono già leggere numerosi articoli dai titoli spesso sensazionalistici che parlano di incredibili crash e di schianti che porterebbero a considerare la missione ExoMars un fallimento. Calma e analizziamo una cosa per volta.
Prima di tutto è necessario chiarire che, appunto, non ci sono dettagli sulla fine della discesa del lander: la mole di dati che ha raggiunto il centro di controllo ESOC di Darmstadt è ancora in fase di analisi e gli ingegneri si dicono molto fiduciosi di poter far luce su quanto avvenuto.
Sappiamo di un funzionamento parziale dei retrorazzi necessari per rallentare la discesa del lander fino a farlo posare delicatamente sulla superficie: soli 3 secondi (sui 30 previsti), un tempo assolutamente insufficiente a frenare adeguatamente il modulo, che probabilmente si è rovinosamente schiantato sulla superficie di Marte, ma saltare subito alle conclusioni senza conoscere il resto dei dati non è certo compito nostro.
L’unica cosa sicura è che le cose non sono andate positivamente, come previsto dal programma della discesa di Schiaparelli. Tuttavia questo non significa che la missione sia un fallimento. ExoMars rimane una missione di ricerca astrobiologica estremamente importante e se per Schiaparelli le cose non sono andate del tutto bene, bisogna invece ricordare che la “nave madre”, l’orbiter TGO – Trace Gas Orbiter, sta funzionando secondo il programma e ha eseguito alla perfezione la manovra di inserimento orbitale.
«Possiamo confermarlo: abbiamo una missione in orbita intorno a Marte». Queste le parole di Jan Woerner, direttore generale dell’ESA, all’apertura della conferenza stampa che si è tenuta lo scorso 20 ottobre al centro ESOC, dopo un’intensa nottata dedicata all’analisi dei dati raccolti. Una consistente parte della missione scientifica di questa prima fase di ExoMars sarà infatti condotta proprio dal TGO: Schiaparelli sarebbe comunque stato operativo, nella migliore delle ipotesi, soltanto per 8 giorni marziani.
«Quello di EDM (Schiaparelli) è un test di atterraggio che ci ha fornito informazioni per poter condurre al meglio la prossima fase della missione ExoMars 2020 che porterà su Marte un rover con tecnologia europea. Abbiamo i dati, il test è andato a buon fine e mi ritengo soddisfatto» continua Woerner.
Sentendo queste parole si potrebbe pensare ad un tentativo di minimizzare, di ridurre quello che da molti è stato un po’ frettolosamente bollato come un fallimento totale. In realtà però, sui quasi 6 minuti di discesa, solo poco prima (sull’ordine dei 50 secondi) del presunto momento del touchdown è stato perso il contatto radio. Per tutto il resto del tempo il lander ha raccolto e trasmesso una grande quantità di informazioni preziose e utili a comprendere le dinamiche del volo in caduta nell’atmosfera marziana e ciò, assicura più volte durante la conferenza stampa Andrea Accomazzo, garantisce agli scienziati i dati necessari per capire cosa sia successo e cosa si dovrà fare meglio o diversamente. D’altra parte lo dice il nome stesso del lander: EDM, Entry, Descent and Landing Demonstrator Module, ossia Modulo di dimostrazione per l’ingresso, la discesa e l’atterraggio.
Inoltre, durante la discesa, la piattaforma scientifica AMELIA, la suite di strumenti made in Italy per l’analisi dell’atmosfera e il monitoraggio delle prestazioni ingegneristiche del lander (PI Francesca Ferri, Università degli Studi di Padova), ha funzionato alla perfezione per tutto il tempo in cui è stato mantenuto il contatto. Anche l’esperimento DREAMS, sempre italiano (PI Francesca Esposito, INAF – Osservatorio Astronomico Capodimonte, Napoli), si era correttamente attivato e sembra aver trasmesso, proprio all’ultimo, una piccola parte di informazioni.
Di certo, non sarà possibile condurre gli altri rilevamenti previsti con questi strumenti che, secondo il programma originario, comunque avrebbero operato solo per pochi giorni, quelli concessi dalla batteria di alimentazione di Schiaparelli (che non era dotato di pannelli solari, essendo la sua una missione a brevissimo termine).
Insomma, nonostante il cattivo esito della manovra di atterraggio, il modulo di test ha svolto comunque il suo dovere: testare le tecnologie. Qualcosa non ha funzionato come doveva e sarà necessario capire cosa sia andato storto in modo da correggere il necessario in vista della fase ExoMars2020.
Nel frattempo, un po’ trascurato dall’attenzione dei media mondiali, l’orbiter TGO ha iniziato la sua vita nell’orbita di Marte, che lo porterà a raccogliere preziosissimi dati per molti anni a venire. Ma se volete saperne di più, non perdetevi il prossimo numero di Coelum Astronomia, con tutti i dettagli sulla missione ExoMars!
In attesa di nuove informazioni sulla triste sorte del lander Schiaparelli, auguriamo lunga vita a TGO!
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Il 19 ottobre, la sonda americana Juno ha sorvolato Giove per la seconda volta nella sua missione – la terza se si include anche la manovra di inserimento orbitale. Tuttavia, alle 7:47 ora italiana, la sonda è stata colpita da un’anomalia che ha portato il computer di bordo ad eseguire un riavvio forzato ed entrare in modalità di emergenza.
Gli ingegneri sono riusciti a ristabilire le comunicazioni con la sonda; nel frattempo, però, Juno ha dovuto cancellare la complessa sequenza scientifica che era prevista per il passaggio di ieri.
«Al momento dell’anomalia, la sonda era a più di 13 ore dal suo incontro ravvicinato con Giove,» spiega Rick Nybakken della NASA. «Eravamo ancora a una discreta distanza dalle regioni più intense nelle fasce di radiazione di Giove. La sonda è in buona saluta e stiamo lavorando per recuperare le sue funzionalità».
Quella di ieri è stata la seconda anomalia in poco tempo per Juno. Appena qualche giorno fa, infatti, la sonda aveva riscontrato un’anomalia in due valvole di ritegno nel sistema di pressurizzazione ad elio; il guasto, la cui origine non è ancora stata determinata con certezza, aveva costretto gli ingegneri a cancellare la manovra di riduzione del periodo orbitale prevista proprio per ieri e rimandarla fino al prossimo perigiovio, previsto per l’11 dicembre.
La manovra avrebbe permesso a Juno di portarsi sulla sua prima orbita scientifica, riducendo il periodo orbitale da 53,4 a 14 giorni. Non è ancora chiaro se l’anomalia del 19 provocherà un ulteriore ritardo nell’inizio della campagna scientifica di Juno. Nell’ultimo aggiornamento pubblicato dalla NASA, si legge che «tutti gli strumenti scientifici saranno attivi durante il prossimo perigiovio,» il che lascia intuire che la manovra sia già stata nuovamente rimandata, in quanto tutta la strumentazione scientifica deve essere spenta a ogni accensione del motore.
Ad alimentare i sospetti, Scott Bolton, a capo della missione, ha riferito che «tutti gli obiettivi scientifici di Juno potranno essere raggiunti anche da un’orbita di 53,4 giorni». Ciò suggerisce che Juno potrebbe restare nella sua orbita attuale ancora per molto tempo.
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Volete scoprire di più su Juno e Giove?
Non perdetevi il nostro ampio speciale (con interviste agli scienziati della missione) su Coelum Astronomia.
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Il grande giorno di ExoMars è ormai agli sgoccioli. Il Trace Gas Orbiter (TGO) ha completato con successo la cruciale manovra di inserimento orbitale; nel frattempo, il modulo Schiaparelli ha eseguito una drammatica discesa attraverso l’atmosfera marziana, ma le sue condizioni rimangono ignote in seguito alla perdita del segnale avvenuta poco prima del contatto con il suolo.
L’accensione del motore da 424 N di spinta di TGO è avvenuta in perfetto orario, alle 15:04:47 ora italiana. La prima parte della manovra è stata monitorata in tempo reale dall’antenna 43 del Deep Space Network di Canberra; poi, la sonda è scomparsa dietro l’orizzonte marziano, interrompendo tutte le comunicazioni con la Terra. Lo spegnimento del motore è avvenuto alle 17:24, leggermente prima del previsto, portando la sonda su un’orbita con un periodo di poco superiore a quello desiderato (pari a 4 giorni marziani), ma comunque ben all’interno dei limiti. La manovra ha rallentato la sonda di circa 5580 chilometri orari. TGO ha ristabilito le comunicazioni tramite la sua antenna ad alto guadagno alle 18:34, dopo essere tornata in normale assetto di volo ed essere riemersa al di sopra dell’orizzonte marziano.
Meno chiaro, invece, è lo stato di Schiaparelli. Il modulo d’atterraggio si è risvegliato con successo alle 15:27 e ha fatto il suo ingresso nell’atmosfera marziana alle 16:42, inaugurando una drammatica discesa di 5 minuti e 53 secondi. Il contatto con l’atmosfera è avvenuto a 122,5 km di quota e a una velocità di 21 mila km/h. La frizione atmosferica ha rallentato Schiaparelli fino a 1650 km/h a 11 km dal suolo; a questo punto, il modulo ha aperto il suo paracadute da 12 metri di diametro. Quattro chilometri più in basso, Schiaparelli ha rilasciato il suo scudo termico anteriore, permettendo all’altimetro radar di entrare in funzione e guidare il modulo verso la superficie. A 1,3 km dal suolo, Schiaparelli si è staccato dallo scudo termico posteriore e dal paracadute, accendendo i suoi motori di atterraggio.
La discesa di Schiaparelli è stata monitorata in tempo reale (se non per i 9 minuti e 47 secondi di ritardo dovuti alla distanza di Marte) attraverso gli spostamenti Doppler nella frequenza dei segnali captati dal radiotelescopio GMRT, in India. Anche le due antenne UHF Melacom a bordo di Mars Express hanno registrato la discesa, ma i loro dati hanno raggiunto l’antenna di Cebreros solo alle 17:46.
Sia le registrazioni del GMRT che quelle di Mars Express mostrano che tutti gli eventi sono stati eseguiti con successo fino alla separazione del paracadute e forse fino anche all’accensione dei motori. Poi, però, il segnale di Schiaparelli si è bruscamente interrotto per motivi ancora sconosciuti. Ignoto rimane anche lo stato della sonda sulla superficie marziana.
Maggiori informazioni sull’esito del tentativo di atterraggio di Schiaparelli arriveranno domattina. Per tutta la notte, i controllori di volo saranno impegnati ad analizzare i dati raccolti da MRO, che ha sorvolato il sito d’atterraggio pochi minuti dopo la discesa di Schiaparelli, e da TGO, le cui antenne ad alta frequenza Electra hanno registrato oltre 20 Mb di informazioni.
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Aggiornamento dalla conferenza stampa ESA del 20 ottobre, ore 10:00
→ TGO è in ottima salute; la manovra di inserimento orbitale è stata eseguita esattamente come previsto ed è pronto a fare scienza per molti anni.
→ La discesa di Schiaparelli è stata nominale fino alla sequenza di apertura e separazione del paracadute. Il modulo ha trasmesso una grande quantitá di dati fino alla perdita del segnale.
→ Il contatto è stato perso circa 50 secondi prima del contatto con il suolo.
→ I dati trasmessi da Schiaparelli rivelano che il sistema di propulsione ha operato correttamente per almeno alcuni secondi. Anche il radar di discesa si è attivato come previsto.
→ Ancora non si sa se Schiaparelli si sia schiantato o meno. La chiave sará comprendere le dinamiche degli ultimi secondi di discesa.
→ I dati Doppler registrati da Mars Express, negli ultimi istanti non coincidono con la telemetria trasmessa da Schiaparelli via TGO; ancora non si sa il perché.
→ La teoria più probabile è che lo spegnimento dei motori sia avvenuto prima del previsto, ma è solo una teoria, ancora non è possibile sapere cosa sia successo dal momento dell’interruzione del segnale.
→ L’ESA sottolinea la natura sperimentale dell’atterraggio. Nonostante i contatti siano stati persi prima del contatto con il suolo, la grande quantitá di dati a disposizione permetterá agli ingegneri di comprendere la natura del fallimento.
→ Andrea Accomazzo si dice fiducioso che l’ESA riuscirà a comprendere le dinamiche che hanno portato alla perdita del segnale – una grande differenza rispetto a Beagle 2, i cui primi indizi arrivarono dieci anni dopo il fallito atterraggio.
→ L’esperimento AMELIA a bordo di Schiaparelli dovrebbe aver raccolto tutti i dati previsti; sarà possibile un’approfondita caratterizzazione delle condizioni atmosferiche.
→ Nei prossimi giorni, le sonde della NASA continueranno a sorvolare il sito di atterraggio, nel tentativo di captare segnali o fotografare Schiaparelli.
Il video integrale della conferenza stampa ESA (in inglese)
In definitiva, la funzione principale del lander Schiaparelli era testare l’entrata in orbita, la discesa e l’atterraggio sul suolo marziano e inviare dati sulle condizioni ambientali e sulle criticità, in preparazione della seconda fase della missione, quando verrà inviato su Marte, nel 2020, il “vero” lander che procederà con la missione scientifica. Possiamo quindi dire che al momento Schiaparelli ha svolto gran parte della sua funzione di test.
Guardando verso l’orizzonte est, all’alba del 28 ottobre, sarà possibile ammirare una sottilissima falce di Luna calante, e, poco sotto, il pianeta Giove, di mag. –1,2, per cui ben visibile ad occhio nudo.
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Rallentamenti in vista per l’inizio della campagna scientifica di Juno. Il 19 ottobre, la sonda americana avrebbe dovuto eseguire una manovra di riduzione del periodo orbitale, o PRM, con la quale si sarebbe calata nella sua prima orbita operativa. La manovra avrebbe ridotto il periodo orbitale dai 53,4 giorni dell’orbita di cattura ad appena due settimane. I responsabili della missione hanno invece annunciato che la manovra è slittata a non prima del prossimo perigiovio, previsto per l’11 dicembre, in seguito alla scoperta di un problema nelle valvole del sistema di pressurizzazione ad elio.
La manovra PRM segnerà l’ultimo utilizzo del motore principale Leros 1b. Il rinvio della manovra dovrebbe fornire abbastanza tempo agli ingegneri per valutare e risolvere il guasto.
«I dati di telemetria indicano che due valvole di ritegno nel sistema a elio non hanno operato come previsto durante una sequenza di comandi eseguita il 13 ottobre,» spiega Rick Nybakken della NASA. «Le valvole si sarebbero dovute aprire nel giro di qualche secondo, e invece hanno impiegato parecchi minuti. Abbiamo bisogno di comprendere a fondo questo problema prima di proseguire con l’accensione del motore principale».
Durante il perigiovio del 19 ottobre, tutti gli strumenti scientifici a bordo di Juno sarebbero rimasti spenti, in modo da non interferire con la cruciale manovra. Tuttavia, visto che l’accensione del motore è slittata a non prima dell’orbita successiva, gli strumenti di Juno saranno attivi per tutta la durata del sorvolo.
«È importante notare che il periodo orbitale non determina la qualità delle misurazioni che effettuiamo durante i vari sorvoli di Giove,» spiega Scott Bolton, a capo della missione. «In questo senso, la missione è molto flessibile.I dati raccolti durante il nostro primo sorvolo, quello del 27 agosto, sono stati una vera e propria rivelazione, e mi aspetto risultati simili dal sorvolo del 19 ottobre».
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Che separazione sia. Il modulo di discesa Schiaparelli si è sganciato dalla sonda madre come previsto, il 16 ottobre. Il lander realizzato a guida italiana punta ora verso la superficie di Marte e il Trace Gas Orbiter continuerà l’avvicinamento al pianeta per approcciare l’orbita bassa prevista.
«Il modulo Schiaparelli si è sganciato regolarmente dall’orbiter – commenta il Presidente dell’ASI Roberto Battiston – ora vivremo le prossime 72 ore che ci separano dall’ammartaggio con il fiato sospeso».
L’Italia, dunque, si appresta ad andare su Marte, guidando in questa impresa, l’Europa tutta. Infatti, dopo un viaggio durato sette mesi per la missione europea e russa ExoMars 2016 si avvicina l’ora x, quella in cui sarà chiamata a ‘conquistare’ il pianeta rosso. Sarà un’offensiva su due fronti: quasi in contemporanea ExoMars dovrà conquistare cieli e terra marziani.
Il modulo di discesa Schiaparelli si è sganciato dalla sonda madre alle 17:15 circa. Da questo momento tutte le operazioni saranno in automatico, senza possibilità di intervento da Terra. Il momento cruciale di questa prima parte della missione ExoMars, che dovrebbe portare l’Europa sul suolo marziano, l’Italia in particolare, solo esempio, se tutto andrà bene, di successo dopo la NASA.
19 OTTOBRE 2016
Seguiamo assieme l’arrivo sulla superficie di Marte del lander Schiaparelli
Diretta web (in italiano): l’Agenzia Spaziale Italiana (ASI) ha organizzato presso il Palazzo delle Esposizioni di Roma un evento che sarà trasmesso in diretta streaming (dalle 18:00 alle 20:45) sulla pagina ASI e sulla pagina italiana dell’ESA e, come di consueto, nella homepage delnostro sito,
Aggiornamenti in diretta sono già in corso sul blog Polluce Notizie (in italiano) e sul sito dell’ESA (in inglese)
Il giorno più lungo sarà mercoledì 19. TGO dovrà infilare l’orbita del mondo rosso mentre Schiaparelli si tufferà nell’atmosfera marziana sfrecciando a circa 21.000 km all’ora.
Grazie a un sofisticato sistema di paracadute e motori frenanti, il lander rallenterà la sua corsa per posarsi vicino all’equatore marziano, sulla Meridiani Planum.
Sarà la fase più critica della missione e si consumerà in una manciata di minuti. Poco meno di sei. 360 secondi di terrore che riportano alla mente la discesa su Marte del ‘collega’ americano Curiosity. La conferma del touchdown di Schiaparelli è attesa sulla Terra dopo le 18.33. Mentre il TGO dovrebbe comunicare il corretto inserimento in orbita a partire dalle 20:25.
Un ruolo cruciale in questa complessa fase lo svolgerà un altro strumento italiano, Radar Doppler Altimeter (RDA) montato sul lander e realizzato nello stabilimento Thales Alenia Space di Roma. Questo sofisticato radar in banda Ka permetterà di gestire in completa autonomia da Terra la brevissima fase finale, della durata inferiore a 100 secondi, necessaria a raggiungere la superficie di Marte.
L’Europa attenderà l’arrivo dei due segnali dal Palazzo delle Esposizioni di Roma dove si svolgerà l’evento ufficiale internazionale Italy goes to Mars organizzato dall’Agenzia Spaziale Italiana in collaborazione con ESA, INAF, Leonardo-Finmeccanica, Thales Alenia Space Italia e National Geographic Channel. Nel corso dell’evento sarà infatti proiettata in anteprima la prima puntata della serie realizzata da Ron Howard e prodotta dal canale edito dalla FOX.
Previsto un evento parallelo anche presso la sede ASI di Tor Vergata. La lunga maratona di ExoMars potrà essere seguita in live streaming su ASITV, in diretta video sulla pagina Facebook dell’Agenzia Spaziale Italiana e su Twitter con l’hashtag #italiavasumarte.
Un’animazione del distacco del lander Schiaparelli dalla sonda TGO pubblicata sul profilo “operativo” twitter dell’ESA
Il programma ExoMars è frutto di una cooperazione internazionale tra l’Agenzia Spaziale Europea (ESA) e l’Agenzia Spaziale Russa (Roscosmos), fortemente sostenuto anche dall’Agenzia Spaziale Italiana (ASI). Il Programma è sviluppato da un consorzio Europeo guidato da Thales Alenia Space Italia realizzato da Thales Alenia Space (joint venture tra Thales 67% e Leonardo-Finmeccanica 33%), che coinvolge circa 134 aziende spaziali dei Paesi partner dell’ ESA. Thales Alenia Space Italia, prime contractor del programma ExoMars, è responsabile della progettazione di entrambe le missioni 2016 e 2020. Telespazio (Leonardo-Finmeccanica 67%, Thales 33%) è infine responsabile dello sviluppo di alcuni sistemi chiave del segmento di terra della missione, tra cui il Mission Control System, usato per monitorare e controllare il TGO nel 2016.
Leonardo contribuisce inoltre alla missione 2016 fornendo molte delle tecnologie a bordo di ExoMars: dai sensori di assetto ai generatori fotovoltaici e alle unità per la trasformazione e la distribuzione della potenza elettrica, fino al cuore optronico dello strumento di osservazione CASSIS.
Le immagini raccolte dalla NAC, la camera ad angolo stretto a bordo del Lunar Reconnaissance Orbiter, sono state utilizzate per osservare la superficie della Luna in diversi momenti, per poterne studiare i cambiamenti morfologici.
La ricerca, pubblicata su Nature, ha come obiettivo lo studio dei crateri da impatto provocati da comete o asteroidi che, schiantandosi sulla superficie, formano e alterano laregolite, uno strato di materiale sciolto e di granulometria eterogenea che ne copre uno di roccia compatta. Alcuni fattori, come la numerosità dei crateri e il loro incremento nel corso del tempo, rappresentano informazioni fondamentali per poter stabilire l’età delle rocce lunari.
Per poter datare con sufficiente precisione le rocce non campionate, è necessario costruire dei modelli basati sulla misura radiometrica dell’età dei campioni e sul conteggio dei crateri. In passato gli studi effettuati sul materiale lunare raccolto hanno dato le prime indicazioni sul loro tasso di formazione. Grazie alle recenti immagini realizzate da di LRO, che catturano la superficie in momenti differenti, è stato possibile risalire al tasso di formazione attuale dei crateri, studiare i getti provocati dall’impatto di oggetti e avere maggiori informazioni sul processo che interagisce con la regolite.
Grazie ai dati raccolti è stato possibile identificare 222 nuovi crateri da impatto e scoprire che il loro tasso di formazione con diametro di almeno10 metri è superiore del33% rispetto al modello adottato in precedenza. LRO ha poi osservato aree dotate di grande riflettanza, possibile prova di un processo legato al sollevamento delle polveri lunari. Il meccanismo innescato ha effetti anche sulla regolite: la turbolenza indotta sarebbe di 100 volte maggiore del previsto. Gli scienziati ritengono di poter usare le informazioni raccolte dalla sonda per migliorare la conoscenza dei tassi di impatto sulla Luna e per investigare sui processi che regolano il modellamento dei corpi celesti nel Sistema Solare.
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Dallo scorso agosto, quando è stata annunciata la scoperta di un pianeta in zona abitabile che le orbita attorno, Proxima Centauri, la stella più vicina alla Terra, è oggetto di grandissima attenzione. Per quel che si conosce finora, Proxima Centauri sembra avere ben poco in comune con il Sole: si tratta di una stella nana rossa, meno calda e massiccia e con solo un millesimo della luminosità del nostro astro. Tuttavia, una nuova ricerca appena pubblicata online dalla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, mostra che, sotto certi aspetti, Proxima Centauri è sorprendentementesimile al Sole, presentando un ciclo regolare di macchie stellari.
Le macchie stellari sono zone scure sulla superficie di una stella – come quelle che possiamo vedere comparire sul Sole – dove la temperatura è un po’ più “fresca” rispetto all’area circostante. Queste macchie sono generate dagli intensi campi magnetici stellari, che possono, in determinate condizioni, limitare il flusso del gas ionizzato (il plasma) della stella.
Il numero e la distribuzione delle macchie stellari sono ovviamente influenzati dai cambiamenti che avvengono nel campo magnetico stellare. Sul Sole, ad esempio, si verifica un ciclo di 11 anni: al minimo dell’attività solare, il nostro astro risulta quasi completamente “smacchiato”, mentre al suo massimo si possono osservare tipicamente più di 100 macchie, con un estensione che copre in media quasi l’uno per cento della superficie solare.
Il nuovo studio ha scoperto che su Proxima Centauri si verifica un ciclodella durata di sette anni, molto più intenso di quello solare. Le macchie che lassù si sviluppano nei periodi di picco massimo arrivano a coprire fino a un quinto della superficie stellare, mentre alcuni spot su Proxima Centauri risultano, in proporzione alle dimensioni del proprio astro, molto più grandi delle macchie solari.
Gli astronomi sono stati sorpresi nel rilevare un ciclo di attività stellare su Proxima Centauri, perché l’interno della stella dovrebbe, in teoria, essere molto diverso dal Sole. Nella parte più esterna del Sole, il plasma ribolle in un movimento convettivo rotatorio, mentre la parte più interna rimane relativamente stabile. Molti astronomi ritengono che la differenza nella velocità di rotazione tra queste due regioni sia responsabile della generazione del ciclo di attività magnetica del Sole. Al contrario, l’interno di una piccola nana rossa come Proxima Centauri dovrebbe essere completamente interessato dal moto convettivo, fino al nucleo della stella. Di conseguenza, non vi si dovrebbe verificare un ciclo regolare di attività stellare.
«L’esistenza di un ciclo in Proxima Centauri», commenta in proposito Jeremy Drake delloHarvard-Smithsonian Center for Astrophysics, fra gli autori del nuovo studio, «dimostra che non capiamo così bene come pensavamo il modo in cui vengano generati i campi magnetici delle stelle».
La domanda che sorge spontanea è se il ciclo di attività stellare di Proxima Centauri possa influenzare il potenziale di abitabilità del pianeta appena scoperto Proxima b, sul quale peraltro esistono dubbi riguardo la composizione. L’esperienza con la nostra stella suggerisce che eruzioni di plasma o vento stellare, entrambi generati dai campi magnetici, potrebbe avere spazzato il pianeta, portandone via qualsiasi traccia di atmosfera. In tal caso, Proxima b potrebbe essere come la Luna, che si trova certamente nella zona abitabile attorno al Sole, ma non è affatto ospitale per la vita.
«Non avremo osservazioni dirette di Proxima b per molto tempo ancora», dice in conclusione Steve Saar, un altro degli autori, sempre dello Harvard-Smithsonian. «Fino ad allora, quel che possiamo fare è di studiare la stella al meglio e quindi inserire tali preziose informazioni nelle teorie sulle interazioni stella-pianeta».
OPPORTUNITY SCENDE NEL LETTO D’UN ANTICO FIUME L’estensione di missione accordata lo scorso primo ottobre a Opportunity, il rover NASA da 12 anni al lavoro sul Pianeta rosso, ci aiuterà a scoprire meglio la conformazione del suolo marziano, almeno dei paraggi della zona che il rover ha esplorato negli ultimi 5 anni. Dal suo arrivo su Marte, nel gennaio 2004, Opportunity ha completato la missione prevista in origine di 90 sol (circa 92 giorni terrestri), ha scoperto il primo meteorite caduto su un altro pianeta, analizzato per due anni ilcratere Victoria ed è fortunosamente sopravvissuto a tempeste di polvere che rischiavano di interrompere la sua attività nel 2007. Nel 2008 si è diretto verso il cratere Endeavour, che ha raggiunto nell’estate 2011.
Opportunity nei prossimi due anni si muoverà per visitare l’interno del cratere Endeavour, scendendo lungo un canalone, che potrebbe essere stato scolpito molto tempo fa da un fluido, forse addirittura acqua. E l’obiettivo principale è proprio questo: capire se il canale sia stato scavato da un flusso fatto di detriti ‘lubrificati’ da acqua o se ci troviamo davanti al letto di un vero e proprio fiume marziano.
«Abbiamo ormai superato la durata inizialmente prevista per la missione di Opportunity di un fattore 50», dice a proposito di questa ulteriore estensione di missione John Callas, project manager di Opportunity presso il Jet Propulsion Laboratory della NASA. «Risultati come questo ci ricordano tutte le storiche conquiste che è stato possibile ottenere grazie alle persone coinvolte nella progettazione e nella gestione di questa risorsa nazionale per l’esplorazione di Marte».
Il rover NASA inizia la sua estensione di missione sul versante occidentale del cratere Endeavour – un bacino di circa 22 chilometri di diametro causato dall’impatto di un meteorite miliardi di anni fa – in una zona nota come Bitterroot Valley. Opportunity ha raggiunto il bordo di questo cratere nel 2011, dopo oltre sette anni trascorsi a esplorare una serie di crateri più piccoli nei quali il rover ha evidenziato la presenza di tracce di acqua acida e salmastra negli strati sotterranei e a volte anche in superficie.
Il canalone scelto come prossimo obiettivo si trova a meno di un chilometro a sud della posizione attuale del rover. Il team vuole guidare Opportunity lungo tutta l’estensione del canalone, fino al fondo del cratere. Secondo obiettivo della missione estesa sarà il confronto tra i campioni di rocce che Opportunity troverà all’interno del cratere con quelle esaminate nelle pianure che ha esplorato prima di raggiungere Endeavour.
«Potremmo scoprire che le rocce ricche di solfato trovate al di fuori del cratere sono differenti da quelle presenti al suo interno», osserva Steve Squyres della Cornell University, principal investigator di Opportunity. «Crediamo che queste rocce ricche di solfato siano state formate da un processo legato alla presenza di acqua, e l’acqua scorre in discesa. L’ambiente acquoso presente nel fondo del cratere potrebbe essere stato diverso da quello esterno, sulla pianura: diverso per la cronologia, o diverso per la chimica».
Una grande sfida e, al contempo, una grande opportunità per il team del rover. La maggior parte dei meccanismi di bordo sono ancora funzionanti e in buone condizioni, ma i motori e altri componenti hanno superato di gran lunga la loro aspettativa di vita. Il gemello di Opportunity, Spirit, perse l’uso di due delle sue sei ruote, prima di soccombere al freddo del suo quarto inverno marziano, nel 2010. Opportunity è in procinto di affrontare il suo ottavo inverno su Marte.
Terzo obiettivo scientifico della nuova missione estesa è quella di trovare ed esaminare rocce provenienti da uno strato geologico precedente all’impatto che ha scavato il cratere Endeavour.
Insomma, Opportunity sembra intenzionato a sfruttare al massimo l’opportunità che gli viene data da questa ulteriore estensione di missione, prima che a ‘immettersi’ nel trafficato suolo di Marte arrivi anche il rover europeo a bordo della seconda parte della missione ExoMars, prevista per il 2020.
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Si tratta di un’ottima occasione per osservare e fotografare insieme, la sera del 18 ottobre alle 21.30, Luna e l’ammasso aperto delle Pleiadi (M45), nella cornice del paesaggio sull’orizzonte est.
A completare il quadro, poco più in basso, sorgerà Aldebaran (+0,9) la stella alfa del Toro.
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Due spirali che si stagliano armoniose sullo sfondo scuro del cielo e che racchiudono una coppia di gemme splendenti. Hubble, sempre in pieno fervore “creativo” dopo oltre 26 anni di attività, ha realizzato un altro ‘ritratto d’autore’.
Il soggetto che ha posato per la Wide Field and Planetary Camera 2 dello storico telescopio NASA-ESA è PK 329-02.2, una nebulosa planetaria che si trova nel Regolo, costellazione visibile nell’emisfero celeste meridionale. Nota anche come Menzel 2, dal nome dall’astronomo statunitense Donald Menzel che la scopri nel 1922, PK 329-02.2 circonda due stelle che costituiscono un sistema binario.
Nebulosa planetaria è una denominazione che ora è considerata impropria e che è stata coniata dagli astronomi del XVIII e del XIX secolo. Con la strumentazione dell’epoca, infatti, queste strutture somigliavano ai dischi di pianeti distanti come Urano e Nettuno, ma, in realtà, non hanno nulla a che fare con i pianeti.
Tornando alla creazione “artistica” di Hubble, la venustas che permea di serenità l’immagine non deve trarre in inganno, perché, in effetti, il telescopio ha inquadrato un astro su cui sta per scendere il sipario.
Quando stelle come il Sole si avvicinano al loro ultimo atto, lasciano andare i loro strati gassosi più esterni che, allontanandosi, creano strutture dall’aspetto complesso, ma spesso caratterizzate da simmetrie aggraziate. Ed è proprio quello che, secondo gli astronomi, sta accadendo a PK 329-02.2, il cui materiale deriva dall’astro che nel ‘cuore’ della nebulosa si trova in alto a destra; nel 1999, infatti, gli studiosi hanno appurato che proprio questo oggetto è la stella centrale della struttura.
I due astri nel nucleo di PK 329-02.2 continueranno a costituire il loro sistema binario ancora per milioni di anni, mentre lanebulosa, con i suoi bracci a spirale, si allontanerà dalle due stelle e alla fine, in un processo che comunque durerà migliaia di anni, svanirà gradualmente nelle profondità dell’Universo.
Il ritratto definitivo di PK 329-02.2 è stato realizzato utilizzando vari filtri, tra cui quello infrarosso.
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Uno studio recente, guidato da un gruppo di ricercatori del Centre National de la Recherche Scientifique (CNRS) francese e della Cornell University, tenta di ricostruire la struttura interna di Proxima Centauri b (Proxima b in breve) assumendo che il pianeta appartenga alla classe dei corpi celesti densi e solidi, cioè oggetti rocciosi con possibile presenza di acqua, in modo da derivare il corrispondente raggio. Per far questo, i ricercatori hanno utilizzato un modello della struttura interna che permette di calcolare il raggio del pianeta, assieme alla posizione dei differenti strati di materia, nell’ipotesi in cui la sua massa e composizione fisica globale siano noti. In assenza di informazioni dettagliate che riguardano la stella ospite, per vincolare la composizione fisica di Proxima b, gli scienziati hanno basato il loro modello sui parametri relativi al Sistema solare. Le simulazioni, che si limitano al caso di pianeti solidi senza atmosfere massive, suggeriscono che il raggio di Proxima b ha valori compresi tra 0,94-1,40 raggi terrestri. Il valore minimo è stato ottenuto considerando un oggetto con massa pari a 1,10 volte quella della Terra e con il 65 percento della frazione della massa concentrata nel nucleo, dunque simile a Mercurio, mentre il valore più alto è stato derivato considerando il caso di un oggetto di 1,46 masse terrestri con il 50 percento della massa presente sotto forma d’acqua, che ne farebbe così un pianeta dotato di un singolo grande oceano. Lo studio sarà pubblicato su The Astrophysical Journal Letters.
Nella corsa alla scoperta di nuovi e strani mondi, è forte il bisogno di trovare pianeti extrasolari che abbiano delle similitudini con la Terra. Oggi, avendo trovato il corpo celeste di tipo terrestre più vicino possibile – in orbita attorno alla nana rossa Proxima Centauri, ad appena 4,2 anni luce, e alla giusta distanza per permettere l’eventuale presenza di acqua allo stato liquido sulla sua superficie – le speranze sono così grandi che è inevitabile sentir parlare di una “seconda terra” proprio nel nostro vicinato galattico. Tuttavia, spesso dimentichiamo che, sebbene l’oggetto si trovi nel posto giusto – la cosiddetta “zona abitabile” – e abbia la giusta massa, è anche vero che molto probabilmente non è così simile al nostro pianeta. E anche se dovesse possedere davvero un enorme oceano d’acqua, Proxima b risulterebbe comunque un mondo alieno molto strano.
La realtà è che, al momento, non abbiamo informazioni sufficienti su Proxima b. Sappiamo che un anno terrestre equivale sul pianeta a poco più di 11 giorni, che la sua orbita si trova nella zona abitabile e conosciamo approssimativamente la sua massa (1,3 masse terrestri). Non sappiamo se il pianeta possieda, o meno, un’atmosfera e non è nota la sua dimensione fisica. La mancanza di quest’ultimo parametro non permette di calcolare la densità media, perciò esiste una notevole ambiguità circa la sua composizione fisica. In generale, è possibile stimare la dimensione degli esopianeti misurando la quantità di luce che essi bloccano quando passano davanti alla propria stella. Nel caso di Proxima b non è però stato osservato alcun transito. Gli autori dello studio del CNRS e della Cornell, guidato da Bastien Brugger, hanno dunque provato a eseguire una serie di simulazioni ipotizzando, per l’appunto, un oggetto di 1,3 masse terrestri, per vedere quale forma può assumere il pianeta. I risultati hanno fornito valori compresi tra 0,94 e 1,40 volte il raggio terrestre (che ha un valore medio di 6.371 Km).
Assumendo che il corpo celeste abbia la dimensione fisica più piccola ammessa per la sua massa, cioè un raggio di 5.990 km, i modelli di formazione planetaria predicono un nucleo metallico che contribuisce al 65 percento della massa del pianeta. Gli strati più esterni sarebbero formati da un mantello roccioso, senza comunque escludere del tutto la presenza di acqua, seppure in percentuale irrisoria rispetto alla massa totale del pianeta (come sulla Terra, del resto, dove non supera lo 0,05 percento). In questo scenario, Proxima b sarebbe un mondo roccioso, sterile e secco che ricorda una sorta di Mercurio più massiccio. Ma si tratta di una possibilità. I ricercatori hanno poi considerato l’altro caso estremo. Che succede se la dimensione fisica del pianeta è quella massima, cioè con un raggio pari a 8.920 Km? In questo caso, Proxima b diventerebbe un corpo celeste grande il 40 percento più della Terra. In questo interessante scenario, il pianeta potrebbe essere molto meno denso, dunque meno roccioso e metallico rispetto all’altro caso estremo. In altre parole, la massa del pianeta si suddividerebbe a metà tra materiale roccioso, distribuito verso il centro, e acqua: Proxima b potrebbe risultare, quindi, una sorta di “mondo d’acqua”, nel senso più stretto del termine: caratterizzato cioè da un singolo oceano di acqua liquida che avvolge l’intero pianeta e profondo, secondo gli autori, circa 200 Km.
Tra questi due scenari, da un lato un mondo denso, arido e roccioso e dall’altro un mondo d’acqua, c’è la tanto attesa “seconda terra”: un pianeta con un piccolo nucleo metallico, un mantello roccioso e un abbondante acqua sotto forma di un grande oceano sulla sua superficie. È il mondo alieno che vediamo rappresentato nelle versioni artistiche di Proxima b, ma dobbiamo ricordare che si tratta – appunto – di versioni artistiche, relative per di più a uno soltanto di un elevato numero di scenari possibili.
Le conclusioni che emergono da questo studio indicano, piuttosto, che molto probabilmente Proxima b non è un pianeta simile alla Terra. A ogni modo, anche se questo intervallo di raggi permette ancora altre diverse composizioni fisiche della struttura interna del pianeta, esso fornisce preziosi indizi poiché permette di caratterizzare molti aspetti di Proxima b, come le condizioni iniziali della formazione del sistema o l’eventuale quantità di acqua attualmente presente sul pianeta. Inoltre, i risultati del presente studio potranno aiutare gli astronomi a scartare ulteriori misure del raggio del pianeta che possono risultare incompatibili per un corpo celeste di natura solida.
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SPECIALE Proximab, il pianeta extrasolare più vicino alla Terra: cosa ne pensano gli esperti?
Con i contributi di Marco Malaspina, Isabella Pagano, Giusi Micela, Mario Damasso, Raffaele Gratton, Sabrina Masiero, John Robert Brucato, Amedeo Balbi, Claudio Elidoro. Gianpietro Marchiori e Massimiliano Tordi. Intervista esclusiva con Giovanni Bignami.
Mercoledì 19 ottobre non prendete impegni. L’Italia va su Marte. Dopo un viaggio durato sette mesi per la missione europea e russa ExoMars 2016 si avvicina l’ora x, quella in cui sarà chiamata a ‘prendere’ il pianeta rosso. Sarà un’offensiva su due fronti: quasi in contemporanea ExoMars dovrà conquistare cieli e terra marziani.
Le operazioni inizieranno il 16 ottobre, quando il modulo di discesa Schiaparelli si sgancerà dalla sonda madre. Dopo la separazione il lander realizzato a guida italiana punterà verso la superficie di Marte e il Trace Gas Orbiter continuerà l’avvicinamento al pianeta.
Il giorno più lungosarà mercoledì 19. TGO dovrà infilare l’orbita del mondo rosso mentre Schiaparelli si tufferà nell’atmosfera marziana sfrecciando a circa 21.000 km all’ora. Grazie a un sofisticato sistema di paracadute e motori frenanti, il lander rallenterà la sua corsa per posarsi vicino all’equatore marziano, sulla Meridiani Planum. Sarà la fase più critica della missione e si consumerà in una manciata di minuti (poco meno di sei). 360 secondi di terrore che riportano alla mente la discesa su Marte del “collega” americano Curiosity.
La conferma del touchdown di Schiaparelli è attesa sulla Terra dopo le 18.33. Mentre il TGO dovrebbe comunicare il corretto inserimento in orbita a partire dalle 20:25.
Come seguire le operazioni
L’Europa attenderà l’arrivo dei due segnali dal Palazzo delle Esposizioni di Roma dove si svolgerà l’evento ufficiale internazionale Italy goes to Mars organizzato dall’Agenzia Spaziale Italiana in collaborazione con ESA, INAF, Leonardo-Finmeccanica, Thales Alenia Space Italia e National Geographic Channel. Nel corso dell’evento sarà infatti proiettata in anteprima la prima puntata della serie realizzata da Ron Howard e prodotta dal canale edito dalla FOX.
Previsto un evento parallelo anche presso la sede ASI di Tor Vergata. La lunga maratona di ExoMars potrà essere seguita in live streaming su ASITV, in diretta video sulla pagina Facebook dell’Agenzia Spaziale Italiana e su Twitter con l’hashtag #italiavasumarte.
Potrai seguire l’evento, come di consueto, anche sui canali social e sul sito di Coelum Astronomia! E non perdere lo speciale Exomars del prossimo numero!
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Se la vostra postazione osservativa ha l’orizzonte est sgombro da ostacoli, non lasciatevi sfuggire la congiunzione stretta tra Mercurio (mag, –1,1) e Giove (mag –1,7): la distanza tra di essi sarà minore di 1°.
Si tratta però di una sfida osservativa, perché i due pianeti saranno davvero molto bassi sull’orizzonte, ad appena 2° di altezza e per di più si troveranno già immersi nelle prime luci dell’alba: per questo motivo occorrerà utilizzare un binocolo per riuscire a scorgere i duepianeti. I due astri saranno via via più alti sull’orizzonte, con il passare dei minuti, ma scompariranno immersi nel chiarore del mattino.
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Una previsione vera. Di quelle che vengono annunciate molto tempo in anticipo sull’evento. E con una data precisa: 29 ottobre 2016. No, non occorre che la cerchiate sul calendario, a meno che non abbiate in programma di trascorre l’ultimo week-end del mese in lidi davvero remoti: su Marte. Già, perché l’allerta meteo “diramata” quasi un anno e mezzo fa, il primo maggio 2015, dal planetarista della NASA James Shirleyattraverso la rivista Icarus riguarda proprio il Pianeta rosso.
«Marte raggiungerà il punto centrale dell’attuale stagione delle tempeste di polvere il 29 ottobre di quest’anno. Sulla base del modello storico che abbiamo trovato», spiegava ieri Shirley in un comunicato del Jet Propulsion Laboratory della NASA, «riteniamo molto probabile che una tempesta di sabbia globale avrà inizio nell’arco di poche settimane, o mesi, a partire da questa data».
La parola chiave, in questa previsione, è globale. Di tempeste di polvere locali, infatti, su Marte ce ne sono di frequente. Localizzate in aree delimitate, a volte si estendono o si uniscono a formare sistemiregionali, in particolare durante la primavera e l’estate australi, quando Marte è più vicino al Sole. In rare occasioni, le tempeste regionali sollevano una coltre di polvere che avvolge l’intero pianeta, rendendo indistinguibili i dettagli del suolo (vedi riquadro a destra nell’immagine di apertura). Alcuni di questi eventi possono ingigantirsi fino a diventare vere e proprie tempeste planetarie, come quella che, nel 1971, accolse il primo veicolo spaziale in orbita attorno a Marte, il Mariner 9 della NASA.
Ma c’è uno schema prevedibile, dietro a questi eventi maggiori, e più rari, che coinvolgono l’intero pianeta? Per rispondere, Shirley ha anzitutto ricostruito la serie storica degli eventi globali più recenti: dal 1924 ne sono stati osservati nove, gli ultimi nel 1977, 1982, 1994, 2001 e 2007. Il numero effettivo è però senza dubbio più alto: negli anni in cui non c’erano satelliti in orbita a tenerlo sott’occhio da vicino, Marte era a volte mal posizionato per poter cogliere tempeste di polvere globali con i soli telescopi terrestri.
Ciò che Shirley notò, nel suo lavoro del 2015, fu che, considerando anche gli altri pianeti, emergeva una correlazione fra il verificarsi di tempeste di polvere globali e il moto orbitale di Marte. Altri pianeti hanno infatti un effetto sul momento angolare di Marte nella sua rivoluzione attorno al Sole. Un effetto modulato secondo un ciclo di circa 2.2 anni, dunque superiore al periodo orbitale del pianeta, lungo circa 1.9 anni. La relazione tra questi due cicli varia continuamente. Ebbene, Shirley ha scoperto che le tempeste di polvere globali tendono a verificarsi quando il momento angolare è in aumento durante la prima parte della stagione delle tempeste di polvere. Viceversa, almeno fra quelle conosciute, nessuna delle tempeste di polvere globali si è verificata negli anni in cui, durante la prima parte della stagione delle tempeste di polvere, il momento angolare era in calo.
Ed è grazie a questo modello che Shirley è arrivato a formulare la sua previsione. Per sapere se è corretta, non ci resta che attendere qualche settimana con gli occhi puntati su Marte. Ma a chi potrebbe interessare, se venisse confermata la previsione, sapere in anticipo come sarà il tempo sul Pianeta rosso? Be’, anzitutto a lander e rover, soprattutto se si affidano solo ai pannelli solari, che potrebbero trovarsi a dover prendere contromisure per affrontare un lungo periodo di luce ridotta o di comunicazioni interrotte. E guardando appena un poco più in là, sarà cruciale per programmare i periodi di permanenza dei futuri astronauti.
È uno dei satelliti naturali della grande famiglia del gigante ad anelli, il quarto per dimensioni, ed è salito agli onori della cronaca per un nuovo studio condotto da un team di ricercatori dell’Osservatorio Reale del Belgio. Si tratta di Dione, luna che, battezzata con il nome di una ninfa secondo la mitologia greca, nasconderebbe un oceano sotto il suo volto ghiacciato.
La ricerca, basata sui dati raccolti dalla sonda NASA–ESA-ASI Cassinidurante recenti fly-by, è illustrata nell’articolo“Enceladus’ and Dione’s floating ice shells supported by minimum stress isostasy”, pubblicato una settimana fa sulla rivista “Geophysical Research Letters”.
Gli autori dello studio hanno analizzato le informazioni trasmesse dalla sonda, con particolare riferimento alla gravità di Dione, e ritengono che la situazione prospettata da questi dati potrebbe essere spiegata ipotizzando una fluttuazione della crosta del corpo celeste su un oceano. Questo “mare cosmico”, profondo decine di chilometri, dovrebbe trovarsi a una distanza di 100 chilometri dalla superficie di Dione ed estendersi intorno al suo nucleo roccioso.
La struttura di questa luna, quindi, ricorderebbe quella di un’altra “collega” del vasto entourage di Saturno, Encelado. Questo satellite naturale, di minori dimensioni rispetto a Dione, è stato spesso al centro dell’attenzione per igetti di vapore acqueo che caratterizzano la sua regione polare meridionale. Dione, nonostante la superficie accidentata, appare al momento in una condizione di quiete.
L’attività di ricerca è stata condotta tramite modelli delle superfici ghiacciate di Dione ed Encelado, considerate come una sorta di iceberg immersi nell’acqua e sottoposte a condizioni di tensione. Dalle simulazioni, coerentemente con studi precedenti, è emerso che l’oceano di Encelado sarebbe più vicino alla superficie, soprattutto nell’area in cui si verifica il fenomeno dei ‘pennacchi’.
L’oceano di Dione, invece, si troverebbe a una maggiore profondità e, secondo gli esperti, è sopravvissuto in questa condizione remota per l’intera durata della storia del satellite.
Quindi, questa realtà avrebbe potuto creare condizioni favorevoli per lo sviluppo della vita microbica soprattutto per le interazioni tra l’acqua e la roccia: da questi scambi, infatti, sarebbero potuti derivare elementi fondamentali per la vita, quali sostanze nutrienti e fonti di energia. Le simulazioni e la modellistica utilizzate per questo studio, secondo il team di ricerca, potrebbero essere applicate proficuamente in altre indagini simili.
Dione, luna scoperta dall’astronomo italiano Giovanni Domenico Cassini nel 1684, farebbe quindi salire a quota tre il numero di “mondi oceanici” nel sistema di Saturno; i suoi colleghi ‘acquatici’ sono il già citato Encelado e Titano.
Cassini, missione nata dalla collaborazione tra NASA, ESA ed ASI, ha come obiettivo lo studio di Saturno e del suo sistema di anelli e lune, con particolare attenzione a Titano. Partita nell’ottobre 1997, la sonda ha superato egregiamente la ‘maggiore età’ e sarà operativa sino al ‘Gran Finale’ del 15 settembre 2017.
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Per sapere tutto sulla missione Cassini, leggi il report di Pietro Capuozzo su Coelum 201
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Osservatorio Astronomico di Agerola Salvatore Di Giacomo via Salvatore Di Giacomo 7/B, Agerola (NA).
Organizzato dall’Istituto Spezzino Ricerche Astronomiche (IRAS – La Spezia), Astrocampania (Napoli) e Unione Astrofili Italiani (U.A.I.) con il patrocinio della Società Astronomica Italiana (S.A.I.t.), le relazioni vedranno il contributo oltre che dei componenti delle Sezioni di Ricerca UAI Pianeti e Stelle Variabili UAI, anche di astronomi professionisti come Stelio Montebugnoli (Inaf – Radiotelescopio di Medicina), Elvira Covino e Juan Manuel Alcalà (INAF – Osservatorio Astronomico di Capodimonte), Valerio Bozza (Dipartimento di Fisica dell’Università di Salerno, Luigi Mancini (Max Planck Institute for Astronomy, Heidelberg), Luca Izzo (IAACISC – Istituto de Astrofisica de Andalucia).
Programma generale Relazioni e lavori del Convegno Logistica (Come arrivare / Alberghi) www.astronomiadigitale.com
Un evento mondiale ideato dalla NASA di osservazione della Luna. Una serata in cui tutto il mondo osserverà il nostro satellite naturale…
Da Palidoro sarà possibile osservare la Luna con 4 telescopi.
La serata avrà inizio alle 20.30 con una breve conferenza riguardo il nostro satellite naturale e a seguire ci saranno le osservazioni ai telescopi con spiegazioni delle costellazioni sulle nostre teste.
INGRESSO LIBERO
Piazza Santissimi Filippo e Giacomo – Palidoro (RM)
Campo sul retro della Chiesa nel borgo.
Coordinate navigatore: 41.929755, 12.178945
La storia climatica di Marte si rivela sempre più complessa ed interessante. Le analisi condotte da Curiosity con il Sample Analysis at Mars (SAM) su xeno e kripton hanno mostrato che il materiale della crosta del pianeta deve aver contribuito in modo dinamico alla composizione atmosferica nel corso del tempo. Questi due gas sono utilizzati dagli scienziati per studiare l’evoluzione e la perdita dell’atmosfera sul Pianeta Rosso.
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Molti dei dati sono provengono dallo studio dei meteoriti marziani e dalle missioni Viking ma «i precedenti studi su xeno e cripto hanno raccontato solo una parte della storia», ha dichiarato nel report Pamela Conrad, ricercatrice principale dello strumento presso il Goddard Space Flight Center della NASA.
«Il SAM ora ci sta dando il primo punto di riferimento completo in situ con cui confrontare le misurazioni sui meteoriti».
Il team ha utilizzato la spettrometria di massa statica per rilevare anche piccole quantità di elementi grazie ai laboratori interni di Curiosity, un metodo applicato per la prima volta sulla superficie di un altro pianeta.
Nel complesso i risultati ottenuti sono in accordo con gli studi precedenti ma alcuni rapporti isotopici risultano un po’ più alti del previsto. La causa di queste differenze potrebbe dipendere da un processo chiamato “cattura neutronica”, in base al quale i neutroni potrebbero essere stati trasferiti da un elemento chimico a un altro all’interno del materiale della superficie del pianeta. In particolare, sembra che alcuni isotopi del bario abbiano perso neutroni a vantaggio dello xeno per formare livelli più elevati degli isotopi xeno-124 e 126. Allo stesso modo, il bromo avrebbe ceduto neutroni per produrre livelli insoliti di kripton-80 e kripton-82.
Questi isotopi sarebbero quindi stati rilasciati nell’atmosfera a causa di impatti sulla superficie o per via di rilascio naturale dei gas dalla regolite marziana.
«Le misure del SAM forniscono la prova di un processo molto interessante, in base al quale la roccia e il materiale non consolidato in superficie hanno contribuito alla composizione isotopica dello xeno e del kripton in atmosfera in modo molto dinamico», ha affermato Conrad.
Di interesse per gli scienziati sono alcuni isotopi dei due gas xeno e kripton. «La scoperta di queste interazioni nel tempo ci consente di ottenere una maggiore comprensione dell’evoluzione planetaria», ha commentato Michael Meyer, scienziato del Mars Exploration Program della NASA a Washington.
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Non fatevi ingannare dal vostro colpo d’occhio. Quella che vedete immortalata nell’immagine qui sopra non è una galassia a spirale – come in effetti potrebbe sembrare di primo acchito – ma una giovanissima stella avvolta da un disco turbinante di gas e polvere, denominata Elias 2-27. È la prima osservazione di questo tipo di struttura attorno a una stella di recente formazione prodotta dalle onde di densità, ovvero perturbazioni gravitazionali che danno vita a bracci simili, appunto, a quelli di una galassia. Un altro record che va ad aggiungersi al palmares del telescopio ALMA (Atacama Large Millimeter-submillimeter Array) dell’ESO.
«Queste osservazioni sono la prima prova diretta delle onde di densità in un disco protoplanetario», dice Laura Perez, astronoma dell’Istituto Max Planck per la radioastronomia a Bonn, in Germania, e prima autrice di un articolo pubblicato sulla rivista Science, a cui ha partecipato anche Leonardo Testi, astronomo dell’ESO e associato INAF.
Elias 2-27, la cui età è stimata attorno al milione di anni, si trova a circa 450 anni luce dalla Terra nel complesso di formazione stellare di Ofiuco. Anche se possiede appena la metà circa della massa del nostro Sole, questa stella possiede un disco protoplanetario insolitamente massiccio. Nella regione più prossima alla stella, ALMA ha individuato un disco appiattito di polvere, tipica caratteristica delle giovani stelle, che si estende a una distanza superiore a quella che compete all’orbita di Nettuno nel nostro Sistema solare. Al di là di questo disco, il telescopio europeo che si trova sull’altopiano di Atacama, sulle Ande cilene, ha osservato una banda scura, indice in quella zona di una bassa presenza di polvere, dove però potrebbe esserci un pianeta in formazione. Da questa zona poi partono due estesi bracci di spirale che si estendono per oltre 10 miliardi di chilometri dalla stella.
«Grazie ad ALMA stiamo compiendo dei passi da gigante per comprendere la formazione dei pianeti in altri sistemi stellari» commenta Testi. «Ora possiamo farlo osservando direttamente e con un livello di dettaglio mai raggiunto prima cosa sta succedendo all’interno dei dischi protoplanetari. Dopo le prime immagini che mostrano i ”buchi” creati dai nuovi pianeti nei dischi, adesso vediamo attorno a Elias 2-27 i possibili effetti delle instabilità gravitazionali che possono innescare la formazione dei pianeti».
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La sera del 6 ottobre, alle 19:30 circa, si verificherà una spettacolare congiunzione tra Saturno (mag. +0,5), la Luna e Antares (mag. +1,1). I tre astri si troveranno in una fascia di cielo compresa tra 10° e 20° di altezza sull’orizzonte per cui sarà possibile tentare riprese a grande campo inquadrando anche il paesaggio.
I giorni successivi al 6 ottobre Saturno e Antares saranno ancora in congiunzione, posti a una distanza di circa 6° e mezzo tra loro, ma la Luna avrà già abbandonato lo Scorpione rendendo la ripresa del paesaggio meno suggestiva.
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