La sonda europea LISA Pathfinder ha raggiunto e superato gli obiettivi della sua missione, secondo quanto riferito il 7 giugno dall’Agenzia Spaziale Europea. La sonda era stata inviata nel punto lagrangiano L1 per verificare il funzionamento di una serie di tecnologie indispensabili per la rilevazione nello spazio profondo di onde gravitazionali – le increspature nello spaziotempo, il tessuto dell’Universo, identificate per la prima volta alla fine dell’anno scorso dall’esperimento LIGO.
Le numerose fonti di disturbo di cui è vittima LIGO – principalmente di natura sismica e termica – impediscono al rilevatore di osservare le onde gravitazionali a frequenze al di sotto dei 100 hertz. Raccogliere le delicate onde gravitazionali provenienti da alcune delle più violente e drammatiche interazioni nel cosmo, come la collisione di buchi neri supermassicci al centro di galassie in fase di fusione, richiede il raggiungimento di una sensibilità strumentale disponibile solamente nello spazio.
L’obiettivo della missione LISA, di cui LISA Pathfinder costituisce le fondamenta, è osservare minuscole variazioni nelle posizioni di una serie di masse poste in punti diversi del Sistema Solare – variazioni causate dal passaggio di una o più onde gravitazionali. Per verificare la fattibilità di questo progetto, LISA Pathfinder è decollata con due cubi di una lega di oro e platino, ognuno largo, alto e profondo circa 46 millimetri. L’obiettivo è quello di utilizzare un interferometro laser per determinare la posizione delle due masse e osservare eventuali variazioni. Per farlo, però, un futuro Osservatorio Spaziale di onde gravitazionali dovrà innanzitutto isolare ed eliminare qualunque possibile fonte di interferenza, per assicurarsi che i blocchi siano soggetti esclusivamente alla forza di gravità.
I risultati, a detta degli stessi scienziati, hanno di gran lunga superato le aspettative. Le forze non-gravitazionali – ovvero tutte le sorgenti di disturbo e interferenza – sono state ridotte a livelli addirittura inferiori rispetto a quelli desiderati.
«Le misurazioni hanno superato tutte le nostre più ottimistiche aspettative», spiega Paul McNamara dell’ESA. «Abbiamo raggiunto il livello di precisione richiesto dopo un solo giorno, e abbiamo trascorso le settimane seguenti a migliorarlo fino a cinque volte tanto.»
«LISA Pathfinder è sempre stata vista come una pietra di passaggio per raggiungere il livello di performance necessario in un vero osservatorio di onde gravitazionali, ma questi risultati ci dicono che abbiamo già eseguito l’intero salto», spiega Ira Thorpe della NASA. «Un Osservatorio identico a LISA Pathfinder sarebbe in grado di raggiungere gli obiettivi scientifici preposti.»
I risultati indicano che LISA Pathfinder ha ridotto i livelli di interferenza non-gravitazionale fino a 10 mila volte in meno rispetto alle missioni precedenti. In particolare, la sensibilità a frequenze tra 1 e 60 millihertz è migliorata in seguito alla progressiva fuga verso lo spazio esterno delle poche molecole di gas rimaste intrappolate nel sensore. Al di sotto di un millihertz, gli astronomi hanno osservato una debole forza centrifuga agire sulle due masse. Gli ingegneri sospettano che la presenza di questa forza sia dovuta a una combinazione tra la forma della sonda e il rumore indotto dai tracciatori di stelle, i dispositivi utilizzati per il controllo dell’assetto della sonda. Secondo gli esperti, questa interferenza sarebbe molto meno importante in un osservatorio costituito da più sonde distanti milioni di chilometri l’una dall’altra e collegate tra di loro tramite laser.
Un’altra possibile fonte di interferenza è la carica elettrica trasferita durante il passaggio di un raggio cosmico, minimizzata proiettando radiazioni ultraviolette sui cubi, in modo da rimuovere la carica senza contatto.
Infine, un’altra sorgente di disturbo è la progressiva perdita di massa della sonda causata dal consumo del carburante dal sistema di controllo dell’assetto. Per fortuna, questa variazione può essere facilmente misurata ed eliminata dai dati.
«Questi impressionanti risultati indicano che LISA Pathfinder ha dimostrato con successo alcune delle avanzate tecnologie necessarie per un futuro osservatorio spaziale di onde gravitazionali,» spiega Paul Hertz della NASA. «L’ESA sta attualmente pensando di lanciare una simile missione negli anni ’30, e la NASA sta collaborando nell’esplorazione di una possibile partnership come è accaduto per LISA Pathfinder.»
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Utilizzando la schiera di parabole che compone il Very Large Array in Nuovo Messico, un gruppo di astronomi ha prodotto la più dettagliata mappa radio dell’atmosfera di Giove, rivelando l’imponente flusso di gas di ammoniaca che scorre al di sotto dello spesso strato di colorate e vorticose nubi superficiali.
Nella loro ricerca, pubblicata sull’ultimo numero di Science, i ricercatori hanno misurato le emissioni radio dell’atmosfera di Giove a specifiche lunghezze d’onda, alle quali le nuvole risultano trasparenti, riuscendo a determinare la quantità di ammoniaca presente fino a una profondità di circa 100 chilometri al di sotto dello strato superiore. Si tratta di una fascia in gran parte inesplorata, ma particolarmente interessante perché è quella in cui le nuvole si formano.
Studiando queste regioni dell’atmosfera del pianeta, gli astronomi contano infatti di riuscire a descrivere come la circolazione globale e la formazione delle nubi siano guidate dalla potente fonte di calore interno di Giove. Un modello da applicare in maniera simile anche agli altri pianeti giganti nel nostro Sistema solare, ma anche ai pianeti extrasolari giganti recentemente scoperti intorno a stelle lontane.
«Abbiamo in sostanza creato un’immagine tridimensionale del gas di ammoniaca presente nell’atmosfera di Giove», spiegaImke de Pater, professoressa di astronomia alla Università della California a Berkeley e prima autrice dello studio. «Un’immagine da cui si possono ricostruire i movimenti verso l’alto e verso il basso all’interno della turbolenta atmosfera». Secondo la ricercatrice, questa nuova mappa reca una sorprendente somiglianza con le immagini in luce visibile.
La nuova mappa radio evidenzia infatti le nubi superficiali, ricche in ammoniaca, che determinano l’aspetto del pianeta e sono il principale elemento visibile dall’esterno. Si tratta di uno strato di idrosolfuro di ammonio, a una temperatura attorno ai 200° Kelvin (-73° C), e di uno strato di ghiaccio di ammoniaca fluttuante nell’aria fredda a circa 160 Kelvin (-113° C).
Inoltre, la nuova analisi mostra come i cosiddetti hotspot – punti “caldi” dell’atmosfera che appaiono luminosi sia in radio che nelle termografie ad infrarossi – siano regioni povere in ammoniaca, che circondano il pianeta come una cintura appena a nord dell’equatore. Fra gli hotspot sono localizzate delle “risorgive” che trasportano ammoniaca in superficie dagli strati più profondi dell’atmosfera planetaria.
«Grazie alle osservazioni radio possiamo scrutare attraverso le nuvole e vedere che quei punti caldi sono intercalati da pennacchi di ammoniaca in risalita dalle profondità del pianeta, configurando le ondulazioni verticali di un sistema di onde equatoriali», dice l’astronomo della UC Berkeley Michael Wong.
Queste osservazioni vengono rese note quando manca ormai meno di un mese prima dell’arrivo a Giove della sonda Juno della NASA, previsto per il prossimo 4 luglio 2016. La missione prevede, tra l’altro, di misurare la quantità di acqua presente nelle parte più profonda dell’atmosfera, là dove il radiotelescopio Very Large Array ha misurato i valori per l’ammoniaca.
«Mappe come la nostra possono aiutare a inquadrare i dati ottenuti da Juno nel più ampio sistema dei movimenti atmosferici di Giove», commenta de Pater, notando in conclusione come il suo team di ricerca continuerà a osservare Giove in radio con il VLA in contemporanea alle osservazioni in microonde compiute da Juno alla ricerca dell’acqua.
Indice dei contenuti
Un video che mostra il passaggio dall’immagine radio a quella ottica visibile anche nella gif di apertura.
Per saperne di più:
Leggi su Science l’articolo “Peering through Jupiter’s clouds with radio spectral imaging” di Imke de Pater, R. J. Sault, Bryan Butler, David DeBoer, Michael H. Wong
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“Per aspera ad astra” ci dice Galileo Galilei, padre della fisica moderna e del metodo scientifico. E proprio Galileo, durante il convegno ” Spazio Italia” sarà insignito di numerose attenzioni e onori.
Con il patrocinio dell’Accademia delle Stelle, Unione Astrofili Italiani e Astronomitaly, il convegno “Spazio Italia” ci offrirà due ore e mezza di ricerca amatoriale e professionale, spiegate splendidamente da esperti del settore i quali Mario Di Sora, Presidente UAI, Paolo Colona astrofisico e Presidente “Accademia delle Stelle” e Claudia Antolini, Astrofisica. Ospite d’eccezione in videoconferenza l’astronauta Maurizio Cheli. I relatori assieme a Maurizio Cheli ci mostreranno come l’Italia ricopre la sua importante posizione sul panorama internazionale di ricerca e le missioni spaziali alle quali partecipa senza sosta!
Conducono l’evento gli organizzatori Cristian Sicorschi e Linda Raimondo, “due giovani adolescenti con un sogno da inseguire”.
Vi aspettiamo numerosissimi nell’Aula Magna dell’Istituto “Azzarita” alle 17:10 del 15 giugno!!
Prima del convegno, verrà attrezzata una postazione con telescopi per l’osservazione del Sole.
Ospiti:
Speciale videoconferenza con il Tenente Colonnello Maurizio Cheli – STS-75
Durante l’evento interverranno:
– Paolo Colona, astrofisico e aresidente ”Accademia delle Stelle”
Questa fantastica immagine di Plutone è stata ripresa dalla New Horizons solo pochi minuti dopo il massimo avvicinamento del 14 luglio 2015.
L’immagine mostra il pianeta nano in controluce, con la luce del Sole che illumina e filtra attraverso i complessi strati di foschia della sua atmosfera. Nella parte superiore dell’immagine risaltano anche le porzioni meridionali della pianura di ghiaccio di azoto nota informalmente come Sputnik Planum, e le Norgay Montes.
La ripresa di Plutone in controluce è stata programmata proprio per riuscire a vederne e studiarne l’atmosfera, ma non solo: immagini come questa riescono infatti a dare informazioni sulle nebbie di Plutone, ma anche su proprietà e caratteristiche della sua superficie, che non possono essere ottenute da altre immagini del Fly-by.
L’inserto in alto a destra mostra una parte di questo “crescente” di Plutone, in cui si nota un intrigante filamento luminoso (vicino al centro) lungo decine di chilometri, che potrebbe indicare la presenza di nubi a bassa quota nell’atmosfera di Plutone; al momento le uniche identificate tra le immagini della New Horizons. Queste nubi– se di nubi si tratta – sono così luminose e visibili per lo stesso motivo per cui lo sono gli strati di foschia: l’illuminazione radente dovuta alla luce del Sole. La scena in questo inserto è di 230 chilometri di larghezza.
È la prima volta che in un comunicato NASA si parla esplicitamente di nubi, ma l’ipotesi aleggia già da tempo.
Infatti, come dichiarato a inizio marzo in un articolo pubblicato su New Scientist, già il 13 settembre dello scorso anno, pochi giorni prima del rilascio pubblico delle prime immagini di questo contro luce, Grundy, del Lowell Observatory in Arizona, aveva inviato una e-mail a una lista di discussione sull’analisi dei dati di New Horizons che riguardano l’atmosfera di Plutone. Allegando l’immagine qui sotto scrisse: «Ci sono alcune formazioni a bassa quota abbastanza localizzate, appena sopra il lembo dove indicano le frecce, ma anche un paio di “cose” brillanti a forma di nube, che sembrano essere sospese e attraversano la topografia nella zona cerchiata».
Grundy aveva individuato delle caratteristiche peculiari sul bordo – o “lembo” – nella foschia di Plutone che sembravano spiccare tra i distinti strati dell’atmosfera. Ma più intrigante ancora era quella formazione luminosa che attraversa, e che secondo lui aleggia sopra, quella parte di paesaggio racchiusa nel cerchio. L’email ha dato il via a una accesa discussione, sulla possibilità che fossero davvero formazioni nuvolose e non parte del terreno (non potendone vedere l’ombra proiettata sulla superficie o immagini riprese da un angolo diverso) e per definire quella che doveva essere l’esatta distinzione tra “nube” e “foschia”. Secondo Alan Stern una nube era una parte discreta (distinguibile) rispetto alla nebulosità della foschia.
Non si è però mai parlato pubblicamente di nubi su Plutone (se non un accenno su uno studio pubblicato su Science intitolato “The Atmosphere of Pluto as Observed by New Horizons” in cui però si accennava a queste fomazioni come a un mistero ancora non svelato), facendo pensare che nessuno ne fosse davvero convinto dell’esistenza, fino a quando il primo marzo una email inviata da John Spencer del Southwest Research Institute di Boulder, Colorado, riportava proprio l’immagine che vediamo nel riquadro in esame, parlando esplicitamente di «una nube tenue ma discreta [n.d.r. ben distinta] sopra la Krun Macula (credo) sulla destra”.
Spencer non ha parlato di cosa possano essere fatte queste nubi, verosimilmente degli stessi elementi di cui è composta l’atmosfera, ma i modelli atmosferici suggeriscono che nubi di metano possano occasionalmente formarsi nell’atmosfera di Plutone, e queste potrebbero esserne l’evidenza. Sempre Spencer sostiene che con molta probabilità la conferma e ulteriori prove arriveranno dall’immensità di dati che ancora la New Horizons deve inviare a terra (ricordiamo che l’intero database non sarà disponibile prima della fine dell’anno), e che altre nubi verranno con molta probabilità inviduate nelle immagini che arriveranno.
Una curiosità: Plutone è stato notoriamente retrocesso dallo status di pianeta nel 2006, ed è ora ufficialmente un pianeta nano, ma proprio queste immagini di nuvole potrebbero far aumentare le possibilità della presentazione di una richiesta di reintegrazione. La complessità sempre più evidente dell’atmosfera di Plutone infatti gli consente di passare senza ombra di dubbio quello che Alan Stern (Principal Investigator della missione New Horizons e primo sostenitore convinto della necessità di rivedere i criteri di catalogazione) chiama il test di “Star Trek”: sai già che si tratta di un pianeta appena lo vedi fuori dalla finestra, non hai bisogno d’altro…
L’inserto in basso a destra mostra invece più in dettaglio il lato notturno di Plutone. Le formazioni del terreno possono essere viste perché illuminate da dietro dalla luce del Sole diffusa dalle nebbie che delineano il profilo del pianeta. La topografia qui appare abbastanza accidentata, sono evidenti ampie vallate e rilievi con cime appuntite per un totale di 5 chilometri. Questa immagine, realizzata da distanza ravvicinata, da molte più informazioni delle immagini di queste stesse zone, riprese però diversi giorni prima del massimo avvicinamento a più bassa risoluzione. un raro sguardo dettagliato della configurazione di queste zone di terreno purtroppo ancora misteriose, essendo state viste ad alta risoluzione solo nella penombra di queste immagini. La scena in questo inserto è di 750 chilometri di larghezza.
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Tutti i primi lunedì del mese: UNA COSTELLAZIONE SOPRA DI NOI
In diretta web con il Telescopio Remoto UAI Skylive dalle ore 21:30 alle 22:30, ovviamente tutto completamente gratuito.
Un viaggio deep-sky in diretta web con il Telescopio Remoto UAI – tele #2 ASTRA Telescopi Remoti. Osservazioni con approfondimenti dal vivo ogni mese su una costellazione del periodo. Basta un collegamento internet, anche lento. Con la voce del Vicepresidente UAI, Giorgio Bianciardi telescopioremoto.uai.it
La serata di sabato 11 giugno 2016 sarà un incontro tutto dedicato all’Astronomia, infatti presso la Parrocchia Santi Filippo e Giacomo nel borgo di Palidoro si potranno ammirare le meraviglie del cosmo. Con ben 4 telescopi si potranno osservare oggetti come la Luna, il pianeta Giove e il pianeta Saturno e le osservazioni saranno accompagnate dalle spiegazioni dell’astrofilo Giuseppe Conzo che condurrà i visitatori in un viaggio indimenticabile nell’Universo.
Il “party astronomico” sarà arricchito con cena a base di pizza e nell’occasione saranno presentati i corsi di Astronomia 2016/2017 che si svolgeranno nella Chiesa di Palidoro a partire da ottobre 2016.
Un’occasione di cultura, cibo e compagnia all’insegna della condivisione e dell’amicizia che assolutamente non si deve perdere.
Continua il Tour che nel 2015 ha fatto sognare migliaia di persone. Realizzato da Luigi Pizzimenti, in collaborazione con Paolo Attivissimo, anche quest’anno potrete conoscere la storia geologica di una roccia antichissima che rievoca la cataclismica formazione della Terra e della Luna, e potrete rivivere, con foto e riprese video rare e restaurate, l’avventura e il viaggio che l’hanno portata tra noi.
Il campione di Luna di quest’anno è un frammento raccolto nella regione lunare di Fra Mauro dagli astronauti di Apollo 14, Alan Shepard e Edgar Mitchell, ed è uno dei più grandi fra quelli offerti dalla NASA per esposizioni pubbliche. Quest’anno il tour italiano vedrà la partecipazione e collaborazione (in alcune località) di: Paolo Attivissimo, Paolo D’Angelo e Paolo Miniussi.
Il programma spaziale Apollo, che a cavallo tra gli anni ‘60 e ‘70 del secolo scorso ci ha permesso di conoscere più da vicino la Luna, ha anche portato a Terra un enorme quantitativo di campioni lunari. Dalle prime analisi risultava che queste rocce fossero completamente prive di acqua, mentre analisi più accurate hanno mostrato che, sebbene in piccole quantità, l’acqua è presente sul nostro satellite naturale. Secondo quanto afferma un nuovo studio pubblicato sulla rivista Nature Communications, la maggior parte dell’acqua presente all’interno della Luna è stata portata da asteroidi tra 4.5 e 4.3 miliardi di anni fa.
Nell’era del programma Apollo la Luna è stata spesso descritta come un corpo privo di acqua. Grazie al progressivo miglioramento delle tecniche di analisi, gli scienziati si sono resi conto che l’acqua è presente nel sottosuolo lunare, ma in quantità così piccole da non essere rilevabili all’epoca del rientro a Terra dei primi campioni.
La scoperta di acqua nella Luna apre un nuovo dibattito circa la sua provenienza. Nello studio gli scienziati hanno confrontato la composizione chimica e isotopica dei materiali volatili lunari con quella dei volatili trovati in comete e campioni meteorici di asteroidi. Il team ha poi calcolato la proporzione di acqua che potrebbe essere stata trasportata da queste due popolazioni di oggetti, e i risultati indicano la maggior parte (più dell’80 percento) dell’acqua lunare deriva da asteroidi simili alle meteoriti condritiche carbonacee. Lecondritisono meteoriti rocciose che non sono state modificate da processi di fusione o differenziazione, e sono quindi costituite da materiale primitivo del Sistema solare, che si è addensato da grani e polveri a formare asteroidi. Le condriti carbonacee sono caratterizzate dalla presenza di carbonio e suoi composti, tra cui amminoacidi.
L’acqua sembra dunque arrivata sulla Luna quando questa era ancora circondata da un oceano di magma, molto prima che si formasse la crosta che vediamo ora, e che impedisce agli oggetti che impattano sul nostro satellite di portare quantità significative di materiale negli strati più profondi. Per quanto riguarda l’arrivo dell’acqua sulla Terra, deve essere accaduto qualcosa di molto simile, all’incirca nello stesso intervallo di tempo.
Per saperne di più:
Leggi su Nature Communications l’articolo “An asteroidal origin for water in the Moon” di Jessica J. Barnes, David A. Kring, Romain Tartèse, Ian A. Franchi, Mahesh Anand e Sara S. Russell
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Il primo star-party tosco-romagnolo sarà un appuntamento dedicato agli astrofili ma sono previste attività per chi, incuriosito, vorrà godersi un fine settimana immerso nella natura. I principali punti dIi osservazione saranno il piazzale dei Fangacci, i Parati della Burraia e i prati di Campigna.
Escursioni serali a cura dell’associazione “Quota900” accompagneranno i partecipanti ai Prati della Burraia dove alcuni astrofili mostreranno e racconteranno il cielo della tarda primavera. Al parcheggio dei Fangacci gli astrofili osserveranno e riprenderanno il cielo la sera e il Sole nel pomeriggio di sabato con i propri telescopi. Sabato mattino il Planetario di Stia sarà aperto al pubblico con attività dedicate ai bambini. Dalle ore 15 sempre del Sabato, inoltre, sono previste conferenze e convegni per astrofili al centro visite del Parco (Campigna).
Lo star-party è organizzato dalle associazioni astrofile di Arezzo (NuovoGruppo Astrofili di Arezzo), Ravenna (A.R.A.R.), Firenze (S.A.F.), Savignano sul Rubicone (A.A.R.), Imola (A.A.I.), Società Astrofili Cesena, dall’Ente Parco Foreste Casentinesi con la collaborazione degli astrofili di Forlì, Sogliano al Rubicone, Faenza, dell’Unione Astrofili Italiani e del Planetario di Stia.
Per informazioni: Nuovo Gruppo Astrofili di Arezzo (presidente@arezzoastrofili.it) Associazione Ravennate Astrofili Rheyta (info@arar.it)
Al Planetario Osservatorio Astronomico di Basilicata inizia “Stelle in Famiglia”, tutte le domeniche e festivi, fino a fine giugno, nelle ore pomeridiane, una serie di Serate Astronomiche adatte ai grandi e ai piccini!
Si parlerà di stelle e costellazioni, un percorso adatto alle famiglie con bambini. Quale maniera migliore per avvicinare i bambini all’astronomia?
Possibilità di pernotto presso le strutture convenzionate.
Per info e prenotazioni: Tel. 097.11650633 – cell. 3202236876 –
planetarioanzi@gmail.com
http://planetarioosservatorioanzi.blogspot.it
Dopo un 2014 che ci aveva stupito con il record di ben quattro supernovae esplose nelle galassie Messier, il 2015, per contrapposizione, è stato avaro per quanto riguarda questo tipo di scoperte. Finalmente, dopo poco più di un anno e mezzo, il 2016 ci regala la sua prima supernova rilevata in una galassia Messier. Si tratta della SN2016cok esplosa nella bella galassia a spirale barrata M66 posta a circa 35 milioni di anni luce, nella costellazione del Leone.
La supernova è stata individuata la notte del 28 maggio dal programma professionale di ricerca denominato “All Sky Automated Survey for SuperNovae” (ASAS-SN) con il quadruplo telescopio da 14 cm “Brutus” posto sul monte Haleakala nelle isole Hawaii. Al momento della scoperta, la supernova mostrava una luminosità intorno alla mag. +16,5 ma in aumento. Dopo poche ore dalla scoperta, i primi a riprenderne lo spettro sono stati i cinesi del LiJiang Gaomeigu Station of Yunnan Astronomical Observatories con il telescopio da 2,4 metri. Lo spettro ha permesso di classificare la supernova di tipo IIP scoperta alcuni giorni prima del massimo, con i gas eiettati dall’esplosione che viaggiano a un velocità di circa 9000 km/s.
M66 aveva ospitato in passato altre quattro supernovae: la SN1973r di tipo II scoperta il 19 dicembre 1973 dal nostro Leonida Rosino; la SN1989b di tipo Ia scoperta il 30 gennaio 1989 dall’australiano Robert Evans e dal nostro Federico Manzini; la SN1997bs scoperta il 15 aprile 1997 dal programma professionale Lick Observatory Supernova Search (LOSS), che poi si rivelò essere un LBV Supernova Impostor; la SN2009hd di tipo IIP scoperta il 2 luglio 2009 dal sudafricano Berto Monard.
La galassia ospite M66 è una bellissima spirale, assieme alla vicina M65 e a NGC3628 formano il famoso Tripletto del Leone. Quella che si prospetta è un’ottima occasione per ottenere delle stupende immagini di queste tre galassie insieme alla supernova.
Vi proponiamo infine di controllare i vostri archivi perché, essendo M66 un soggetto fotogenico e molto bersagliato, qualcuno potrebbe averla ripresa nei giorni antecedenti la scoperta del 28 maggio ed aver perciò realizzato un’importante prediscovery.
Coelum n. 201 è online. Scopri tutti i contenuti multimediali, semplicemente… clicca e leggi!
Il circuito degli Star Party UAI 3-5 giugnoStar Party delle Foreste Casentinesi Lo Star Party (rinnovato) del centro-nord Italia, organizzato dalle
associazioni di astrofili della Romagna presso Campigna (AR) nel cuore del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi (vedi il box qui). http://www.arar.it
Pronto il Bando della VI edizione del Premio Internazionale Federico II e i Poeti tra le stelle, concorso aperto a studenti e autori di opere poetiche e narrative e artistiche, pitture, fotografie e, da questa edizione, anche disegni. Obiettivo del Premio, ideato nel 2008, è quello di dar voce alla “Poesia del Cosmo”. Il Premio è stato ideato dalla The Lunar Society Italia, associazione nata per la divulgazione
scientifica, ed è organizzato in collaborazione con Società Astronomica Pugliese, associazione per la divulgazione astronomica, Osservatorio Astronomico Comunale di Acquaviva delle Fonti (provincia di Bari), la più importante struttura astronomica esistente in Puglia (Apulia), Virtual Telescope Project, una delle piattaforme astronomiche robotiche più evolute ed attive al mondo nella ricerca e nella divulgazione in campo astrofisico e astronomico e la rivista italiana di divulgazione scientifica Coelum Astronomia.
Scadenza di presentazione delle opere10 GIUGNO 2016 Proroga al 31 LUGLIO 2016!
Le opere saranno pubblicate sul sito del premio www.poetitralestelle.com, ora riportante quelle della V edizione 2014.
L’ammissione delle opere sarà sottoposta alla preventiva valutazione da parte della Commissione organizzativa del Premio in merito alla coerenza di queste al tema e alle modalità di presentazione.
Componenti che riteniamo cruciali per l’origine della vita sulla Terra sono stati rilevati sulla cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko, oggetto di studio della sonda Rosetta dell’ESA da circa due anni. Tra gli ingredienti rilevati compaiono l’amminoacido chiamato glicina, che si trova comunemente nelle proteine, e il fosforo, uno degli elementi chiave del DNA e delle membrane cellulari.
La comunità scientifica ha dibattuto a lungo la possibilità che l’acqua e le molecole organiche siano state portate sulla Terra da asteroidi e comete, e che così facendo i piccoli corpi del Sistema solare ci abbiano fornito alcuni degli elementi costitutivi principali per la nascita della vita. Se è vero che alcune comete e asteroidi hanno mostrato di contenere acqua con una composizione simile a quella degli oceani terrestri, è anche vero che Rosetta ha trovato differenze significative nella composizione dell’acqua di 67P, alimentando il dibattito sulla genesi dell’acqua sulla Terra.
I nuovi risultati raccolti mostrano che le comete potrebbero comunque aver svolto un ruolo fondamentale nel manifestarsi della vita come noi la conosciamo. Gli amminoacidi sono composti organici contenenti carbonio, ossigeno, idrogeno e azoto, e costituiscono la base per le proteine, quindi giocano un ruolo biologicamente fondamentale. Tracce del più semplice tra gli amminoacidi, ovvero la glicina, sono stati trovati nei campioni riportati a Terra nel 2006 dalla cometa Wild-2, oggetto di studio della missione Stardust della NASA. Tuttavia, l’alta probabilità di contaminazione terrestre dei campioni aveva reso i risultati delle analisi piuttosto deboli. Ciò che ha ottenuto Rosetta, invece, sono rilevazioni di glicina direttamente nella chioma della sua cometa.
«Si tratta della prima rilevazione inequivocabile di glicina in una cometa», dice Kathrin Altwegg, principal investigator dello strumento ROSINA che ha effettuato le misurazioni e autrice principale dello studio pubblicato su Science Advances. «Allo stesso tempo abbiamo rilevato anche la presenza di altre molecole organiche, che possono essere precursori della glicina, fornendo indizi sui modi in cui questo amminoacido può essersi formato»
Le misure sono state effettuate prima che la cometa raggiungesse il suo punto di massimo avvicinamento al Sole, detto perielio, che è avvenuto nel mese di agosto del 2015. La prima rilevazione è stata ottenuta nell’ottobre 2014, mentre Rosetta si trovava a 10 km dalla cometa. L’occasione successiva si è presentata durante un sorvolo ravvicinato a marzo 2015, quando la sonda si trovava a 15-30 km dal nucleo cometario. La glicina è stata osservata anche in altre occasioni, associate alle emissioni di getti durante il mese precedente al perielio, quando Rosetta si trovava a più di 200 km dal nucleo, ed era circondata da grandi quantità di polvere.
«La glicina è l’unico amminoacido noto per essere in grado di formarsi senza acqua liquida, e il fatto che lo osserviamo insieme alle molecole precursori e la polvere suggerisce che si sia formata all’interno dei grani ghiacciati di polvere interstellare o dall’irradiazione del ghiaccio da parte di luce ultravioletta, per poi venire conservato per miliardi di anni nella cometa», aggiunge Altwegg.
La glicina si trasforma in gas solo quando raggiunge temperature prossime ai 150° C, e questo significa che per la maggior parte del tempo di vita della cometa la quantità di glicina rilasciata dalla superficie è infinitesimale, considerate le basse temperature. Questo spiega perché Rosetta è riuscita a rilevarla solo durante brevi finestre temporali.
Un’altra rilevazione interessante descritta nell’articolo è quella del fosforo, uno degli elementi chiave per tutti gli organismi viventi. Ad esempio, possiamo trovarlo nella struttura del DNA e nelle membrane cellulari, ed è utilizzato per il trasporto di energia all’interno delle cellule.
«C’è ancora molta incertezza per quanto riguarda la chimica che era presente sulla Terra primordiale, e c’è anche, ovviamente, un enorme gap evolutivo da colmare tra l’arrivo di questi ingredienti con gli impatti cometari e il presentarsi della vita», dice Hervé Cottin, co-autore dello studio. «L’aspetto più importante è che le comete non hanno avuto modo di cambiare negli ultimi 4.5 miliardi di anni, e quindi ci forniscono un accesso diretto ad alcuni degli ingredienti che sono probabilmente finiti nella grande zuppa prebiotica che ha poi portato la vita sulla Terra».
«La moltitudine di molecole organiche già individuate da Rosetta, unite ora all’entusiasmante conferma di ingredienti fondamentali come glicina e fosforo, rafforza la nostra ipotesi che le comete abbiano abbiano il potenziale per fornire gli elementi chiave per la chimica prebiotica», spiega Matt Taylor, scienziato della missione Rosetta. «Riuscire a dimostrare che le comete contengono il materiale più primitivo del Sistema solare e potrebbero aver trasportato gli elementi fondamentali per la vita sulla Terra è uno degli obiettivi principali della missione Rosetta, quindi siamo particolarmente soddisfatti di questo importante risultato».
L’intervista a Kathrin Altwegg (P.I. dello strumento GIADA a bordo di Rosetta) su Coelum 204 di ottobre, all’interno dello speciale Missione Rosetta. La storia, le scoperte, le interviste ai protagonisiti!
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Come si sa, quando un pianeta è in opposizione viene a trovarsi nelle migliori condizioni di osservabilità; essendo infatti nel punto più vicino alla Terra, e diametralmente opposto al Sole, è visibile per tutta la notte e si mostra con un diametro apparente e una luminosità maggiori che in altri periodi. Le opposizioni di Saturno si ripetono con un intervallo periodo sinodico) di circa 378 giorni, ma dal punto di vista osservativo non sono tutte uguali… per effetto della orbita moderatamente eccentrica del pianeta (e = 0,056), ogni circa 29 anni si ha un’opposizione perielica, o “grande opposizione” (in cui la distanza dalla Terra raggiunge minimi assoluti di circa 8,02 UA), seguita dopo 14,5 anni da un’opposizione afelica in cui il pianeta può arrivare a distare fino a 9,05 UA.
In questo periodo storico, le prime si verificano quando il pianeta si trova nella parte più boreale dell’eclittica (tra Gemelli e Toro), mentre le seconde quando si trova nella parte più australe (Sagittario e Ofiuco), così che il periodo in assoluto migliore per l’osservazione di Saturno coincide (contrariamente a quanto avviene per Marte) con l’opportunità di puntarlo molto alto sull’orizzonte.
L’ultima grande opposizione di Saturno c’è stata nel dicembre 2003, con gli anelli che raggiunsero le dimensioni apparenti record di 46,8” (vedi la figura a destra ) e per assistere alla prossima si dovrà aspettare il dicembre 2032. Attualmente il pianeta si trova in una fase di opposizioni abbastanza modeste, anzi, addirittura afeliche (il prossimo 3 giugno gli anelli misureranno solo 42”), con il minimo assoluto che verrà raggiunto nel giugno 2018 (diametro di 41,8”).
Saturno in opposizione significa anche poter seguire con più facilità le numerose lune del pianeta, le più luminose delle quali – Tethys (mag. +10,2), Dione (+10,4), Rhea (+9,7) e Titano (+8,3) – potrebbero essere teoricamente alla portata di un buon binocolo.
Nel grafico al link abbiamo tabulato le loro posizioni per ogni notte del mese di giugno alle ore 0:00 ora italiana (visione eclittica, con il nord in alto e l’est a sinistra).
In tema di satelliti, attenzione a non confonderli con la stella SAO 184541 (mag. +6,3), che la sera del 23 si troverà ad appena 1′ a sudest dal pianeta, o con la debole SAO 184540 (+9,5).
Il primo evento interessante del mese potrà essere seguito (da chi avrà la voglia o la forza di alzarsi per tempo) guardando verso est verso le cinque del mattino del 3 giugno.
A quell’ora si aprirà una breve finestra temporale, dove in presenza di un cielo limpido si dovrebbe riuscire a scorgere Mercurio (mag. +0,6) come un puntino situato 3,8° a est di una sottile falce di Luna calante.
I due oggetti saranno alti solo +6°, per cui in caso di orizzonte non proprio limpidissimo ci si dovrà aiutare con un binocolo.
Va all’Italia la più grande commessa mai assegnata per un progetto di Astronomia da Terra: il 25 maggio è stato firmato, presso la sede dell’European Southern Observatory (ESO), il contratto dall’importo complessivo di circa 400 milioni di euro per la costruzione della cupola e della struttura meccanica di supporto del telescopio E-ELT (European Extremely Large Telescope) che con il suo specchio principale di 39 metri di diametro, sarà il più grande telescopio ottico/infrarosso mai costruito.
La commessa è stata assegnata al consorzio di Società italiane ACe, composto da Astaldi, Cimolai ed EIE groupsubcontractor nominato.
Il telescopio E-ELT è anche frutto dell’intellettualità scientifica e tecnologica sviluppata all’interno dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, consolidata nel Paese attraverso un continuo coinvolgimento dell’Industria nazionale.
Per il Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Stefania Giannini, “oggi nella prestigiosa sede dell’ESO festeggiamo un altro successo della ricerca pubblica e dell’eccellenza industriale italiana in Europa. Con l’assegnazione del contratto per realizzare la struttura meccanica e la cupola del telescopio europeo estremamente grande (EELT) l’Italia conferma la sua capacità di leadership in settori scientifici di alta tecnologia che puntano lo sguardo a mondi da sempre di grande fascino per l’umanità. Una sfida – aggiunge il Ministro Giannini – vinta grazie a una positiva e attiva alleanza tra una ricerca di qualità, da noi sostenuta non solo economicamente, e imprese italiane dinamiche, solide e di livello internazionale. Il Programma Nazionale della Ricerca da 2,5 miliardi rappresenterà un acceleratore e un moltiplicatore di opportunità anche in altri ambiti, incoraggiando l’interazione positiva tra pubblico e privato”.
Il contratto è stato siglato dal Direttore Generale di ESO Tim de Zeeuw, dal presidente di Astaldi, Paolo Astaldi e dal presidente di Cimolai, Luigi Cimolai. Alla cerimonia della firma erano presenti il Ministro dell’Istruzione, Università e della Ricerca, On. Stefania Giannini, il Console Generale d’Italia a Monaco Renato Cianfrani, il presidente del Council di ESO Patrick Roche e i delegati italiani al Council di ESO, ovvero il Presidente dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, Nicolò D’Amico, e Matteo Pardo, Addetto scientifico presso l’Ambasciata Italiana a Berlino, oltre al presidente di EIE Gianpiero Marchiori e altri rappresentanti del consorzio.
La progettazione esecutiva di questi due mastodontici componenti del futuro super telescopio è dunque conclusa. Il contratto comprende la progettazione, la realizzazione, il trasporto, la costruzione, l’assemblaggio sul sito dove sarà collocato E-ELT e la verifica finale della cupola e della struttura meccanica del telescopio.
La realizzazione di queste due strutture è una vera e propria sfida ingegneristica, che vedrà la realizzazione di una cupola del diametro di 80 metri completamente rotante che avrà una massa complessiva di circa 5000 tonnellate, ma anche la montatura del telescopio e la struttura dove verranno alloggiate le sue ottiche, con una massa complessiva movimentabile di oltre 3000 tonnellate. Per dare un’idea delle dimensioni complessive di E-ELT, l’altezza complessiva della sua struttura, pari a circa 90 metri, è quella di un palazzo di 30 piani e la superficie della sua pianta è circa quella di un campo da calcio.
Il telescopio è in fase di costruzione sul Cerro Armazones, sulle Ande cilene, a una quota di 3000 metri e a circa 20 chilometri di distanza dall’Osservatorio del Paranal dell’ESO. Le opere per la realizzazione della strada di servizio e di livellamento del sito dove si ergerà E-ELT sono state completate e l’avvio dei lavori per la costruzione della cupola è previsto per il 2017.
162 pagine da leggere online e offline, scaricare in pdf o anche stampare… gratuitamente. E attenzione a quello che nella rivista si illumina al passaggio del mouse: sono contenuti extra!
Durante il mese di giugno l’inizio della notte astronomica (Sole sotto l’orizzonte di almeno –18°) si farà attendere fin quasi alle 23:00, così che alla mezzanotte il cielo apparirà dominato verso sud dal Sagittario e dalla caratteristica sagoma dello Scorpione, mentre più in alto si passerà dall’Ofiuco all’Ercole, con quest’ultimo quasi allo zenit. Il Leone, con Giove, si starà invece avviando al tramonto, mentre verso est comincerà ad alzarsi il “Triangolo estivo” formato da Vega, Deneb e Altair (le stelle più brillanti di Lira, Cigno e Aquila) e i ricchissimi campi stellari che compongono la Via Lattea. Sull’orizzonte nordest farà capolino la Galassia di Andromeda (M31), che raggiungerà una buona altezza sull’orizzonte giù prima dell’alba, precedendo il sorgere delle Pleiadi.
Per ciò che riguarda gli altri pianeti, gli unici osservabili a quell’ora saranno Saturno, in Ofiuco, in procinto di passare al meridiano, e Marte nella Libra: uno a sinistra e l’altro a destra della testa dello Scorpione.
Continua l’apparente moto di risalita del Sole, che nei primissimi minuti del giorno 21 raggiungerà il punto di massima declinazione nord dell’eclittica (pari a +23° 27′); in quel momento si verificherà il solstizio estivo, che nell’emisfero boreale sancirà l’inizio della estate astronomica.
16 giugno 2016, ore 9.00 – Scuderie Aldobrandini, Frascati
Proponi la tua idea!. L’edizione di #WIRE 16 propone l’assegnazione di tre premi:
– PREMIO MIGLIORE IDEA
– PREMIO INNOVAZIONE
– PREMIO MIGLIOR COMUNICATORE
In netto contrasto cromatico con Dubhe, dalla quale è separata esattamente 5°, è Merak (Beta UMa) che, splendendo di magnitudine 2,34, si colloca al quinto posto tra le stelle più luminose della costellazione; il nome deriva dall’arabo Al-marakk, “il fianco”.
Si tratta di una stella di sequenza principale, anche se più calda (9000 K) e luminosa (73 volte) del Sole. Osservazioni nell’infrarosso suggeriscono che Merak sia circondata da un disco di polveri lontano da essa 45 UA anche se non poi così denso, giacché la massa totale sarebbe circa 1/3 di quella terrestre.
Analizzandone moto e distanza, già nel 1869 l’astronomo R. Proctor notò che questa sembrava muoversi alla medesima velocità e direzione nello spazio delle altre stelle del carro (le due poste all’estremità della figura, Dubhe e Alkaid, non mostravano tale peculiarità), la qual cosa era evidentemente un solido indizio di un reale legame tra queste. Misurando lo spostamento Doppler, che rivela la velocità della stella lungo la nostra linea di vista (se verso di noi o in direzione contraria), individuandone il movimento apparente nel tempo lungo la linea visuale e, infine, calcolandone la distanza (cosa che permette di convertire il moto proprio in una velocità reale attraverso la nostra linea di vista), l’astronomo Huggins confermò quanto affermato da Proctor qualche anno prima: l’appartenenza di queste ad un gruppo in moto nello spazio!
Nate con ogni probabilità all’interno dello stesso apparato nebulare, esse sono dotate delle medesime caratteristiche fisiche e di moto nello spazio; proprio come un gregge, esse si muovono all’interno del braccio di Orione, puntando decisamente verso la parte orientale del Sagittario, sfiorando l’orbita della nostra stella a circa 46 km/s, il cui moto è invece diretto una sessantina di gradi più a nord, tra Ercole e la Lira.
E’ stata valutata in circa un’ottantina di anni-luce la distanza che separa il Sistema solare dal centro geometrico del gruppo, coincidente proprio con le cinque stelle centrali del grande carro; tale distanza, relazionata con l’estensione apparente del gruppo sulla volta celeste, ne permette di determinare anche la reale estensione nello spazio, che sembra quindi aggirarsi entro un ellissoide dagli assi lunghi circa diciotto per trenta anni-luce.
Lo studio delle medesime proprietà di altre stelle nel cielo incrementò le componenti di questa sorta di corrente stellare, che venne chiamata “gruppo in moto dell’Orsa Maggiore”, tanto da rilevarne un centinaio, molte delle quali però più deboli. Tutte le componenti del “Gruppo in moto” sono invece stelle di sequenza principale di classe spettrale A, dotate di una colorazione prettamente bianca (indice della loro temperatura superficiale, valutata in circa 9000° K) tale da farle assomigliare a diamanti stagliati sullo sfondo nero del cosmo; i loro spettri rendono manifesto che anche l’indice di metalli è grossomodo lo stesso tra le varie componenti del gruppo.
Comparando i loro diagrammi HR a quelli di altri ammassi standard dalle caratteristiche fisiche ben note (le Pleiadi o M44), si nota anche qui una certa similitudine che indicherebbe quindi un’età di circa 500 milioni di anni; le stelle del gruppo in moto dell’Orsa maggiore sono quindi piuttosto giovani e, dalla loro nascita avvenuta quasi in contemporanea, avrebbero percorso non più di due orbite galattiche, sempre in mutua peregrinazione. Tenendo conto della distanza media delle componenti, circa un’ottantina di anni-luce, il gruppo dell’Orsa maggiore risulta a tutti gli effetti essere il più vicino “ammasso stellare” al Sistema solare; a poco meno del doppio della distanza (150 a.l.) è situato il secondo ammasso aperto più vicino, le Iadi, mentre Melotte 111 (l’ammasso della Chioma), il terzo della categoria, giace lontano già 280 a.l. Addirittura, dal 1931 il gruppo in moto dell’Orsa maggiore è noto anche con la sigla Collinder 285, redatto dallo svedese Collinder.
Se il lieto fine non vi soddisfa, che ne dite di due? Un po’ come nella fiaba della Bella addormentata, dove non solo il bacio che potrà strapparci all’incantesimo infine arriva, ma addirittura giunge dalle labbra d’un principe. Potrebbe essere accaduto il 14 settembre 2015. Il condizionale è d’obbligo, parliamo d’un’ipotesi con più d’un caveat. Ipotesi, però, abbastanza “pesante” da venir pubblicata domani, 19 maggio, da Physical Review Letters – la stessa rivista sulla quale uscì, lo scorso febbraio, l’annuncio della prima rilevazione di onde gravitazionali.
E infatti proprio di quell’evento si tratta: il cosiddetto “segnale GW150914”, così chiamato dalla data in cui è stato rilevato. Secondo i ricercatori della Johns Hopkins University che hanno scrittol’articolo, fra i qualiil premio Nobel per la fisicaAdam Riess, l’ormai celebre “doppia firma” rivelata quel giorno dai due esperimenti LIGO, oltre a certificare l’esistenza delle onde gravitazionali potrebbe anche essere – allacciate le cinture – la firma della materia oscura.
Sì, proprio così: onde gravitazionali e materia oscura in un colpo solo. Il “segreto” starebbe nella natura di quei due grossi buchi neri la cui fusione è all’origine delle onde: potrebbero infatti essere buchi neri risalenti all’epoca immediatamente successiva al Big Bang. Ed è proprio a una persona che li conosce bene, quei due, essendo stata fra le prime al mondo a predirne l’esistenza, che ci siamo rivolti per capire meglio la portata dello studio: Michela Mapelli, dell’INAF di Padova.
«È un risultato molto interessante, perché apre una nuova prospettiva sullo studio dei buchi neri di origine primordiale[in inglese, primordial black holes, PBHs]. Se lo scenario proposto fosse confermato», dice Mapelli, «gli autori potrebbero fare il “colpaccio”: capire la composizione della materia oscura e allo stesso tempo interpretare l’osservazione delle onde gravitazionali. Tuttavia ci sono incertezze enormi, come gli autori dell’articolo giustamente sottolineano. Ad esempio, questo modello richiede che i buchi neri primordiali possano formare sistemi binari sufficientemente stretti da arrivare a coalescenza in un tempo di Hubble: la cosa è tutt’altro che semplice».
Grandi le incertezze, dunque, ma enormi le potenzialità di questo lavoro della Johns Hopkins University. Lavoro che, oltre al già citato premio Nobel, vede fra gli autori anche un giovane fisico veneziano, Alvise Raccanelli, che si è laureato a Padova nel 2007 e dal 2011 lavora negli Stati Uniti – prima al JPL della NASA e ora alla Johns Hopkins. Lo abbiamo intervistato.
Raccanelli, davvero, come suggerisce il titolo del vostro articolo – “Did LIGO detect dark matter?” – c’è la possibilità che l’evento GW150914, la prima firma delle onde gravitazionali, sia stata al tempo stesso la prima firma della materia oscura?
«Sì, potrebbe essere stata anche la prima firma della materia oscura. Nel senso che, nel nostro modello, una miriade di buchi neri primordiali costituiscono quella che viene definita materia oscura. In realtà non abbiamo ancora “visto” la materia oscura, ma ne sentiamo solamente gli effetti gravitazionali. Gli stessi effetti gravitazionali potrebbero essere causati da buchi neri di circa 30 masse solari, formatisi agli albori dell’universo. Questi buchi neri primordiali potrebbero formare sistemi binari e collidere, rilasciando onde gravitazionali. La rilevazione di queste onde gravitazionali sarebbe quindi una traccia dello scontro di due buchi neri di questo tipo».
Quanto potrebbero essere rari, scontri fra buchi neri primordiali come questi?
«Il risultato che abbiamo trovato è che dovrebbero esserci circa 5 eventi per gigaparsec cubico all’anno. La frequenza calcolata da LIGO usando i dati che hanno raccolto finora è compresa tra 2 e 53 per gigaparsec cubico all’anno. Ancora una volta, quindi, il nostro modello non sembra contraddetto dalle osservazioni».
Tutto tornerebbe, dunque?
«Come argomento contrario possiamo dire che è un modello un po’ inaspettato, e per certi versi sorprendente. Bisognerebbe poi ancora spiegare come e quando questi PBHs si sono formati all’inizio dell’Universo, e altri dettagli. Al momento è una proposta, interessante e possibile. Vedremo».
Ma questi buchi neri che renderebbero non più necessaria la materia oscura, in cosa sarebbero diversi, e in cosa uguali, rispetto ai “normali” buchi neri?
«La differenza rispetto ai buchi neri “normali” sta nel fatto, come dicevo, che questi sono buchi neri formatisi nei primi istanti di vita dell’Universo, non come collasso di stelle massive ma per via di complicati meccanismi che accadono nell’Universo primordiale».
Ed è possibile distinguerli dagli altri?
«In un paper che abbiamo sottomesso da poco – s’intitola “Determining the progenitors of merging black-hole binaries” e ne sono il primo autore – proponiamo un metodo per combinare cataloghi di galassie e osservazioni di onde gravitazionali per distinguere tra il modello in cui i PBHs costituiscono la dark matter e modelli più “tradizionali” (con i buchi neri che evolvono da stelle comuni in epoche recenti). Lo possiamo fare perché, secondo i nostri calcoli, fusioni di PBHs di 30 masse solari avvengono in galassie piccole e con pochissime o nessuna stella. Quindi, se troviamo che le onde gravitazionali provengono soprattutto da galassie grandi e con tante stelle, il nostro modello non funziona. Se invece provengono principalmente da galassie piccole e con poche o nessuna stella, questo sarebbe un punto a favore del nostro modello.
In un altro articolo in preparazione (con primo autore un altro ricercatore del nostro gruppo, Ilias Cholis) stiamo cercando di capire se l’eccentricità dell’orbita del sistema binario di buchi neri può servire come ulteriore discriminante. Poi abbiamo anche un altro paio di idee, ma… preferisco non svelarle, per ora :-)».
Torniamo allora alla vostra ipotesi: se fosse confermata, significa che là sotto al Gran Sasso potrebbero smantellare tutti quegli esperimenti per la ricerca di WIMPs o altre particelle didark matter? E la composizione dell’universo, cosa diventerebbe, senza più quella materia oscura che ne costituiva circa un quarto?
«È presto per dirlo, e soprattutto servirebbero indicazioni molto più forti che il nostro modello sia corretto, prima di abbandonare le ricerche di WIMPs. Quanto alla composizione, avremmo circa il 70 percento di dark energy e il 5 percento di materia barionica, proprio come adesso, mentre il restante 25 percento… sarebbe di buchi neri primordiali. Poi, certo, si dovrebbe capire se questi buchi neri primordiali sono fatti di materia barionica oppure no. Insomma, c’è ancora molto lavoro da fare, sia dal punto di vista teorico che osservativo. La ricerca di WIMPs ha comunque contribuito a testare diversi modelli di fisica delle particelle e investigare molti fenomeni quali i raggi gamma, quindi non sarebbe stato in ogni caso lavoro sprecato. Ma ripeto, è presto per dire quale modello è quello corretto: serviranno anni di osservazioni di onde gravitazionali per capirlo».
Per saperne di più:
Leggi il preprint dell’articolo “Did LIGO detect dark matter?“, di Simeon Bird, Ilias Cholis, Julian B. Muñoz, Yacine Ali-Haïmoud, Marc Kamionkowski, Ely D. Kovetz, Alvise Raccanelli e Adam G. Riess
Nel 2013 abbiamo pubblicato su Coelum astronomia n.171 un bell’articolo di Andrea Boldrini sul suo binoscopio autocostruito “più grande al mondo…” (che potete scaricare in pdf QUI)
Ve ne abbiamo raccontato la storia, come è stato ideato e costruito, e le emozioni suscitate da quel “cielo in 3D” visto dai primi fortunati a poter salire quella scaletta e mettere occhio agli oculari. Quella storia ora è diventata un libro, in formato pdf, che Andrea Boldrini regala a chiunque abbia voglia di condividere con lui questa sua grande emozione.
La storia della costruzione di uno strumento che non soltanto ha conquistato il primato di “più grande telescopio binoculare amatoriale del mondo”, ma ha anche confermato nei fatti la sua assoluta eccellenza nell’osservazione visuale di un cielo reso tridimensionale da due occhi da 24″ (61 cm di diametro).
Interrogato sul significato del Tempo, Sant’Agostino risponde: «Quando nessuno me lo chiede, lo so; ma se qualcuno me lo chiede e voglio spiegarglielo, non lo so».
In un certo senso, a me capita la stessa cosa quando mi chiedono le ragioni di questo smisurato telescopio binoculare e di cosa abbia mosso questo progetto. Io forse lo so, ma alla fine non so come spiegarlo!
Costruire un binocolo formato da due specchi di 24″ (61 cm di diametro) sembra in effetti uno di quei sogni destinati a farci compagnia per tutta la vita, ma sempre interrotti dall’immancabile risveglio. Poi si sa come vanno le cose… Anche per i desideri più impossibili basta a volte un pizzico di volontà e la vicinanza di qualcuno che ci crede quanto noi (la realizzazione del binodobson è stato un progetto che ho condiviso con la mia compagna Maria Kent Pasquarella, anche lei appassionata di cose celesti) e tutto all’improvviso si mette in moto…
La azienda Artesky annuncia la disponibilità della nuova Altair Astro GPCAM2 colour, una camera ideale per riprese planetarie, lunari oppure da utilizzare come autoguida con porta ST4! Si presta anche a riprese video astronomiche, TimeLapse a tutto campo (con l’opzionale obiettivo).
La Altair GPCAM2 è la sorella maggiore della GPCAM1, una versione migliorata e con un nuovo sensore, ovvero il SONY Exmor IMX224 CMOS, lo stesso della famosa ASI 224 ZWOptical!
Una delle caratteristiche più interessanti di questa camera, insieme al bassissimo rumore (uno dei più bassi tra le camere che montano questo sensore SONY) e l’elevata sensibilità, è l’altissima risposta nella regione rossa dello spettro, che la rende veramente utile anche per riprese solari. Essendo poi molto sensibile anche nelle regioni dell’infrarosso IR, può essere utilizzata in modalità mono.
La porta USB 2.0 della GPCAM2 è decisamente più veloce: così migliorano i tempi e la stabilità del trasferimento dati sul pc, si riducono quasi completamente i video corrotti o la perdita di fotogrammi, e infine migliora la velocità della frequenza, anche con i portatili meno potenti.
La camera possiede una porta autoguida ST4 che permette di usarla come autoguida con le montature delle migliori marche in commercio.
Può essere completamente controllata con AltairCapture e SharpCap per produrre video .AVI e .SER non compressi per l’imaging del sistema solare, oppure file di immagine in tutti i formati più comuni come JPEG .PNG .TIF .BMP ecc. Supporta la digitalizzazione a 8bit o 12bit in uscita.
La GPCAM2 supporta il “Trigger Mode” che permette di meglio controllare esposizioni superiori a 5 secondi. Con la maggior parte delle fotocamere, in modalità video normale, è necessario completare un’esposizione prima di poter dare un altro comando, ad esempio per interrompere la ripresa per l’arrivo di nuvole, il passaggio di un aereo, o un problema di allineamento ecc. Per lunghe esposizioni, la modalità video normale è scomoda, soprattutto in riprese astronomiche del profondo cielo; con il trigger Mode invece è possibile interrompere la ripresa istantaneamente, modificare le impostazioni, e quindi riprendere il lavoro.
Indice dei contenuti
La Camera GPCAM2 IMX224 Colour Altair Astro è in offerta a 219,00 euro presso Artesky
La sonda europea Rosetta sta per calarsi verso la superficie della cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko. La sonda si trova attualmente in un’orbita a 7-8 chilometri di altitudine; domani, se il piano di volo verrà attuato, Rosetta scenderà fino a soli 5 chilometri di quota.
A inizio mese, Rosetta distava circa 18 chilometri dal nucleo. Da allora, la sonda ha gradualmente abbassato la sua altitudine.
Rosetta resterà in questa orbita a bassa quota “fino a inizio giugno,” commenta Matt Taylor, project scientist della missione, “poi inizieremo a volare su altre traiettorie fino ad agosto, quando ricominceremo ad avvicinarci.”
Calandosi a distanze così ravvicinate, gli inseguitori stellari potrebbero scambiare i granelli di polvere emessi dal nucleo della cometa per stelle fisse e non riuscire più a controllare l’assetto della sonda. Gli ingegneri sperano che l’attività cometaria sia calata abbastanza da permettere ai dispositivi di operare correttamente; tuttavia, non sono stati in grado di escludere del tutto che i problemi riscontrati l’anno scorso si ripresentino anche questa volta. “Speriamo di no, altrimenti dovremo riprendere quota,” prosegue Taylor.
Il 14 febbraio 2015, Rosetta si era avvicinata fino a soli 6 km dalla cometa, riuscendo addirittura a fotografare la propria ombra sulla superficie del nucleo. A settembre di quest’anno, Rosetta concluderà la propria missione effettuando un impatto controllato sul nucleo.
Photo credit: ESA/Rosetta/MPS for OSIRIS Team MPS/UPD/LAM/IAA/SSO/INTA/UPM/DASP/IDA
Il produttore italiano Tecnosky di Felizzano (AL) ha da poco aggiunto un nuovo strumento all’omonimo brand di strumenti per l’astronomia: si tratta di un rifrattore acromatico di ben 21 cm di diametro (204 mm di apertura libera) e a fuoco corto (1200 mm f/6), destinato alle osservazioni deep-sky e alla fotografia in banda stretta.
L’ottica è composta da un doppietto trattato antiriflesso multistrato spaziato in aria; le lenti sono inserite in una robusta cella di alluminio collimabile.
L’intubazione, realizzata in Italia, è in alluminio anticorodal da 3 mm con diaframmi interni.
Lo strumento monta il robusto fuocheggiatore a cremagliera in bronzo con denti trasversali Titanium Tecnosky da 2,7″.
Come supporto, invece di usare i soliti due anelli il produttore ha optato per due robuste, ma più leggere mezzelune (vedi foto in alto) collegate tramite una lunga barra “tipo losmandy” della ditta Geoptik.
Il peso complessivo dello strumento è di soli 17 kg.
I test condotti hanno constatato una correzione ottica globale molto buona ed un certo cromatismo su Luna e pianeti gestibile con un filtro Baader Semi Apo. Nonostante sia un telescopio adatto a un utilizzo a ingrandimenti medio-bassi sul deep-sky, è stato comunque capace di restituire una visione dettagliata della Luna e di Giove a 170x (visibili numerose bande e la macchia rossa).
Goliah si presta molto bene per essere trasformato in un gigantesco telescopio h-alpha, ad esempio con un filtro Daystar Quark.
A richiesta Goliath è disponibile anche con focale 1800 mm.
Il rifrattore è proposto al prezzo di 4229 euro, inclusi i supporti a mezza luna, la barra, il supporto per il cercatore e il paraluce.
“Il Cielo di Roma 2016” è una due giorni di immersione nella scienza e nella natura nella città di Roma, nel Parco Regionale dell’Appia Antica, con un nutrito programma di attività per il pubblico, incentrata sui temi dell’osservazione del cielo notturno in tutte le sue sfumature.
Durante la manifestazione sarà possibile osservare il sole e i pianeti con potenti telescopi, ascoltare i rapaci notturni, partecipare a laboratori didattici sui meteoriti, registrare gli ultrasuoni emessi dai pipistrelli al tramonto, vedere gli ultimi modelli delle attrezzature astronomiche presentati dai principali operatori del settore, effettuare esperimenti di fisica, ascoltare conferenze sulle onde gravitazionali, visitare una mostra sulla biodiversità e la citizen science, partecipare alla raccolta dati su specie rare nel parco insieme ai ricercatori, informarsi sull’inquinamento luminoso e molto altro.
L’evento è indirizzato a favorire la partecipazione del pubblico, che troverà la possibilità di passare una giornata attiva nella quale approfondire la conoscenza del territorio del Parco, della sua flora e fauna e del cielo notturno in tutte le sue manifestazioni.
Tra i moltissimi eventi, segnaliamo in breve
(info aggiornate al 18 maggio):
♦29/30 maggioASTROROMA 2016
Area espositiva astronomia.
Mostra con stand delle associazioni di astrofili attivi nella Regione Lazio, di operatori commerciali nel settore dell’astronomia, di enti coinvolti a vario titolo nell’osservazione del cielo.
Organizzato dalla Direzione Ambiente e Sistemi Naturali, Regione Lazio, in collaborazione con UAI – Unione Astrofili Italiani, e la partecipazione di diversi Enti ed esperti del settore.
L’inquinamento luminoso spesso è un tema sottovalutato, anche dalle amministrazioni locali competenti per l’attuazione della normativa regionale, non solo per la limitazione che comporta nella fruizione del cielo stellato da parte degli appassionati e di tutta la cittadinanza, ma anche per le possibili conseguenze sui sistemi biologici che ne possono derivare. Da anni la Regione Lazio ha una propria normativa in materia, grazie anche alle preziose indicazioni dell’Unione Astrofili Italiani, dell’Osservatorio di Campocatino e degli altri esperti interessati alla questione. In quest’ambito sono state sviluppate numerose esperienze di applicazione concreta che hanno approfondito sia le questioni tecniche che gli aspetti procedurali, e messo in luce le difficoltà culturali che sono un necessario presupposto per affrontare correttamente il problema. La giornata nell’ambito dell’iniziativa “Il Cielo di Roma” è indirizzata a fare il punto sulle esperienze in corso, sulle difficoltà applicative, e sulle prospettive di prevenzione dell’inquinamento luminoso nella regione della Capitale.
…e ancora a partire dalle 19.45 del venerdì, fino alle 19 della domenica: conferenze scientifiche divulgative, laboratori per grandi e piccoli, seminari tecnici per astrofili, osservazioni del Sole e del cielo a cura di INAF, UAI, Accademia delle Stelle, ARA-‐Associazione Romana Astrofili, AstronomiAmo, Gruppo Astrofili Monti Lepini, Virtual Telescope, Università Roma 3 e presso gli stand dei partecipanti di ASTROROMA.
♦ EMOZIONI AL PLANETARIOLezioni – conferenze di astronomia in un Planetario professionale con cupola di 7 metri per scuola, bambini e adulti a cura di Università Roma Tre – SpeakScience (vedi orari e modalità di prenotazione nel programma completo).
♦BIOBLITZ “NATURA IN CITTA” (Progetto europeo CSMON-‐LIFE) Una serie di attività per l’osservazione della natura in città e lo sviluppo di attività di Citizen Science. Escursioni guidate nel Parco. Osservazione delle specie di fauna e di flora, partecipazione ai censimenti del progetto CSMON-‐LIFE e prova dell’utilizzo dell’APP CSMON-‐LIFE scaricabile gratuitamente.
♦ MOSTRA “La Scienza dei Cittadini: Natura in Città” Sabato 28 e Domenica 29 maggio Exibit sul progetto europeo CSMON-‐LIFE (Citizen Science Monitoring), mostra fotografica sugli animali e le piante delle aree protette del Lazio, materiali sull’astronomia romana e sull’osservazione del cielo.
♦LABORATORI DIDATTICI PER LE SCUOLEil 28 maggio mattina a cura di Università Roma Tre – SpeakScience e Gruppo Astrofili Monti Lepini (modalità di prenotazione nel programma completo).
♦ COSMIC GRAND TOUR Osservazione in diretta del cielo profondo con il Virtual Telescope. Gianluca Masi, Astrofisico. Accompagna le immagini musica in esecuzione “Live” curata da Emanuele Brizioli e Gianluca Meloni con i loro sintetizzatori. (Sala Conferenze, 28 maggio alle ore 22:00).
• Venerdì 27, dalle 22:00: Aspettando il Cielo di Roma, osservazione del cielo.
• Sabato 28, dalle 10:00 alle 13:00: Osservazione del Sole per scuole e pubblico.
dalle 14:30 alle 17:00: Osservazione del Sole per il pubblico
dalle 22:00: Osservazione del cielo per il pubblico e Workshop di osservazione visuale e fotografica.
• Domenica 29, dalle 10:00 alle 13:00: Osservazione del Sole per il pubblico.
♦ROCKET DAY il 29 maggio dalle 14:30 l‘Associazione ScienzImpresa propone un laboratorio di costruzione e lancio di razzi ad acqua, per grandi e piccoli (vedi orari e modalità di prenotazione nel programma completo).
Un altro satellite gioviano, Io, è il corpo vulcanicamente più attivo di tutto il Sistema Solare, a causa dello stress tettonico, e quindi del calore, prodotto dalle forze di marea di Giove. Gli scienziati hanno a lungo considerato che anche Europa potesse avere attività vulcanica o sorgenti idrotermali ma la nuova ricerca cerca di stabilire il suo potenziale di abitabilità anche in assenza di tali fattori.
Secondo gli scienziati del Jet Propulsion Laboratory della NASA, in alcune nicchie sotterranee le sostanze chimiche verrebbero abbinate nelle giuste proporzioni per alimentare processi biologici. A dimostrarlo una ricerca pubblicata sulla rivistaGeophysical Research Letters che, tramite modelli e simulazioni, mette a confronto il potenziale di produzione di idrogeno e ossigeno su Europa con quello della Terra, attraverso processi che non coinvolgono direttamente il vulcanismo. L’equilibrio di questi due elementi è un indicatore chiave dell’energia disponibile per la vita.
Dai risultati è emerso che gli importi sarebbero paragonabili in scala: su entrambi i mondi la produzione di ossigeno è di circa 10 volte superiore alla produzione di idrogeno.
“Stiamo studiando un oceano alieno usando metodi sviluppati per capire il movimento di energia e nutrienti nei sistemi della Terra. Il ciclo di ossigeno ed idrogeno nell’oceano di Europa è uno degli elementi più importanti per guidare la chimica dell’oceano e di qualsiasi forma di vita, proprio come sulla Terra“, ha dichiarato nel reportSteve Vance, scienziato planetario al JPL ed autore principale dello studio.
Il team ha cercato di indagare anche altri elementi chiave come il carbonio, l’azoto, il fosforo e lo zolfo.
Inizialmente, è stata calcolata la quantità di ossigeno che potrebbe essere prodotta dall’oceano della luna quando l’acqua del mare interagisce con la roccia. Secondo tale processo geochimico metamorfico subacqueo, chiamato serpentinizzazione, l’acqua filtra tra i grani minerali e reagisce con essi formando nuovi minerali e liberando idrogeno. I ricercatori hanno considerato un certo numero di crepe nel fondale marino di Europa, partendo dal presupposto che queste si siano aperte nel corso del tempo durante il raffreddamento del nucleo interno iniziato miliardi di anni fa, dopo la nascita della luna. Naturalmente le fessure più recenti esporranno materiale “fresco” all’acqua del mare, alimentando reazioni con una maggior produzione di idrogeno.
Nella crosta oceanica terrestre, tali fratture possono essere profonde fino a 5 – 6 chilometri ma su Europa gli autori ritengono che possano arrivare fino a 25 chilometri.
Il resto della chimica necessaria per la vita verrebbe fornita dagli ossidanti, ossigeno e altri composti che possono reagire con l’idrogeno, provenienti dalla crosta ghiacciata. Europa, infatti, è avvolta nella radiazione creata dall’enorme campo magnetico di Giove tanto che elettroni e ioni collidono sulla sua superficie con la stessa intensità propria di un acceleratore di particelle. Tali scontri sono in grado di dividere le molecole di ghiaccio d’acqua creando questi elementi. Secondo gli scienziati, la superficie della luna viene riciclata sprofondando verso l’interno con un processo simile alla tettonica a placche, portando quindi gli ossidanti nell’oceano.
“Gli ossidanti provenienti dal ghiaccio sono come il polo positivo di una batteria e le sostanze chimiche dal fondo marino, chiamati riducenti, sono come il polo negativo. Scoprire ee i processi bioloici completano o meno il giro è ciò che motiva la nostra esplorazione di Europa“, ha dichiarato Kevin Hand, altro scienziato planetario del JPL co-autore dello studio.
Tutto nello Scorpione, verrebbe da dire… Sì, perché in maggio sarà proprio questa regione celeste al centro di tutto il movimento astronomico del mese. Saturno e Marte, chi prima e chi dopo, saranno in opposizione proprio da quelle parti, ma proprio il giorno dell’opposizione geometrica di Marte – il 22, quando il pianeta avrà la massima luminosità – ecco che arriverà anche la Luna a ravvivare l’ambiente. Fin troppo, visto che si tratterà di un invadente plenilunio…
In quella sera Marte si troverà davanti la testa dello Scorpione, 1,5° da Dschubba (mag. +2,4), con la Luna distante 13° verso est (a 2,5° da Saturno), ma che la sera prima l’aveva avvicinato fino a 5°. Bisognerà sperare in una notte assolutamente cristallina.
Ecco come evolvono i resti di una supernova. In questa immagine in movimento potete vedere il resto della supernova Tycho, esplosa nel 1572 in una maniera così drammaticamente violenta che fu visibile anche di giorno. Nello specifico si tratta dell’esplosione di una nana bianca entrata a far parte della classe di supernovae di tipo Ia che vengono utilizzate per monitorare l’espansione dell’Universo. Di recente un gruppo di astronomi ha studiato nel dettaglio il materiale che si sta espandendo dal centro di ciò che resta da questa esplosione, utilizzando il Chandra X-ray Observatory della NASA, il Karl G. Jansky Very Large Array (VLA) e tanti altri telescopi.
Questo resto di supernova è particolarmente interessante perché è facilmente osservabile ai raggi X e quindi quale occasione migliore per sfruttare la potenza di Chandra. L’osservazione è andata avanti per ben 15 anni, dal 2000 al 2015, e i ricercatori sono riusciti a creare un lungo “film” con 5 scatti che mostrano come l’espansione sia ancora in corso dopo 450 anni. Combinando i dati a raggi X con circa 30 anni di osservazioni in radio con il VLA, gli astronomi hanno anche prodotto un collage in movimento utilizzando tre immagini diverse.
Le osservazioni hanno permesso di misurare la velocità dell’onda d’urto generata dall’esplosione, e date le grandi dimensioni del resto di supernova le misurazioni sono state molto precise. Sebbene il resto sia approssimativamente circolare, ci sono diverse discrepanze nella velocità dell’onda d’urto nelle diverse regioni. La velocità nella zona in basso a destra è circa due volte più grande che nell’area a sinistra. Il team ha scoperto che la velocità massima dell’onda d’urto è di circa 20 milioni di chilometri all’ora. Queste differenze derivano dalla diversa densità del gas presente nel resto, che però ha cambiato il suo stato nel corso degli ultimi tre secoli.
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Per saperne di più:
Leggi lo studio: “An X-ray and Radio Study of the Varying Expansion Velocities in Tycho’s Supernova Remnant“, di Brian Williams (NASA’s Goddard Space Flight Center), Laura Chomiuk (Michigan State University), John Hewitt (University of North Florida), John Blondin (North Carolina State University), Kazimierz Borkowski (NCSU), Parviz Ghavamian (Towson University), Robert Petre (GSFC), e Stephen Reynolds (NCSU).
Spiando la gelida periferia del Sistema Solare, un gruppo di astronomi è riuscito a ottenere preziose informazioni sul pianeta nano 2007 OR10, rivelando un mondo ben più grande del previsto. I dati, ottenuti dai telescopi spaziali Kepler e Herschel, mostrano che il diametro di 2007 OR10, il più grande oggetto del sistema solare privo di un nome ufficiale, è di circa 1535 chilometri, quasi 250 chilometri in più rispetto alle stime precedenti. Questa nuova misurazione rende 2007 OR10 un centinaio di chilometri più grande del pianeta nano Makemake.
I nuovi dati indicano anche che questo misterioso mondo alieno presenta una superficie relativamente scura. Inoltre, con un periodo di quasi 45 ore, presenta uno dei moti di rotazione più lenti nell’intero Sistema Solare.
I dati che hanno reso possibili queste scoperte sono stati raccolti dal telescopio spaziale Kepler della NASA nell’ambito della sua missione K2 e dall’osservatorio spaziale europeo Herschel prima che venisse disattivato nel 2013.
Le nuove misurazioni pongono 2007 OR10 in terza posizione tra i pianeti nani del Sistema Solare in termini di dimensioni. Il collega Haumea presenta un diametro massimo maggiore di quello di 2007 OR10; tuttavia, la sua forma particolarmente allungata fa sì che il suo volume interno sia in realtà ben minore di quello di OR10.
“Kepler ha fornito un altro contributo importante nella misurazione delle dimensioni di 2007 OR10,” spiega Geert Barentsen della NASA, “ma ciò che è davvero impressionante è la quantità di informazioni sulle proprietà fisiche di questo oggetto che possiamo ricavare unendo i dati di Kepler a quelli di Herschel.”
La nuova missione K2 prevede che Kepler usi la pressione delle radiazioni solari per bilanciarsi e controllare il proprio assetto, rimediando fino a un certo punto alla perdita di stabilizzazione dovuta al fallimento di due dei quattro giroscopi a bordo del telescopio. Oltre a cercare lievi cali nella luminosità di una stella dovuti al transito di un esopianeta, come già faceva nella sua missione precedente, Kepler ora viene impiegato anche per raccogliere la debole luce proveniente da alcuni degli oggetti più lontani e freddi nel nostro sistema solare.
A complicare l’analisi dei dati è stata proprio la grande distanza del pianeta nano: nonostante la sua orbita lo porti di tanto in tanto all’altezza dell’orbita di Nettuno, in questo momento 2007 OR10 si trova due volte più in là di Plutone. Misurare la lentissima velocità di rotazione dell’oggetto è stato essenziale per poter effettuare una misurazione indiretta del suo diametro. I dati di Kepler, secondo gli scienziati, contengono addirittura degli indizi di potenziali variazioni di luminosità sulla superficie.
I dati di Kepler hanno consentito agli astronomi di misurare la frazione della luce riflessa dalla superficie di 2007 OR10, mentre quelli di Herschel hanno rivelato la frazione di luce assorbita e poi riflessa nella porzione infrarossa dello spettro elettromagnetico. Unendo queste due informazioni, gli astronomi sono riusciti a risalire alle dimensioni e alla luminosità dell’oggetto.
Il fatto che gli studi precedenti avessero sottostimato il reale diametro di 2007 OR10 indica che anche i dati sulla gravità e sulla luminosità di questo mondo debbano essere rivisti. A parità di luce riflessa, infatti, un diametro maggiore è indicativo di una superficie meno riflettente.
“Le nostre nuove stime sulle dimensioni di 2007 OR10 rendono sempre più probabile che il pianeta nano sia coperto da ghiacci volatili come il metano, il monossido di carbonio e l’azoto, che probabilmente sarebbero persi nello spazio,” spiega Andràs Pàl del Konkoly Observatory. “È emozionante rivelare dettagli come questo su un mondo così lontano e nuovo – soprattutto vista la sua superficie straordinariamente scura e rossastra.”
Mancano ancora due anni alla “Grande opposizione” del 2018, quando la Terra si troverà tra il Sole e Marte e quest’ultimo ci apparirà luminoso e grande come non mai. Chi ha potuto assistere a quella dell’agosto 2003 sa bene che si tratta di un’esperienza che va molto al di là del normale aspetto osservativo.
L’emozione provocata dal periodico e raro avvicinamento del pianeta Rosso alla Terra è infatti legata a un insieme di suggestioni non solo scientifiche, ma anche letterarie e storiche (Schiaparelli, i canali, la vita, il mistero, la guerra dei mondi di Wells, e quella radiofonica di Orson Welles…); ed è probabilmente in nome di quelle sensazioni che tra una grande opposizione e l’altra ci si scopre a desiderare che passino in fretta le opposizioni intermedie, di solito liquidate come “afeliche”, e cioè con il pianeta troppo lontano per arrivare ad accendere certe emozioni.
Quella di quest’anno è però da considerarsi ben più di una “opposizione afelica”; Marte raggiungerà infatti un diametro angolare di quasi 19 secondi d’arco, un valore che la tecnica di acquisizione in digitale ha reso ormai più che sufficiente per regalare delle ottime opportunità di studio e divertimento.
22 maggio 2016 Marte raggiunge l’opposizione geometrica, la luminosità è al suo massimo (mag. –2,06).
30 maggio 2016 Marte è alla minima distanza dalla Terra (0.50321 AU = 75.28 milioni di chilometri). Il diametro angolare arriva alla massima estensione (18,6″), la luminosità inizia a scendere (mag. –2,0).
Coelum vi regala inoltre uno speciale con due articoli approfonditi in cui trovare tutto quello che si può osservare del Pianeta Rosso, e come osservarlo, guidati da Remondino Chavez, e cosa riprendere e come con i sempre ottimi consigli di Daniele Gasparri. La consultazione è gratuita e ottimizzata per qualsiasi dispositivo:
Dopo il successo dello scorso anno torna #WIRE16: l’evento si terrà il 16 giugno 2016 presso le Scuderie Aldobrandini di Frascati.
Ascoltare le necessità delle imprese, condividere le idee della ricerca e coinvolgere finanziatori per migliorare la catena dell’innovazione nel Lazio. Questi i principali obiettivi di #WIRE16 – Workshop Impresa, Ricerca ed Economia – che intende favorire e incentivare la realizzazione di un ecosistema favorevole alla ricerca, l’innovazione e allo sviluppo di realtà imprenditoriali che incrementino le competenze, le opportunità per i giovani e accrescano le potenzialità dell’area.
L’evento, ideato da Frascati Scienza, si terrà il 16 giugno alle ore 9:00, presso le Scuderie Aldobrandini di Frascati (RM) in Piazza Marconi 6. Imprenditori, ricercatori e finanziatori avranno 5 minuti per poter raccontare in modo semplice e comunicativo chi sono, cosa fanno, le loro esigenze ed idee per migliorare il mondo in cui viviamo.
I temi potranno spaziare dalla ricerca e le sue applicazioni, alle innovazioni nel campo del design, della tecnologia, e dell’informatica, alle idee per creare infrastrutture, laboratori e opportunità di lavoro per i giovani, o semplicemente per mettere in rete le proprie conoscenze e competenze.
C’è tempo fino al 29 maggio per compilare il form di iscrizione completo di curriculum/scheda del proponente e presentare la propria idea. L’iscrizione è gratuita e non esistono vincoli di età, genere, ambito o qualifica per i soggetti ammissibili al concorso.
Grazie al supporto dell’ESA-ESRIN saranno assegnati dei premi per:
• Premio migliore idea: 2000 euro
• Premio innovazione: 1500 euro
• Premio miglior comunicatore: 1500 euro
Ciascuna proposta verrà valutata da un comitato scientifico composto da professionisti nei diversi ambiti dell’innovazione, della ricerca, della finanza e della comunicazione scientifica. Il 10 giugnosaranno resi noti i progetti selezionati che verranno presentati durante l’evento #WIRE16.
L’evento è realizzato da Frascati Scienza e vede il supporto della Commissione Europea, del comune di Frascati e di ESA-ESRIN. Inoltre sono partner organizzatori della manifestazione ASI, CNR, ENEA, INAF, INFN, INGV, ISS, Sapienza Università di Roma, Università degli Studi di Roma Tre, Università Telematica Internazionale Uninettuno, AISCRIS, BCC Banca di Frascati, Engineering, ELIS, Fondazione Economia Tor Vergata, Fondazione Italia Camp, InTech, Native, Associazione PIIU, Rai Tre Scienza, Telecom Italia.
WIRE16 è parte degli eventi lancio della Notte Europea dei Ricercatori 2016 e s’inserisce all’interno della più ampia iniziativa “Lazio Pulse” volta a realizzare attraverso l’eScience la crescita economica e sociale del territorio (www.laziopulse.it).
In un colpo solo, la NASA ha annunciato la scoperta di 1284 nuovi esopianeti da parte del telescopio spaziale Kepler, un nuovo record che porta il numero totale di mondi in orbita attorno a stelle aliene a oltre 3200. La scoperta è stata effettuata analizzando i dati raccolti dal potente occhio robotico di Kepler nel Luglio del 2015. L’analisi ha portato all’identificazione di 4302 candidati, ovvero potenziali esopianeti. Per 1284 di questi candidati, il livello di fiducia a più del 99% è sufficiente per confermare la loro natura planetaria.
“Questo annuncio raddoppia il numero di pianeti scoperti da Kepler,” spiega Ellen Stofan della NASA. “Ora abbiamo più fiducia che da qualche parte là fuori, attorno a una stella simile alla nostra, ci sia davvero un’altra Terra.”Per altri 1327 dei 4302 candidati spiati da Kepler, le probabilità che siano realmente dei pianeti extrasolari è del 50% o più. Altri 984 candidati erano già stati confermati o validati. Per quanto riguarda i restanti 707 candidati, gli scienziati sospettano che qualche altro fenomeno astrofisico sia all’opera, oppure che si tratti semplicemente di errori nei dati.
“Prima che il telescopio spaziale Kepler decollasse, non sapevamo se gli esopianeti fossero rari o comuni nella galassia,” spiega Paul Hertz della NASA. “Grazie a Kepler e alla comunità di ricerca, oggi sappiamo che potrebbero esserci più pianeti che stelle.”Il metodo di individuazione di Kepler si basa sull’osservare periodici cali nella luminosità di una stella dovuti al transito davanti al suo disco di uno o più esopianeti – un po’ come il transito di Mercurio di fronte al Sole che ieri ha meravigliato il mondo intero. Prima che la perdita di un secondo giroscopio costringesse gli ingegneri a progettare da capo una nuova missione che vede Kepler bilanciarsi e controllare il proprio assetto sfruttando la pressione delle radiazioni solari, il telescopio spaziale monitorava costantemente oltre 150 mila stelle tra le costellazioni del Cigno, della Lira e del Dragone.
A differenza delle scoperte precedenti, in cui gli scienziati avevano analizzato una a una le curve di luce di ciascuna stella nel campo visivo di Kepler, l’analisi dei 4302 candidati è stata portata a termine tramite un metodo statistico in grado di valutare più candidati allo stesso tempo.
Il nuovo metodo si basa su due simulazioni differenti che analizzano la struttura dei transiti osservati da Kepler e le probabilità, a livello puramente statistico, che una data stella ospiti un sistema planetario o che si tratti di un falso allarme. Confrontando queste due informazioni, l’algoritmo assegna un voto da 0 a 1 a ciascun candidato; i candidati con un voto di 0.99 o più diventano pianeti di fatto, senza bisogno di lunghe e costose campagne di osservazione per confermare la loro natura planetaria.”I candidati planetari possono essere visti come delle briciole di pane,” spiega Timothy Morton della Princeton University. “Se lasci cadere un paio di grosse briciole sul pavimento, puoi raccoglierle una ad una. Ma se rovesci un intero sacco pieno di briciole piccole, avrai bisogno di una scopa. Questa analisi statistica è la nostra scopa.”
Dei 1284 pianeti individuati da Kepler nel Luglio del 2015, quasi 550 presentano dimensioni indicative di una composizione rocciosa. Nove di questi si trovano nelle fasce abitabili dei loro sistemi planetari, ovvero a distanze dalle proprie stelle alle quali l’acqua potrebbe essere stabile allo stato liquido sulle loro superfici. Questi nove pianeti si vanno ad aggiungere agli altri 12 pianeti potenzialmente abitabili già conosciuti.
“Si dice di non contare i pulcini prima che siano nati, ma è esattamente ciò che questi risultati ci permettono di fare basandoci sulle probabilità che ciascun uovo, o candidato nel nostro caso, si trasformi in un pulcino, o un pianeta confermato,” spiega Natalie Batalha della NASA. “Questo studio permetterà a Kepler di raggiungere il suo potenziale massimo offrendoci una comprensione più approfondita del numero di stelle che ospitano pianeti terrestri potenzialmente abitabili – un numero che è fondamentale conoscere per poter progettare future missioni in grado di cercare ambienti abitabili e mondi abitati.”
Le notti del 14/15 e del 15/16 maggio, il primoquarto di Luna apparirà nei pressi di Giove, nelcorso di una congiunzione abbastanza larga.
La separazione minima osservabile – (o almeno quella in orario più comodo!) di circa 6° – sarà raggiunta verso le 21:45 del 15, quando però i due oggetti saranno alti circa +54° e isolati nel cielo.
Per realizzare riprese fotografiche di effetto sarà forse meglio attendere le prime ore del 16, anche se la separazione sarà salita a più di 7°.
La Luna sarà decisamente invasiva con il suo chiarore, ma anche così gli astrofotografi più bravi riusciranno senz’altro a ricavare suggestivi accostamenti tra il cielo (il Leone declinante) e gli elementi del paesaggio.
La mappa fa parte dell’ultimo rilascio del Planetary Data System (PDS), un’organizzazione finanziata dalla NASA che si occupa della pubblicazione dei dati scientifici delle missioni planetarie. La missione MESSENGER, che si è conclusa il 30 aprile dello scorso anno con un impatto sulla superficie del pianeta, ha condiviso ad oggi oltre 10 terabyte di informazioni, tra cui quasi 300.000 immagini e milioni di spettri.
Il nuovo modello è stato realizzato combinando insieme più di 100.000 foto riprese con geometrie ed illuminazione molto diverse.
Rivela una serie di caratteristiche interessanti, tra cui il punto più alto e più basso del pianeta rispettivamente di 4,48 chilometri sopra l’elevazione media appena a sud dell’equatore e 5,38 chilometri sotto l’elevazione media nel pavimento del bacino Rachmaninoff, un bacino da impatto che ospiterebbe alcuni tra i più recenti depositi vulcanici di Mercurio. E fornisce una vista senza precedenti della regione vicino al polo nord dove generalmente il Sole, basso sull’orizzonte, getta ombre molto lunghe che oscurano le caratteristiche del terreno.
Nel video che segue, un’animazione del DEM il nuovo modello globale digitale di elevazione creato dalle immagini del MESSENGER. La superficie di Mercurio è colorata in base alla sua topografia, con la regioni più elevate colorate di marrone, giallo e rosso, e quelle di bassa elevezione in blu e porpora. Credits: NASA/U.S. Geological Survey/Arizona State University/Carnegie Institution of Washington/JHUAPL
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