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PLUTONE: La prima foto a colori di quello che potrebbe essere il più grande criovulcano del Sistema solare.

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La prima foto a colori del più grande criovulcano del Sistema solare? Se confermato si tratta di un'immagine di STRAORDINARIA bellezza ma anche di straordinaria importanza. Crediti: NASA / JHUAPL / SWRI.

Plutone: possibile criovulcanismo

Wright Mons a colori. A più di sei mesi dallo storico flyby di Plutone, avvenuto lo scorso 14 luglio, la sonda NASA New Horizons ci regala una nuova e straordinaria immagine del pianeta nano. Nell’obiettivo dello strumento LORRI (Long Range Reconnaissance Imager) montato su New Horizons si compongono una serie di immagini a risoluzione di 450 metri per pixel e scattati da un’altezza di quasi 50mila chilometri sulla superficie di Plutone. Immagini arricchite dai dati “a colori” raccolti da un altro strumento montato sulla sonda NASA, il Ralph / Multispectral Visible Imaging Camera, che invece ha osservato la stessa area da un’altezza di 34mila chilometri e con una risoluzione di 650 metri per pixel.

Uno scatto che dunque abbraccia 230 chilometri in tutto e che fornisce nuove e importanti informazioni su uno dei due potenziali vulcani di ghiaccio osservati dagli scienziati fin dalle prime rilevazioni del luglio 2015.

Il criovulcanismo, ovvero l’estrusione di ghiaccio dalla superficie di un corpo celeste, è un fenomeno piuttosto diffuso all’interno del Sistema Solare. Questo è vero. Ma se il Wright Mons (così battezzato in onore dei fratelli Wright, pionieri del volo umano) fosse confermato come criovulcano ci troveremmo di fronte al più grande del suo genere, almeno per quanto concerne l’intero Sistema Solare esterno: con il suo diametro di 150 chilometri e uno sviluppo in altezza di 4 chilometri, davvero enorme.

Il gruppo di ricerca di New Horizons è incuriosito dalla scarsa distribuzione di materiale rosso nell’immagine e si interroga sul perché non sia più abbondante. È altrettanto strano che sull’intera superficie dell’ipotetico vulcano sia stato avvistato un unico e grosso cratere, come a dire che la sua formazione e la crosta sottostante è di relativa recente formazione. E che la sua attività deve essersi concentrata nella tarda storia del pianeta nano.

La regione dove trova il Wright Mons, nel contesto generale di Plutone. Crediti: NASA / JHUAPL / SWRI.

Onde gravitazionali, fra rumors e “big dogs”

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Simulazione 3D di onda gravitazionale prodotta da due buchi neri orbitanti. Crediti: Henze, NASA
Simulazione 3D di onda gravitazionale prodotta da due buchi neri orbitanti. Crediti: Henze, NASA

C’è grande fermento, da qualche mese, nella comunità degli astrofisici che si occupano di onde gravitazionali: tutta colpa di un tweet del settembre scorso, subito ripreso sulle pagine di Nature, nel quale il cosmologo Lawrence Krauss accennava a rumors – voci non confermate, dunque, indiscrezioni ufficiose non meglio attribuite – secondo le quali LIGO, il più grande osservatorio al mondo per le onde gravitazionali, avrebbe captato un segnale. Indiscrezioni, dicevamo, ribadite da un secondo tweet di lunedì scorso, di nuovo dello stesso Krauss e di nuovo non attribuite.

Ora, se davvero LIGO ha intravisto qualcosa, la tensione all’interno della collaborazione dev’essere altissima, ed è comprensibile. Da una parte c’è la pressione mediatica sempre più insistente, con il clima divenuto rovente dopo quest’ultimo tweet. Dall’altra c’è l’incubo dell’abbaglio, temutissimo sempre, ma se possibile ancor di più dopo le recenti figuracce internazionali con i neutrini superluminali di Opera e dell’impronta di onde gravitazionali – in quel caso, addirittura primordiali – nei dati di Bicep2. Ma rispetto alla già complicata situazione di tutti gli altri esperimenti al limite delle possibilità tecnologiche, i ricercatori della collaborazione LIGO/Virgo hanno un precedente in più con il quale fare i conti: Big Dog. Più precisamente, l’eventualità che – se davvero le voci di corridoio fossero confermate e dunque l’interferometro avesse captato un segnale – a generarlo non sia stato uno scontro fra buchi neri o qualche altro evento di portata cosmica, bensì una cosiddetta blind injection.

«Le blind injections sono dei segnali che riproducono i segnali gravitazionali che noi ci attendiamo, e che vengono inseriti, all’insaputa di tutti (da cui appunto blind), nelle osservazioni», spiega a Media INAF Marica Branchesi, ricercatrice all’Università di Urbino, associata INAF e membro della collaborazione LIGO/Virgo. «È una procedura che è già stata utilizzata in passato, in una circostanza poi ribattezzata “Big Dog” [ndr: dal nome della costellazione nella quale avrebbe avuto origine la “finta onda”, quella del Canis Major]. Nel 2010 fu inserito nei dati di LIGO e di Virgo un evento che riproduceva il segnale di una coalescenza di una stella di neutroni e di un buco nero. Nessuno se ne accorse, e per un po’ di mesi la collaborazione ci lavorò sopra: sono state fatte le analisi, le interpretazioni ed è stato scritto addirittura un paper. E solo alla fine di questo duro lavoro è stata rivelata l’identità – falsa – dell’evento».

Insomma, una verifica rigorosa al limite del masochismo, come potrebbe essere una prova delle procedure antincendio che ci facesse restare in pigiama, al gelo e sotto la pioggia, per un’intera notte – anzi, per parecchi mesi. Non ci fu un’insurrezione, fra le ricercatrici e i ricercatori della collaborazione? «No, perché siamo consapevoli che si tratta d’una procedura estremamente utile, soprattutto nel nostro caso: permette di testare procedure di analisi dati estremamente complicate. Poi non dimentichiamo che si parla di rilevazione diretta di onde gravitazionali: qualcosa di davvero importante, che confermerebbe dopo cento anni le predizioni di Einstein e aprirebbe un nuovo modo d’osservare l’universo. Quindi bisogna essere certi di avere rivelato veramente un’onda gravitazionale. Queste procedure servono proprio a questo. E devo dire che anche il mondo astronomico lo ha capito», garantisce Branchesi.

Già, perché a essere investiti dalle conseguenze di un’eventuale blind injection non sarebbero solo i fisici di LIGO-Virgo ma anche i tanti astronomi della collaborazione, fra i quali molti dell’INAF. «Nell’aprile del 2014, INAF ha firmato un accordo grazie al quale, quando un possibile segnale gravitazionale viene rivelato dagli interferometri di LIGO e Virgo, i ricercatori di INAF vengono avvisati e hanno accesso ai dati sulla stima della posizione in cielo da cui proviene l’eventuale onda gravitazionale. Su questa base si è avviato il progetto INAF Gravitational Wave Astronomy with the first detections of adLIGO and adVIRGO experiments», ricorda il principal investigator del progetto stesso,Enzo Brocato, dell’INAF Osservatorio Astronomico di Roma.

«In caso di “alert” il nostro team INAF», spiega Brocato, «che lavora H24 (ed è composto da ricercatori di Napoli, Roma, Pisa, Urbino, Bologna, Padova e Milano), è in grado di recepire l’informazione e attivare le osservazioni ai telescopi, primo fra tutti il VST, che è in grado di ottenere rapidamente immagini profonde e dettagliate su un campo di 1 grado quadrato.  Nel caso in cui questo telescopio, o altri di gruppi con cui collaboriamo, individuino degli oggetti (non noti) che abbiano variato la loro luminosità in modo significativo nelle ultime ore/giorni, siamo pronti ad attivare i telescopi della classe 4/8 metri e ottenere gli spettri per caratterizzarne la natura ed eliminare i tanti ‘falsi’ candidati che ci si aspetta di trovare in un’area di cielo cosi vasta. Nel caso venisse identificato un candidato importante, si seguirebbe la sua evoluzione in tutte le bande elettromagnetiche, per ricavare tutti i dati possibili per studiare la fisica dell’evento combinando le misure gravitazionali ed elettromagnetiche».

Ma anche questo imponente dispiegamento di forze, rapidissimo e su scala globale, potrebbe venire innescato da una blind injection? Ebbene sì, conferma Brocato: «Naturalmente, nel siglare l’accordo con la collaborazione LIGO/Virgo se ne accettano le condizioni. Dunque, anche quella della blind injection, che garantisce l’efficienza e l’affidabilità dell’apparato sperimentale e dei relativi canali di analisi dati. Questa procedura non dovrebbe sorprendere», osserva Brocato, «perché è utilizzata in diversi settori scientifici. Nel nostro caso, l’attivazione degli alerts avviene nel giro di poche ore dall’eventuale rivelazione dell’onda gravitazionale e dunque, come i colleghi di LIGO/Virgo, tutta la comunità internazionale degli astrofisici che ha siglato l’accordo non può sapere se si tratta o meno di una blind injection».

Voci infondate, vere onde gravitazionali o il ritorno del Big Dog? Al momento non possiamo fare altro che attendere.

Per saperne di più:

Un nuovo record per Juno

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Mai nessuna sonda alimentata a pannelli solari si era avventurata così lontano dal Sole come la sonda americana Juno, in rotta verso Giove, che si è aggiudicata il primato alle 20 ora italiana di ieri, 13 gennaio 2015. La sonda si trova attualmente a 793 milioni di chilometri dalla nostra stella, avendo appena superato la massima distanza dal Sole raggiunta ad Ottobre 2012 dalla sonda Rosetta, che deteneva il record prima di Juno.

“L’essenza di Juno è spingere i limiti della tecnologia per aiutarci a risalire alle nostre origini,” spiega Scott Bolton dell’SwRI. “Useremo ogni tecnica conosciuta per penetrare attraverso le nubi di Giove e rivelare i segreti sull’origine del sistema solare. Mi sembra giusto che sia il Sole a permetterci di comprendere l’origine di Giove e degli altri pianeti.”

Decollata nel 2011, Juno è stata progettata per andare dove nessuna sonda a pannelli solari si era mai spinta. La sonda è alimentata da tre pannelli solari di silicio e arseniuro di gallio lunghi 9 metri l’uno, per un totale di 18698 celle solari e 24 metri quadri di superficie.

“Giove è cinque volte più lontano dal Sole della Terra, e la luce solare che lo bagna è 25 volte meno potente,” spiega Rick Nybakken della NASA. “Anche se i nostri massicci pannelli solari genereranno solo 500 W presso Giove, Juno è stata progettata per essere molto efficiente, e 500 W saranno più che sufficienti.”

Nella storia dell’esplorazione spaziale, solo altre otto sonde oltre a Juno – tutte alimentate a energia nucleare – si sono spinte fino all’altezza dell’orbita di Giove. Nel corso della sua missione di 16 mesi, la massima distanza di Juno dal Sole sarà di circa 832 milioni di chilometri.

“È bello avere già un record,” prosegue Bolton, “ma il meglio deve ancora venire. Ci stiamo avventurando così lontano per un motivo – comprendere il più grande mondo nel sistema solare e capire da dove veniamo.”

Juno raggiungerà Giove il 5 Luglio ora italiana, diventando la prima sonda a inserirsi in un’orbita polare attorno al gigante gassoso. La manovra di inserimento durerà poco più di mezz’ora e permetterà alla sonda statunitense di calarsi in un’orbita preliminare estremamente ellittica. Dopo una manovra di correzione, il 19 Ottobre Juno riaccenderà per l’ultima volta il suo motore principale, un Leros 1b, e si calerà nella prima delle sue 33 orbite scientifiche, passando a meno di 5000 chilometri dalle nubi di Giove ogni 14 giorni.

Nell’arco della sua missione, Juno studierà l’ambiente magnetico, il campo gravitazionale, la struttura interna, le aurore e l’atmosfera di Giove.

Una bella infografica con tutti i risultati conseguiti ad oggi dalle sonde alimentate a energia solare. Cliccare l'immagine per aprirla alla massima risoluzione. NASA/JPL-Caltech

Nuovi dettagli dei crateri di Cerere dall’ultima orbita di Dawn

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La sonda Dawn ha trasmesso nuove foto dalla sua ultima orbita intorno a Cerere, circa 385 chilometri al di sopra della superficie del pianeta nano. Le immagini, scattate tra il 19 e il 23 Dicembre 2015, rivelano sempre più dettagli nei crateri, nelle montagne e nelle pianure costellate di cicatrici da impatto.

Il fondale del cratere Dantu. Nella prima foto, il cratere Kupalo. Credits: NASA/JPL-Caltech/UCLA/MPS/DLR/IDA

Una delle immagini ritrae il cratere Kupalo, uno dei più recenti tra quelli studiati finora da Dawn, fotografato a una risoluzione di 35 metri per pixel. Lungo i bordi del cratere si notano striature di materiale chiaro che gli scienziati sospettano essere sale. Sarà interessante capire se vi è o meno un collegamento tra queste striature chiare e i famosi puntini bianchi all’interno del cratere Occator. Kupalo misura 26 chilometri di diametro e si trova in prossimità del tropico australe.

“Questo cratere e i suoi recenti depositi saranno un ottimo primo bersaglio per il team, mentre Dawn continua a esplorare Cerere nella sua fase finale di mappatura,” spiega Paul Schenk del Lunar and Planetary Institute.

Un cratere a ovest di Dantu. Credits: NASA/JPL-Caltech/UCLA/MPS/DLR/IDA

La Framing Camera, l’occhio robotico di Dawn, ha ripreso anche una rete di fratture che solcano il fondale del cratere Dantu, largo 126 chilometri. Un’ipotesi preliminare avanzata dagli scienziati è che le fratture si siano formate in seguito al raffreddamento post-impatto o a un rialzamento del terreno.

Un altro cratere largo 32 chilometri e situato poco più a ovest di Dantu è invece costellato di scarpate e creste curvilinee, simili a quelle osservate nel cratere Rheasilvia sull’asteroide Vesta, esplorato proprio da Dawn tra il 2011 e il 2012. Si pensa che queste strutture geologiche abbiano avuto origine dal parziale collasso del cratere durante la sua formazione.

Il cratere Messor, largo 40 km. Credits: NASA/JPL-Caltech/UCLA/MPS/DLR/IDA

Mentre la Framing Camera continua a scrutare la superficie di Cerere, gli altri strumenti a bordo di Dawn hanno acquisito la priorità scientifica. Il rilevatore GRaND, in particolare, sta mappando la distribuzione degli elementi sulla superficie di Cerere, rivelando importanti tasselli del puzzle dell’evoluzione del pianeta nano. Lo spettrometro sta invece analizzando la superficie a varie lunghezze d’onda nel visibile e nell’infrarosso.

La fine della missione primaria è prevista per il 30 Giugno 2016. La sonda resterà nella sua orbita attuale per tutta la durata della missione, e oltre. In questo momento, l’unica risorsa che sta incominciando a scarseggiare è l’idrazina, diventata indispensabile per il controllo dell’assetto dopo il fallimento delle ruote di reazione.

“Quando abbiamo lasciato Vesta alla volta di Cerere, ci aspettavamo nuove sorprese dalla nostra nuova destinazione. Cerere non ci ha delusi,” commenta Chris Russell, a capo della missione. “Ovunque guardiamo, vediamo incredibili formazioni geologiche che testimoniano il carattere unico di questo sorprendente mondo.”

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Una rara congiunzione da non perdere: Venere Saturno

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Osservando i due oggetti con un telescopio si riuscirà ad apprezzarne l’aspetto reale (Venere in fase e Saturno con anelli e satelliti) mantenendoli in un campo di una decina di primi d’arco. L'immagine qui sopra rappresenta la visuale attraverso l'oculare del telescopio. Cliccare l'immagine per ingrandirla.

Due giorni dopo il verificarsi della congiunzione a triangolo, grazie al suo veloce moto apparente, Venere raggiungerà Saturno, avvicinandolo fino a una distanza di circa 5′.

Questa congiunzione è storicamente interessante in quanto sarà la più stretta che si sia potuta osservare dall’Italia da almeno 130 anni a questa parte. Tutte le altre verificatesi nel corso di questi anni, più o meno strette, si sono infatti verificate sotto l’orizzonte o con il cielo troppo chiaro.
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L’esplorazione del Sistema solare nel 2016

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Abbiamo dato l’addio a un anno davvero sensazionale per l’esplorazione spaziale.

Abbiamo effettuato la prima ricognizione di un pianeta nano, con l’inserimento orbitale della sonda Dawn attorno a Cerere. Ci siamo goduti, seppur di sfuggita, i panorami ghiacciati di Plutone, l’ultimo dei pianeti classici ad essere rimasto inesplorato, grazie a New Horizons. Abbiamo trovato tracce di acqua liquida sulla superficie marziana con MRO, abbiamo scortato una cometa attraverso il suo perielio con Rosetta, abbiamo iniziato a far luce sui meccanismi della perdita atmosferica di Marte con MAVEN, ci siamo disintegrati nell’atmosfera di Venere con Venus Express e poi siamo tornati in orbita con Akatsuki, ci siamo schiantati contro la superficie di Mercurio con MESSENGER, abbiamo assaggiato le acque dell’oceano alieno che si nasconde sotto la crosta ghiacciata di Encelado con Cassini, abbiamo scoperto nuovi pianeti abitabili oltre i confini del nostro sistema solare con Kepler, abbiamo preparato il terreno per la propulsione a raggi solari con LightSail, e molto altro.

Per fortuna, il 2016 promette di essere un anno altrettanto importante per l’esplorazione del sistema solare: ecco tutti gli eventi spaziali dei prossimi 365 giorni da non perdersi, pianeta dopo pianeta.

Mercurio

Purtroppo, il pianeta più interno del sistema solare rimarrà da solo per tutto il 2016. Il lancio della missione euro-giapponese BepiColombo, inizialmente previsto per Luglio 2016, è stato rimandato a Gennaio 2017. L’arrivo delle due sonde a destinazione è invece programmato per l’inizio del 2024, quindi non c’è fretta.

Venere

Per tutto il 2016, Venere potrà godersi la compagnia della sonda giapponese Akatsuki, che recentemente ha avuto successo nel suo secondo e disperato tentativo di inserimento orbitale. Il 26 Marzo, la sonda abbasserà la sua orbita e potrà iniziare a raccogliere i dati previsti, concentrandosi soprattutto sulle dinamiche della complessa atmosfera venusiana.

Luna

Nessuna missione lunare è prevista per il 2016. Tuttavia, la sonda americana Lunar Reconnaissance Orbiter continuerà a raccogliere dati. La missione era stata cancellata dalla Casa Bianca ma è stata salvata all’ultimo minuto dal Congresso.

Marte

La flotta di sonde già in orbita e sulla superficie marziana che continueranno a esplorare il Pianeta Rosso per tutto il 2016 – in orbita, le americane MRO, MAVEN e Mars Odyssey, l’europea Mars Express e l’indiana Mars Orbiter Mission; sulla superficie, i rover americani Curiosity e Opportunity – sarà raggiunta dalle prime due sonde del programma euro-russo ExoMars. Il Trace Gas Orbiter (TGO) e il modulo sperimentale Schiaparelli partiranno alla volta di Marte in cima a un razzo Proton nella finestra di lancio tra il 14 e il 25 Marzo 2016. Le due sonde, che hanno raggiunto il sito di lancio pochi giorni fa, raggiungeranno Marte a Ottobre, concludendo una crociera interplanetaria di sette mesi. Schiaparelli tenterà uno storico atterraggio in Meridiani Planum il 19 Ottobre 2016. Il Trace Gas Orbiter invece si inserirà in un’orbita preliminare e, tramite una serie di manovre di aerofrenaggio, inizierà la sua campagna scientifica a Dicembre 2017. Con l’arrivo di TGO e Schiaparelli (che purtroppo opererà sulla superficie marziana solo tre o quattro giorni), il numero delle missioni attive sul Pianeta Rosso salirà a nove — un record.

Asteroidi

La sonda giapponese Hayabusa 2, che recentemente ha eseguito con successo una manovra di fionda gravitazionale con la Terra, continuerà il suo cammino verso l’asteroide Ryugu. Hayabusa raggiungerà Ryugu nel 2018 e farà rientro sulla Terra tra il il 2020 e il 2021 con dei campioni prelevati dall’asteroide. Tra il 3 Settembre e il 12 Ottobre 2016, un’altra sonda decollerà su un viaggio di andata e ritorno verso un asteroide: si tratta dell’americana OSIRIS-REx, che raggiungerà l’asteroide Bennu nel 2018 e rientrerà sulla Terra nel 2023. Poche settimane fa, la sonda della NASA ha ricevuto il suo ultimo strumento.

Comete

Il 2016 vedrà la fine di una delle più straordinarie missioni spaziali di sempre: la sonda europea Rosetta, che sta scortando il nucleo della cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko nel suo viaggio in giro per il sistema solare già da un anno e mezzo, continuerà a risalire a distanze sempre più lontane dal Sole, dove i suoi pannelli solari avranno sempre più difficoltà a generare energia sufficiente ad alimentare i sistemi vitali. Proprio per questo, a Settembre 2016 la sonda concluderà la propria missione appoggiandosi sul nucleo della cometa, facendo così compagnia al semivivo robottino Philae. Conoscendo Rosetta, però, ci aspettano ancora molte altre sorprese scientifiche prima della fine della missione!

Giove

Il 2016 sarà l’anno di Giove: il re dei pianeti verrà visitato dalla sonda americana Juno, che si inserirà in orbita nella notte tra il 4 e il 5 Luglio 2016. Juno sarà la prima sonda alimentata a pannelli solari a esplorare Giove, e la prima a inserirsi in un’orbita polare. Juno, che in questo momento sta proseguendo la sua crociera interplanetaria senza difficoltà, si concentrerà in particolare sulla struttura interna di Giove, indispensabile per ricostruire la formazione e l’evoluzione dell’intero sistema solare, e sulla magnetosfera del gigante gassoso.

Saturno

Come sempre, il gigante con gli anelli potrà godersi la compagnia della sonda Cassini. La missione, che terminerà nel 2017, continuerà ad aumentare gradualmente l’inclinazione della sua orbita, portandosi sempre più al di sopra dei poli di Saturno. A metà anno, poi, inizierà il gran finale della missione: la sonda si tufferà attraverso gli anelli interni di Saturno ben 22 volte – una manovra rischiosissima, che però gli ingegneri sono disposti a compiere vista l’imminente fine della missione. Ogni anno, Cassini ci regala incredibili sorprese da Saturno e dalle sue esotiche lune, ma il 2016 promette un tocco di azione in più.

Urano e Nettuno

Purtroppo, i due giganti ghiacciati del sistema solare resteranno inesplorati anche nel 2016.

Plutone

La sonda New Horizons, che ha sfiorato Plutone a Luglio di quest’anno, è già più di 200 milioni di chilometri alle spalle del pianeta nano, ormai in rotta verso la sua seconda destinazione, un piccolo KBO che raggiungerà nel 2019. Tuttavia, la sonda continuerà a esplorare i suoi dintorni e soprattutto a trasmettere i dati raccolti durante l’incontro con Plutone. Con ancora più della metà dei dati custoditi gelosamente a bordo del computer di New Horizons e con la maggior parte di quelli già arrivati ancora da analizzare, l’esplorazione di Plutone continuerà senza sosta per tutto l’anno. La missione primaria di New Horizons terminerà a fine 2016, ma gli scienziati e gli ingegneri del progetto chiederanno alla NASA di estendere la missione per esplorare anche la seconda destinazione.

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Aperitivo con le stelle 2 – Trieste

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Parte il secondo ciclo di appuntamenti della serie Aperitivo con le Stelle a Trieste, organizzati dal Circolo Culturale Astrofili Trieste sotto la coordinazione di Laura Pulvirenti.

In “APERITIVO CON LE STELLE 2” ci saranno numerose novità, prima tra tutte tra i relatori, oltre ai soci del Circolo quest’anno avremo numerosi astrofisici di fama.
Il primo di questi nuovi appuntamenti, che si terrà Sabato 9 Gennaio p.v., avrà come relatore Mauro Messerotti con “Tempeste spaziali e società: nuovi aspetti”, in cui l’astrofisico triestino relazionerà sulle interazioni dinamiche tra Sole e Terra esponendo, tra l’altro, alcune importanti novità in questo campo di studio.

Altre novità presenti in questa seconda edizione comprendono:

  • > mostra fotografica “RITRATTI DEL COSMO”, di David Kralj;
  • > esposizione di quadri surreali “SPACE – ART”, di Adriano Janezic;
  • > esposizione di modellini inerenti l’Astronautica, di Giovanni Chelleri;
  • > “Accenno alla radioastronomia amatoriale”, con materiale audio e video esplicativi da parte di Franco Tedeschi;
  • > “Viaggio nel cielo stellato con il Planetario”, di Stefano Schirinzi
Vi aspettiamo nell‘accogliente atmosfera dell’Hotel NH TRIESTE (in Corso Cavour 7).

aperitivoconlestelle@libero.it

Congiunzione Luna Venere e Saturno

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La mattina del 7 gennaio, sempre alle ore 6:00, una sottilissima falce di Luna calante sipresenterà sull’orizzonte sudest in congiunzione con Saturno e Venere, poco alla sinistra dello Scorpione e della sua brillante Antares.

I tre oggetti, mediamente alti una decina di gradi, formeranno un triangolo isoscele con il vertice in basso. Venere disterà da Saturno un paio di gradi, e dalla Luna poco meno di quattro.

Uno spettacolo davvero mozzafiato, specialmente in presenza di un cielo cristallino come solo il mese digennaio sa di solito offrire.

Caricate le vostre immagini su Photocoelum e potreste vederle pubblicate sul prossimo numero della rivista!
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Le Quadrantidi

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Ogni inizio anno è caratterizzato dalmanifestarsi più o meno discreto dello sciamedelle Quadrantidi, il cui nome deriva dalladimenticata costellazione del QuadranteMurale (introdotta da Lalande nel 1795 eabolita nel 1922) che un tempo occupava laregione situata nella parte nordorientale di Boote (dove quindi è situato il radiante).
Le Quadrantidi hanno in genere una velocità dicirca 40 km/s (piuttosto lente se paragonatealle Perseidi, capaci di sfrecciare a più di 70km/s), e le tracce, di colore prevalentementeblu, sono discretamente brillanti (anche semolte sono telescopiche). L’attività sarà ditutto rispetto: mediamente lo ZHR è di 70, manel recente passato ha toccato anche punte di200.
Il massimo dell’attività, favorito anchedall’assenza del disturbo lunare, si avràquest’anno nelle prime ore del 4 gennaio. Aquell’ora il radiante, che è circumpolare, saràvisibile a nordest, alto una trentina di gradi.

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ASTROINIZIATIVE UAI

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Tutti i primi lunedì del mese:

UNA COSTELLAZIONE SOPRA DI NOI

In diretta web con il Telescopio Remoto UAI Skylive dalle ore 21:30 alle 22:30, ovviamente tutto completamente gratuito. Un viaggio deep-sky in diretta web con il Telescopio Remoto UAI – tele #2 ASTRA Telescopi Remoti. Osservazioni con approfondimenti dal vivo ogni mese su una costellazione del periodo. Basta un collegamento internet, anche lento. Con la voce del Vicepresidente UAI, Giorgio Bianciardi telescopioremoto.uai.ituai.it

Congiunzioni falce di Luna e pianeti

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La mattina del 3 gennaio guardando verso sud-sudest ci sarà la possibilità di assistere ad un autentico spiegamento di oggetti planetari lungo l’eclittica. Verso le 6:00, ora per la quale è statacostruita l’illustrazione, molto bassi sull’orizzonte sudest (rispettivamente +6° e +11°) ci saranno Saturno e Venere, situati nello Scorpione; più sulla destra, nella Vergine, spiccherà Marte, alto già+35°; e ancora più su (a +50°) e a sud, nei pressi della stella stella beta Virginis, Giove chiuderà la lunga teoria.
Ad impreziosire lo scenario, ci sarà anche la presenza di una falce di Luna sempre piùsottile, che dal 3 al 7 gennaio percorrerà l’eclittica dando luogo a svariate congiunzioni, la piùspettacolare delle quali sarà quella “a triangolo” con Venere e Saturno del giorno 7.

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Congiunzione di Capodanno: Luna e Giove

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La prima congiunzione celeste dell’anno, per chi avrà la possibilità di affacciarsi a una terrazza subito dopo i brindisi per il nuovo anno, sarà osservabile verso est, dovemolto bassi sull’orizzonte (in media +10°) e distanziati di 4°, Luna e Giove sorgeranno l’uno sopral’altra nei pressi della stella beta Virginis (mag. +3,6). Il nostro satellite si presenterà all’ultimoquarto, mentre Giove brillerà di mag. -1,9.

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Coelum si trasforma: diventa gratuito e per tutti, da subito!

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Clicca e leggi direttamente Coelum su qualsiasi dispositivo! (Se hai già installato le app di Magzter, potrai continuare a leggerlo anche li!).

A partire da questa uscita speciale, n.196 di gennaio 2016, sarà dunque possibile sfogliare Coelum leggendo, scaricando o stampando liberamente le nuove uscite della rivista senza alcun costo, on-line su numerose piattaforme e anche in pdf!

Ma il nostro progetto non si limita ad un semplice free-press a tema, andrà invece a comporsi un’insieme di iniziative atte a rafforzare e aumentare l’interesse attivo degli Italiani per l’astronomia, supportando e organizzando eventi e lanciando un network esteso tra tutti i soggetti e le persone che desiderano perseguire il medesimo obiettivo.

Molti ci chiedono il perchè di tale cambiamento, la ragione è nell’evoluzione che il mondo dell’informazione ha avuto e nella continua trasformazione che lo caratterizza. Come molti sanno Coelum è stato il primo magazine a tema disponibile anche in digitale, ed è anche stato il primo ad essere gratuitamente disponibile in tale formato per gli abbonati all’edizione cartacea.

Da sempre la Redazione di Coelum ha voluto distinguersi per innovazione, qualità e selezione critica dei contenuti. Da sempre la linea editoriale è stata ferma nel voler rendere Coelum accessibile a quanti più appassionati possibile, mantenendo costantemente il prezzo più basso del mercato e invariato per oltre 12 anni.

Putroppo la crisi degli ultimi 6 anni e la crescente indifferenza per le materie scientifiche e per gli approfondimenti critici hanno reso più arduo il nostro compito, costringendoci a rinunciare alla distribuzione in edicola e a contenere i costi quanto più possibile. Nonostante i nostri sforzi ci siamo trovati di fronte alla necessità di aumentare il prezzo e di ridurre ulteriormente i costi, rischiando quindi di dover allineare Coelum a standard di mercato che palesemente ne avrebbero minato le fondamenta.

Per questi motivi abbiamo raggiunto la decisione di fare un passo importante, nuovo e in parte incerto: rendere Coelum gratuito e accessibile a tutti, rivolgendoci non più esclusivamente a pochi “fedelissimi” ma a tutti i nostri “follower” che ad oggi contano più di 25.000 appassionati di astronomia. Visti i numeri, forse un po’ cinicamente, ci siamo voluti investire di un compito decisamente arduo: quello di supportare il lavoro di tutti gli appassionati, dei Gruppi Astrofili, delle Associazioni, delle Università, dei Professionisti e degli Enti per rendere sempre più diffusa la passione per il cielo, sempre più profonda la sua conoscenza da parte di quante più persone possibile, e sempre più ampio il numero di …nasi all’insù!

Coelum manterrà la qualità dei contenuti e il proprio taglio critico e imparziale, cercando di dare sempre qualcosa in più rispetto all’informazione altrimenti disponibile su altre riviste o su Internet.

Beninteso, la decisione di lasciare la carta è stata per noi un duro colpo: non è facile lasciare alle spalle il profumo dell’edizione stampata, l’emozione di controllare le prime copie in tipografia, come anche le litigate per la taratura dei colori! Ci mancherà la vecchia carta, grazie alla quale le nottate spese ad ingobbirsi davanti ai computer si trasformavano in qualcosa di reale, palpabile, da sfogliare e apprezzare sognando cieli limpidi e osservazioni entusiasmanti. Quella che può ad alcuni apparire come una scelta dettata solo da ragioni imprenditoriali è al contrario una decisione sì ben ponderata, ma guidata soprattutto dal cuore: la passione per il cielo e il desiderio di far rinascere l’interesse per l’Astronomia in un mondo sempre più guidato da sterili informazioni di consumo.

Come i nostri più affezionati lettori sanno, Coelum si è sempre contraddistinta per la qualità dei contenuti e per il proprio taglio critico e imparziale, cercando di dare sempre qualcosa in più rispetto all’informazione altrimenti disponibile su altre riviste o su Internet. Così proseguiremo, ma utilizzando un canale molto più potente e diffuso, oramai, rispetto alla carta stampata: Internet.

Il percorso che abbiamo intrapreso, per la Redazione tutt’altro che semplice, ci conduce ora a proporre ancora a tutti gli appassionati di Astronomia di voler credere in questo progetto… questa volta senza chiedere nulla in cambio, se non di leggerci e seguirci, partecipare alle iniziative e condividere foto, esperienze, proposte e idee.

L’appello che rivolgiamo a tutti quanti ancora provano meraviglia nel trovarsi di fronte all’infinita bellezza di un cielo stellato è semplicemente questo: seguiteci, leggeteci, usateci per diffondere il vostro contributo alla divulgazione e condivisione di questa nostra passione per l’Astronomia.

il Team di Coelum Astronomia

Leggi anche l’editoriale del numero 196


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La duna Namib protagonista su Marte

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Curiosity MastCam 1197 b/n Credit: NASA/JPL-Caltech - Processing: Elisabetta Bonora & Marco Faccin / aliveuniverse.today
Curiosity: la duna Namib in un panorama 360° del sol 1197 (cliccare per ingrandire). Credit: NASA/JPL-Caltech - Processing: Elisabetta Bonora & Marco Faccin / aliveuniverse.today
Fa una certa impressione a vederla ma è diventata la star del momento nelle foto marziane inviate dal rover della NASA Curiosity. Si tratta della grande duna di sabbia chiamata Namib, nel campo di dune attive “Bagnold”, alle pendici del Monte Sharp.

Le immagini orbitali ad alta risoluzione riprese con la fotocamera HiRISE a bordo della sonda Mars Reconnaissance Orbiter (MRO) hanno mostrato che queste dune si spostano di circa un metro ogni anno terrestre e che la loro composizione non è uniforme.

A differenza delle semplici increspature, queste mostrano un versante sottovento piuttosto ripido e, invece di essere ricoperte da polvere chiara, sono scure a causa di una composizione basaltica, a base di olivina e cristalli di pirosseno. Gli scienziati usano il loro movimento per studiare la circolazione dei venti all’interno del cratere e mettere a punto i modelli meteorologici. Questa è la prima volta in cui tale fenomeno viene studiato in situ su un pianeta diverso dalla Terra.

Il rover ha dapprima eseguito alcuni test di mobilità sulla prima sabbia incontrata, raccogliendo molte foto ravvicinate con il MAHLI.

Curiosity MAHLI sol 1182. Credit: NASA/JPL-Caltech - Processing: Elisabetta Bonora & Marco Faccin / aliveuniverse.today

Le immagini mostrano una grande varietà compositiva dei grani, per dimensioni, forme e colori. Alcuni mostrano dei piccoli fori, altri sono quasi trasparenti ma potete divertirvi voi stessi ad osservare i dettagli offerti da queste due immagini appositamente elaborate per differenziare i materiali.

Cliccate per vedere le immagini alla massima risoluzione, uno spettacolo! Curiosity MAHLI sol 1184.

Oltre all’interesse scientifico, le dune del campo Bagnold stanno regalando paesaggi unici del cratere Gale.
Namib è una duna davvero impressionante e stupefacente allo stesso tempo.
Qui sotto un dettaglio del fronte più ripido che si staglia davanti a Curiosity, ripreso con la Mastcam durante il sol 1197, reso monocromatico. L’immagine in bianco e nero aiuta a focalizzare le molteplici caratteristiche che disegnano il muro di sabbia.

Curiosity MastCam 1197 b/n Credit: NASA/JPL-Caltech - Processing: Elisabetta Bonora & Marco Faccin / aliveuniverse.today
Curiosity Mastcam sol 1197: Namib panorama 360 Credit: NASA/JPL-Caltech - Processing: Elisabetta Bonora & Marco Faccin / aliveuniverse.today

Questa composizione fa parte del grande panorama 360 in apertura, in cui Curiosity si è scattato quasi un selfie entrando nella scena (generalmente gli autoritratti completi vengono presi con il MAHLI, la fotocamera posta sul braccio robotico del rover. L’ultimo risalte al foro su Big Sky.)
L’immagine a piena risoluzione è disponibile per il download nella nostra gallery.

Qui a destra una versione circolare dello stesso mosaico (un’altra ancora, ottimizzata dal punto di vista del rover, era stata protagonista nella nostra immagine del giorno del 23 dicembre).

© Copyright Alive Universe

Dawn e Cerere: mai così vicini

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Nell’immagine, raccolta dalla sonda Dawn della NASA il 10 dicembre scorso, una zona alle medie latitudini sud del pianeta nano Cerere, nei dintorni della regione denominata Gerber Catena. Molte delle depressioni e scanalature presenti su Cerere si sono probabilmente formate a seguito di impatti, ma alcuni sembrano avere origine tettonica. Al momento dell’acquisizione di questa immagine, la sonda Dawn si trovava sulla sua orbita di bassa quota, a una distanza approssimativa da Cerere di 385 km. Crediti: NASA/JPL-Caltech/UCLA/MPS/DLR/IDA
Nell’immagine, raccolta dalla sonda Dawn della NASA il 10 dicembre scorso, una zona alle medie latitudini sud del pianeta nano Cerere, nei dintorni della regione denominata Gerber Catena. Molte delle depressioni e scanalature presenti su Cerere si sono probabilmente formate a seguito di impatti, ma alcuni sembrano avere origine tettonica. Al momento dell’acquisizione di questa immagine, la sonda Dawn si trovava sulla sua orbita di bassa quota, a una distanza approssimativa da Cerere di 385 km. Crediti: NASA/JPL-Caltech/UCLA/MPS/DLR/IDA

La sonda Dawn della NASA si trova in questi giorni lungo la sua orbita più bassa attorno al pianeta nano Cerere, e grazie a questo punto di vista privilegiato, ci restituisce delle immagini spettacolari. Il nuovo set di dati fornisce numerosi dettagli della superficie, piena di crateri e fratture.

Il 10 dicembre scorso Dawn ha raccolto una serie di immagini del polo sud di Cerere da una quota approssimativa di 380 km, la più bassa mai affrontata. La sonda rimarrà a questa altitudine per il resto della sua missione, e anche quando il tempo nominale della missione sarà terminato. La risoluzione delle nuove immagini è di circa 35 metri per pixel.

Tra le visuali più sorprendenti spicca senza dubbio una serie di crateri chiamata Gerber Catena, che si trova a ovest del grande cratereUrvara. Depressioni e fratture sono caratteristiche molto comuni su corpi planetari di grandi dimensioni, e sono causate da contrazioni e sollecitazioni varie della crosta, a causa di urti o formazione di grandi montagne, come ad esempio il Monte Olimpo su Marte. Le fratture trovate lungo tutta la superficie di Cerere indicano che potrebbero essersi verificati processi simili, nonostante le sue modeste dimensioni (il diametro di Cerere è pari a circa 940 km). Molte delle avvallature e dei canali presenti su Cerere si sono probabilmente formati a seguito di impatti, ma alcuni sembrano di origine tettonica, ovvero frutto di tensioni interne che hanno comportato la rottura della crosta.

Questa immagine è stata scattata dalla sonda Dawn della Nasa il 10 dicembre scorso e mostra una regione a sud del pianeta nano Cerere. La zona inquadrata si trova nelle vicinanze del cratere chiamato Samhain Catena, una catena in questo caso significa un gruppo di crateri o avvallamenti allineati e ravvicinati. Al momento dello scatto la sonda si trovava a circa 385 km dalla superficie di Cerere. Crediti: NASA/JPL-Caltech/UCLA/MPS/DLR/IDA

«Non abbiamo ancora capito perché le fratture presenti sulla superficie di Cerere siano così marcate, ma molto probabilmente sono legate alla struttura complessa della sua crosta», ha dichiarato Paul Schenk, membro del team scientifico di Dawn presso il Lunar and Planetary Institute di Houston.

Le immagini sono state raccolte nella fase di un test della camera di backup a bordo di Dawn. La camera primaria, che è sostanzialmente identica, ha iniziato la sua campagna di raccolta dati lungo questa orbita bassa solo il 16 dicembre. Entrambe le camere godono di ottima salute.

Anche gli altri strumenti a bordo di Dawn hanno iniziato un periodo di intensa osservazione, questo mese. Lo spettrometro nel visibile e nell’infrarosso (VIR, costruito grazie alla leadership scientifica dell’Istituto di Astrofisica e Planetologia Spazialidell’INAF) permetterà di individuare la composizione di Cerere osservando come la luce a diverse lunghezze d’onda viene riflessa dalla sua superficie. Anche il rivelatore di raggi gamma e neutroni è operativo e fornirà informazioni preziose circa le abbondanze di alcuni elementi sul pianeta nano.

Questa visuale su Cerere, raccolta dalla sonda Dawn della NASA il 10 dicembre scorso, mostra un’area nell’emisfero sud del pianeta nano. Le ombre allungate sono dovute al fatto che al momento dello scatto il Sole si trovava vicino all’orizzonte. La sonda ha scattato questa immagine quando si trovava a una distanza da Cerere di circa 385 km. Crediti: NASA/JPL-Caltech/UCLA/MPS/DLR/IDA

Nei primi giorni di dicembre i membri del team scientifico di Dawn hanno scoperto che il misterioso materiale brillante trovato al centro di alcuni imponenti crateri, come Occator, sembrerebbe essere correlato alla presenza di sale, e hanno proposto che si tratti di un particolare solfato di magnesio chiamatoesaidrite. Un altro team di scienziati ha scoperto che Cerere contiene ammoniaca. Siccome l’ammoniaca è abbondante nel sistema solare esterno, questa scoperta indica che Cerere potrebbe essersi formato nelle vicinanze di Nettuno e aver poi migrato verso l’interno, oppure potrebbe essersi formato sul posto, da materiale che era migrato da regioni esterne del sistema solare.

«Mentre raccogliamo dati su Cerere alla massima risoluzione possibile, continuiamo ad esaminare le nostre ipotesi e a fare scoperte sorprendenti su questo mondo misterioso», ha detto Chris Russell, principal investigator della missione Dawn, e ricercatore presso l’Università della California.

La SpaceX scrive la storia: il primo stadio del Falcon 9 rientra dopo il decollo

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A sinistra, la scia lasciata dall'ascesa del Falcon 9. A destra, le scie delle due accensioni del rientro del primo stadio.
A sinistra, la scia lasciata dall'ascesa del Falcon 9. A destra, le scie delle due accensioni del rientro del primo stadio.

La SpaceX ce l’ha fatta, nonostante a detta di molti fosse impossibile. La compagnia di Elon Musk ha scritto nuovamente la storia dell’esplorazione spaziale: dopo essere diventata con il proprio veicolo di rifornimento Dragon la prima agenzia privata a raggiungere la Stazione Spaziale Internazionale, la SpaceX è riuscita pochi minuti fa in qualcosa di straordinario e senza precedenti: riportare sulla terraferma il primo stadio di un razzo – il Falcon 9, che era decollato verso l’orbita terrestre meno di dieci minuti prima. Il successo della SpaceX è stato totale: dal lancio alla separazione degli 11 satelliti della Orbcomm, passando naturalmente per l’atterraggio del primo stadio, tutto è andato alla perfezione, nonostante la straordinaria tensione prima del lancio. Quello di oggi, infatti, è stato il primo volo della nuova versione del Falcon 9 (il Falcon 9-FT), il primo tentativo di rientro sulla terraferma, il primo tentativo di rientro mostrato in diretta televisiva e, soprattutto, il primo volo dopo il disastro di Giugno.

Rientro del Falcon 9 su terraferma!

Il filmato dello storico rientro sulla terraferma del primo stadio di un Falcon 9 — un evento che secondo molti esperti "ha cambiato tutto" nel settore dell'industria aerospaziale. Tutti i dettagli su questa storica missione: www.pollucenotizie.com/2015/12/22.html

Posted by Polluce Notizie on Lunedì 21 dicembre 2015

L’atterraggio del Falcon 9 di oggi potrebbe aver inaugurato una nuova era nell’esplorazione spaziale, un’era caratterizzata da veicoli almeno parzialmente riutilizzabili e da costi di lancio ridotti drasticamente. Non a caso, gli occhi di tutto il mondo dell’astronautica erano puntati su questo lancio, un lancio che altrimenti sarebbe rimasto piuttosto anonimo.

Il Falcon 9 è decollato alle 2:29 ora italiana di stamattina, all’inizio di una finestra di lancio di cinque minuti. A circa 10 minuti dal lancio, il primo stadio ha tentato un rientro senza precedenti sulla terraferma. I due tentativi di rientro effettuati in precedenza dalla SpaceX – entrambi risultati in esplosioni, ma con incoraggianti segnali di miglioramento – avevano visto il primo stadio tentare di atterrare su una chiatta robotica in mezzo all’Atlantico: mai prima d’ora la SpaceX aveva tentato di riportare un primo stadio usato sulla terraferma.

Nonostante tutto, lo storico tentativo di rientro è andato alla perfezione, con il Falcon 9 che si è adagiato sul suolo della Landing Zone 1 poco meno di dieci minuti dopo il decollo.

Rivivi tutte le fasi di quest storica impresa nell’articolo completo di  Polluce Notizie

EarthRise – Dalla Luna alla Terra!

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Quasi cinquanta anni fa venne catturata forse la più iconica foto di questo evento, il sorgere del nostro pianeta azzurro dall’orizzonte lunare. Lo scatto, raggiungibile qui, venne ripreso il 24 dicembre 1968 durante la missione Apollo 8 (la prima con equipaggio umano a circumnavigare la Luna) e testimoniava in modo inequivocabile la bellezza del nostro pianeta. Andando un po’ più indietro nel tempo, la prima foto in assoluto venne scattata dalla sonda automatica Lunar Orbiter 1, nel 1966, e potete trovarla qui.

In questa ultima foto, appena rilasciata dalla NASA, e scattata lo scorso 12 ottobre, possiamo ammirare senza fatica una delle meraviglie del cosmo: la nostra Terra sorgere dall’orizzonte lunare!
Naturalmente questa risoluzione non rende giustizia, quindi se vi recate a questo link, potrete apprezzarla (e scaricarla) in tutta la sua originale maestosità.
In primissimo e primo piano naturalmente abbiamo la nostra Luna, una vista che ci accompagna giorno dopo giorno per noi terrestri. Ma certamente questa angolazione è stata visibile solo agli astronauti, oppure alla sonda LRO – Lunar Reconaissance Orbiter, che dal 2009 continua a fornirci preziosissimi dati ed informazioni riguardo il nostro satellite naturale, oltre ad una miriade di foto.
In basso troviamo il cratere Compton, poco visibile dal nostro pianeta in quanto profondamente dentro quella che si definisce ‘zona delle librazioni’ (vedi nota in fondo), appartenente al lato lontano della Luna. Il cratere ha un diametro generoso, di circa 160 km) e possiede, come visibile dall’immagine, un complesso picco centrale, circondato da sistemi di rimae e di una zona concentrica formata da piccole colline.La sua esatta profondità non è nota, ma viene stimata nei dintorni dei 3 km; l’intero fondo è stato riempito dalla lava, che gli ha fornito una colorazione più scura rispetto ai suoi bordi, costellati di scarpate e terrazzamenti.
In alto, troviamo il nostro pianeta, con il continente africano in totale evidenza con la zona desertica del Sahara, del Sahel e della sottostante savana. E’ visibile anche la penisola arabica sulla destra, mentre oltre l’Oceano Atlantico al centro troviamo l’America meridionale. Verso nord invece, ecco il Mare Nostrum, il Mediterraneo, e la nostra Italia, parzialmente immersa nelle nubi come il resto del continente europeo
Ma come è stato possibile realizzare questa favolosa immagine? La composizione allegata qui sopra ci da una risposta.
La sonda LRO si trovava a circa 130 km di altezza sul cratere Compton, come illustrato, ed è stata ruotata di 67 gradi (in questa occasione) per avere una visuale completa del nostro pianeta. Inoltre, il tutto è stato pianificato per massimizzare la presenza dell’orizzonte lunare nell’inquadratura dello strumento LROC’s Narrow Angle Camera. Il tutto mentre la sonda viaggiava a circa 5700 km/h rispetto alla superficie lunare sottostante!
Quindi, si sono dovute integrare le riprese dello strumento Narrow Angle Camera (NAC), che scatta fotografie in alta risoluzione ma in toni di grigio (per una resa migliore dei dettagli) insieme alle informazioni sul colore della Terra acquisite dalla Wide Angle Camera (WAC). Quindi il primo provvede alla risoluzione, e il secondo al colore.
Il successivo problema da affrontare è stato avere sufficienti immagini della Terra per formare una vista con adeguata risoluzione, cosa che è stata risolta appunto in fase di acquisizione degli scatti (maggiori informazioni qui, in inglese). Il tutto per creare questa vista, reale, di due mondi così vicini e familiari tra loro.
Buone Osservazioni a Tutti!
Nota. La librazione è un movimento oscillante della Luna rispetto alla Terra, che ci permette di vedere qualche punto percentuale in più della sua superficie, arrivando come scritto, intorno al 59% del totale.
Questo fenomeno è causato dall’eccentricità orbitale della Luna, ovvero dal fatto che la sua orbita non è perfettamente circolare, ma in realtà ellittica. Quindi si muove più velocemente quando è vicina alla Terra (perigeo) e più lentamente quando è lontana (apogeo): il risultato è che solo il 41% della superficie è sempre visibile, e il 41% rimane sempre nascosto. Un 18% comprende la cosiddetta zona delle librazioni dove in differenti lunazioni possiamo vedere differenti oggetti sul suolo lunare.

C/2013 US10 Catalina: una piccola Cometa per l’Inverno!

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Fritz Helmut Hemmerich, dall'altezza dei 1800 metri sul livello del mare sull'isola di Tenerife (Canarie) ha realizzato questa splendida fotografia che mostra la cometa in tutta la sua affascinante e spettacolare figura.

Fritz Helmut Hemmerich, dall'altezza dei 1800 metri sul livello del mare sull'isola di Tenerife (Canarie) ha realizzato questa splendida fotografia che mostra la cometa in tutta la sua affascinante e spettacolare figura.

La cometa ha da poco passato il perielio, il punto della sua orbita più vicino al Sole, e proprio dopo questo transito ravvicinato si è inserita in una traiettoria iperbolica. Questo vuol dire che non tornerà mai più indietro nel Sistema Solare interno, e che andrà a perdersi nelle profondità dello spazio. Prima di essere spinta dalla Nube di Oort aveva un periodo orbitale di alcuni milioni di anni, e dopo una singola visita, sparirà dalla nostra vista per sempre.

La cometa C/2013 US10 Catalina ripresa da Rolando Ligustri il 17/12/2015 (www.astrobin.com/232615/0/).

Essendo stata riscaldata dal calore della nostra stella mostra due splendide code, una di ioni e una di polveri che si dirigono in direzioni differenti. Il coma centrale (la zona di gas vicina al nucleo cometario) appare di un colore blu-verdastro, prodotto dall’emissione dei gas CN e C2 mentre la coda di ioni mostra tinte bluastre, a testimonianza dell’emissione delle molecole di gas CO+, come è normale per comete che hanno appena effettuato il loro transito solare ravvicinato.

Passiamo quindi alle domande che tutti abbiamo: potremo osservarla? Dove e quando? E con cosa?

Potremo certamente osservarla, tuttavia non ad occhio nudo, in quanto la sua luminosità massima prevista (a meno di sorprese) potrà permetterne l’osservazione solo da cieli scuri e senza Luna, lontano dalle luci cittadine. Al momento è attorno alla quinta/sesta magnitudine, proprio al limite dell’osservazione ad occhio nudo. Conviene quindi attrezzarsi con binocoli (anche i classici 7×50 o 10×50) oppure con telescopi, dove maggiore sarà il diametro e più dettagli riusciremo a carpire.

Potrete utilizzare la mappa qui sopra (cliccate l’immagine per ingrandirla) per pianificare a dovere le vostre osservazioni. L’appuntamento sarà sempre prima dell’alba, all’orizzonte orientale (SE per la precisione).

La cometa C/2013 US10 (Catalina) ripresa da Damian Peach l'8 dicembre scorso (cliccare per ingrandire).

La cometa ha attraversato, nella prima metà del mese,  buona parte della costellazione della Vergine, per arrivare sul finire dell’anno in quella del Bootes. A parità di orario sarà sempre più alta nel cielo. Diventerà quindi sempre più immediato poterla rintracciare, dato che non sarà nascosta nelle luci dell’alba. L’aspetto che avrà sarà quello di una stella sfocata, oppure di un piccolo batuffolo di polvere sospeso nello spazio e circondato da stelle puntiformi. Anche se sarete alla vostra prima osservazione cometaria, non potrete mancarla, dato che il suo aspetto coglierà immediatamente l’attenzione.

Per concludere, un calendario con le prossime date salienti per la sua osservazione:

  • 24 dicembre – Entra nella costellazione del Bootes;
  • 1 gennaio – Transita a meno di un grado dalla luminosa Arcturus (Alpha Bootes);
  • 17 gennaio – Distanza minima dalla Terra 0.725 AU (112.3 milioni di km);
  • 1 febbraio – Probabilmente la magnitudine sarà scesa intorno ad un valore di +10, rendendo la sua osservazione possibile solo da chi possiede telescopi professionali.

Buone Osservazioni a Tutti!
Giuseppe Petricca – www.astronomiapraticapertutti.blogspot.it

Oltre il sogno: dal volo allo Spazio – Schio (VE)

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Il 18 dicembre 2015 prende il via a Schio (VI), presso lo spazio espositivo Lanificio Conte_SHED, la mostra “Oltre il sogno: dal volo allo spazio”, un percorso immersivo che conduce il visitatore-viaggiatore nel sogno dell’Uomo di volare, dai primi tentativi di volo alle ultimissime frontiere dell’esplorazione spaziale. La mostra è la prima espressione del progetto “Distretto della scienza e tecnologia”, nato per valorizzare un territorio con una ricca storia industriale e d’innovazione tecnologica ancora poco conosciuta e di assoluta eccezione nel panorama nazionale e internazionale. Un’occasione unica che coniuga sogno, visione imprenditoriale, innovazione tecnologica e scienza!

La mostra “Oltre il sogno: dal volo allo spazio”, ideata e organizzata da Pleiadi, è espressione della volontà del Comune di Schio
 e il raggruppamento Schio-Thiene di Confindustria Vicenza, e coinvolge un importante panel scientifico.

La mostra offre al visitatore, che diventa un vero e proprio viaggiatore trovandosi al check di un aeroporto, un’esperienza interattiva ed emozionale attraverso i grandi traguardi dell’Uomo in tema di volo e di esplorazione spaziale. Si parte da una dimensione storica e suggestiva che affonda le radici nel mito di Icaro, passando per Leonardo da Vinci fino ad arrivare alle mongolfiere, ai dirigibili e al primo vero volo dei fratelli Wright. La destinazione finale di questo viaggio è lo spazio, affrontato attraverso l’avanzamento tecnologico aerospaziale per arrivare alle attuali frontiere di conoscenza, che ci conducono infine “oltre il sogno”.

La mostra spiega i principi fisici alla base del volo e della razzistica, e dimostra in modo pratico l’evoluzione della conoscenza umana nel campo aeronautico e aerospaziale. Exhibit, macchine funzionanti, simulatori, pannelli esplicativi, modelli originali e documenti storici rendono comprensibile un tema altamente affascinante e interessante al grande pubblico, coinvolgendo tutti i visitatori, dai più esperti ai semplici appassionati, dai bambini alle persone mature. Una particolare attenzione è riservata al mondo scuola, con visite guidate e laboratori studiati per ogni ciclo scolastico, dall’infanzia alla secondaria di secondo grado.

La mostra si avvale del contributo di un comitato scientifico, formato da studiosi, scienziati, astronauti e piloti, e la collaborazione di importanti istituzioni. In questo contesto l’Aeronautica Militare con la Rete Nazionale dei Musei Aeronautici, di cui fanno parte il Museo Storico dell’Aeronautica militare, il Museo dell’Aeronautica Gianni Caproni, il Museo Francesco Baracca, il Parco e Museo del Volo – Volandia e il Museo Piana delle Orme, ha contribuito con importanti prestiti di reperti storici e con la consulenza scientifica per l’ambito aeronautico. Il settore aerospaziale è invece rappresentato, all’interno del comitato, dall’Agenzia Spaziale Italiana, dall’Istituto Nazionale di Astrofisica – Osservatorio Astronomico di Padova, da Thales Alenia Space, dal Centro di Ateneo di Studi e Attività Spaziali “Giuseppe Colombo” – Università degli Studi di Padova, da Genav a.s.d. e Officina stellare.

“Oltre il sogno: dal volo allo spazio”

dove: Schio (VI) – Lanificio Conte_SHED, via Pasubio 99

quando: dal 18 dicembre 2015 al 30 marzo 2016

orari per le scuole e i gruppi su prenotazione:
da martedì a venerdì: 9.00 – 15.00

orari di apertura al pubblico:
giorni feriali: 15.30 – 19.30
sabato, domenica e festivi (24 dicembre, dal 28 al 31 dicembre, dal 4 al 6 gennaio, dall’8 al 10 febbraio e dal 24 al 29 marzo): 10.00- 19.30

chiuso il lunedì non festivo, 25 dicembre e 1° gennaio

www.distrettoscienza.it

Trovata l’acqua mancante nei gioviani caldi

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i dieci esopianeti studiati da Hubble e Sptizer. Impressione artistica.
This image shows an artist’s impression of the ten hot Jupiter exoplanets studied by David Sing and his colleagues. From top left to to lower left these planets are WASP-12b, WASP-6b, WASP-31b, WASP-39b, HD 189733b, HAT-P-12b, WASP-17b, WASP-19b, HAT-P-1b and HD 209458b. The images are to scale with each other. HAT-P-12b, the smallest of them, is approximately the size of Jupiter, while WASP-17b, the largest planet in the sample, is almost twice the size. The planets are also depicted with a variety of different cloud properties. There is almost no information about the colours of the planets available, with the exception of HD 189733b, which became known as the blue planet (heic1312). The hottest planets within the sample are portrayed with a glowing night side. This effect is strongest on WASP-12b, the hottest exoplanet in the sample, but also visible on WASP-19b and WASP-17b. It is also known that several of the planets exhibit strong Rayleigh scattering. This effect causes the blue hue of the daytime sky and the reddening of the Sun at sunset on Earth. It is also visible as a blue edge on the planets WASP-6b, HD 189733b, HAT-P-12b, and HD 209458b. The wind patterns shown on these ten planets, which resemble the visible structures on Jupiter, are based on theoretical models.
i dieci esopianeti studiati da Hubble e Sptizer. Impressione artistica.
Un'impressione artistica dei 10 gioviani caldi studiati da David Sing e il suo gruppo. Da sinistra in alto: WASP-12b, WASP-6b, WASP-31b, WASP-39b, HD 189733b, HAT-P-12b, WASP-17b, WASP-19b, HAT-P-1b and HD 209458b. Le immagini rappresentano i pianeti in scala tra loro. Sono indicati di colori diversi, anche se in realtà non si conoscono quelli reali, ad eccezione di HD 189733b, noto anche come "blue planet" (heic1312). NASA, ESA, and D. Sing (University of Exeter)

Grazie ai telescopi spaziali Hubble e Spitzer della NASA, gli astronomi potrebbero essere riusciti a risolvere un importante mistero nel campo degli esopianeti.

Dei quasi duemila pianeta extrasolari conosciuti, circa seicento rientrano nella categoria dei cosiddetti gioviani caldi, ossia pianeti gassosi simili al nostro Giove in termini di massa ma con orbite ben più corte, in molti casi addirittura più di quella di Mercurio. La loro estrema vicinanza alle stelle madri li rende difficili oggetti di studio; tuttavia, quando finalmente gli scienziati sono riusciti a puntare l’occhio di Hubble verso le atmosfere di questi pianeti, ciò che hanno scoperto li ha lasciati piuttosto sorpresi. I dati preliminari, infatti, indicano che molti gioviani caldi contengono meno acqua di quanto previsto dai nostri modelli atmosferici.

Per far luce su questo mistero, gli astronomi hanno realizzato il più grande catalogo spettroscopico delle atmosfere di pianeti extrasolari. Tutti i pianeti inclusi nel catalogo sono orientati in modo da poter essere studiati con il metodo dei transiti, ovvero analizzando i loro passaggi di fronte al disco delle loro stelle madri. Studiando come la luce stellare viene filtrata attraverso l’atmosfera dei pianeti, possiamo ricostruire molte informazioni sulle proprietà degli involucri gassosi.

“L’atmosfera lascia un’impronta unica nella luce stellare che possiamo studiare quando la luce ci raggiunge,” spiega Hannah Wakeford della NASA.

Per rendere il catalogo il più esaustivo possibile, gli scienziati hanno deciso di includere anche i dati raccolti dal telescopio spaziale Spitzer nella porzione infrarossa dello spettro elettromagnetico. Le lunghezze d’onda infrarosse sono in grado di penetrare più in profondità nell’atmosfera di un pianeta rispetto a quelle visibili; di conseguenza, un pianeta con un’atmosfera nebbiosa risulta essere leggermente più grande nel visibile rispetto all’infrarosso. E sono stati proprio i dati di Spitzer a permettere agli scienziati di individuare una correlazione tra la trasparenza delle atmosfere e le quantità di acqua rilevate.

“Sono entusiasta di vedere finalmente i dati da questo vasto gruppo di pianeti: è la prima volta che abbiamo avuto una copertura di lunghezze d’onda sufficiente a confrontare diverse strutture da un pianeta all’altro,” spiega David Sing dell’Università di Exeter. “Abbiamo scoperto che le atmosfere planetarie sono molto più varie di quanto ci aspettassimo.”

Lo studio si è concentrato in particolare sulle atmosfere di 10 gioviani caldi: WASP-12b, WASP-17b, WASP-19b, HD 209458b (già protagonisti di un altro studio sulla presenza di acqua nelle loro atmosfere), HD 189733b (il primo esopianeta di cui conosciamo il colore reale – un blu intenso – e che abbiamo osservato a raggi-X) WASP-39b, WASP-31b, WASP-6b, HAT-P-12b e HAT-P-1b.

“I nostri risultati suggeriscono che siano le nubi a nascondere l’acqua da occhi indiscreti, il che elimina la teoria che i giovani caldi siano pianeti secchi,” spiega Jonathan Fortney dell’Università della California a Santa Cruz. “L’alternativa è che questi pianeti si siano formati in un ambiente privo di acqua, ma ciò ci obbligherebbe a rivalutare da zero tutta la nostra comprensione sulla formazione planetaria.”

Risolto il mistero dei punti bianchi di Cerere, e molte altre novità da Dawn

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Il cratere Occato, elaborato in falsi colori per dare risalto ai differenti elementi presenti sulla superficie. NASA/JPL-Caltech/UCLA/MPS/DLR/IDA

Dawn ha mappato più di 130 aree luminose sulla superficie di Cerere, la maggior parte delle quali sono associate a crateri da impatto. Secondo uno studio guidato da Andreas Nathues del Max Planck Institute for Solar System Research, la composizione del materiale chiaro è compatibile con la presenza di un solfato di magnesio noto come esaidrite. Si pensa che le aree chiare ricche di sale si siano formate in seguito alla sublimazione di acqua ghiacciata.

“La natura globale dei punti luminosi di Cerere suggerisce che questo mondo abbia uno strato sotterraneo di ghiaccio d’acqua,” spiega Nathues.

Tra tutte le aree chiare che costellano la superficie di Cerere, le più luminose sono le due strutture all’interno di Occator, un cratere largo circa 90 km. I due punti, uno dei quali è situato in corrispondenza della fossa centrale, larga 10 chilometri e profonda 0.5, riflettono circa il 50% della luce che ricevono. La fossa, inoltre, è attraversata da una serie di solchi e fratture. Il cratere, con i suoi bordi marcati, è considerato dagli scienziati una delle più recenti formazioni apparse su Cerere, con un’età stimata intorno ai 78 milioni di anni.

Il cratere Occator, elaborato in falsi colori per dare risalto alle differenti componenti della superficie. NASA/JPL-Caltech/UCLA/MPS/DLR/IDA

Le immagini mostrano anche una sorta di foschia sospesa al di sopra di Cerere, una scoperta che potrebbe spiegare l’identificazione di vapore acqueo attorno al pianeta nano effettuata dal telescopio spaziale Herschel nel 2014. La foschia è presente nelle immagini scattate verso mezzogiorno ora locale ed è invece assente all’alba e al tramonto. Gli scienziati ritengono possibile che un fenomeno simile a quello che caratterizza le attività cometarie sia all’opera nel cratere Occator, con minuscole particelle di polvere e ghiaccio residuo che vengono sollevate in aria dal vapore acqueo. Tuttavia, saranno necessari dati a risoluzioni maggiori per poter far luce sui meccanismi alla base di questo fenomeno.

“Il team di Dawn sta ancora discutendo su questi risultati e analizzando i dati per comprendere meglio la situazione nel cratere Occator,” spiega Chris Russell, responsabile della missione.

Un altro notevole risultato raggiunto da Dawn in questi mesi è l’identificazione di argille ricche di ammoniaca, una scoperta effettuata dallo spettrometro italiano VIR.

La temperatura superficiale di Cerere è troppo elevata per poter consentire la presenza stabile di ammoniaca ghiacciata; tuttavia, le molecole di ammoniaca posso rimanere stabili se chimicamente legate ad altri minerali, ed è esattamente ciò che gli scienziati hanno individuato nei dati di Dawn.

La presenza di ammoniaca, del tutto inaspettata, suggerisce che Cerere non si sia formato nella cintura asteroidale tra Marte e Giove dove si trova oggi, ma che abbia avuto origine molto più in là. Un altro scenario plausibile è che Cerere abbia raccolto i materiali residui provenienti dal sistema solare esterno.

“La presenza di ammoniaca suggerisce che Cerere sia composto di materiale formatosi in un ambiente dove l’ammoniaca e l’azoto erano abbondanti,” spiega Maria Cristina de Sanctis dell’INAF. “Pensiamo che questo materiale abbia avuto origine nel sistema solare esterno.”

Nonostante questa particolarità, altre regioni dello spettro di Cerere mostrano delle somiglianze a quelle di alcuni meteoriti, in particolare delle condiriti carbonacee, meteoriti ricchi di carbonio che però presentano concentrazioni di acqua pari solo al 15-20%, contro il 30% di Cerere.

I dati di Dawn mostrano inoltre che la temperatura superficiale varia da -90 a -33 gradi centigradi, con picchi termici nelle regioni equatoriali.

A metà dicembre arrivano le GEMINIDI

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Lo sciame meteorico delle Geminidi, forse il più attivo e costante negli ultimi anni, si manifesta in genere nel periodo che va dal 7 al 17 dicembre, ed è l’unico tra quelli conosciuti (insieme forse a quello delle Quadrantidi) che sembra essersi generato dai detriti rilasciati da un asteroide, e non da quelli di una cometa.

Sembra inoltre che lo sciame abbia origini molto recenti se paragonate a quelle di famose piogge di stelle cadenti come le Perseidi, conosciute fin dall’antichità. Il primo a parlare della scoperta di un possibile nuovo radiante fu l’astronomo dilettante Robert Philips Greg (1826-1906), che da Manchester nel dicembre del 1861 segnalò la caduta di una dozzina di meteore provenienti da un punto situato un paio di gradi a nordovest di Castore, nella costellazione dei Gemelli.

E addirittura, solo nel 1983, per merito di una ricerca condotta dal famoso astronomo americano Fred Whipple, si trovò che l’oggetto che aveva disseminato la sua orbita di pulviscoli che ogni anno in dicembre vengono incrociati dalla Terra non era una cometa, ma l’asteroide (3200) Phaethon, peraltro sospettato di essere una cometa ormai estinta.

E’ da notare che dalla prima osservazione di Greg, l’attività delle Geminidi è andata progressivamente crescendo, tanto da passare dalla decina di meteore l’ora al centinaio dei nostri giorni, e anche quest’anno si preannuncia uno spettacolo assolutamente niente male: 120 meteore l’ora durante il picco massimo, previsto per la sera del 14 dicembre intorno alle 19:00.

L’attività sarà decisamente favorita dalla assenza del disturbo lunare, anche se a quell’ora in Italia il radiante sarà ancora piuttosto basso sull’orizzonte, cosa che peraltro favorirà le riprese panoramiche; ovviamente, sempre sperando in una notte serena e soprattutto fidando in quella che è la principale caratteristica delle Geminidi, quella di essere meteore che entrano nell’atmosfera a velocità molto basse, intorno ai 35 km al secondo (la metà.

Meteore “lente”, insomma… proprio come abbiamo anticipato nel titolo; il che assicurerà all’osservatore un effetto slow motion che amplificherà per ogni “caduta” la sua percezione del tempo e della luminosità. Provare per credere!

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Qualche semplice regola per godersi lo spettacolo.

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1. Trova un luogo buio

È fondamentale trovare un cielo buio per poter aumentare le possibilità di osservare le stelle cadenti e godere appieno dello spettacolo.

In qualunque zona dell’Italia ti trovi, nelle sere di metà dicembre (puoi scegliere qualsiasi giorno a cavallo della data prevista per il picco massimo) cerca un luogo lontano dalle luci di città, dove l’inquinamento luminoso è minore, e alza gli occhi verso la volta celeste. Nuvole permettendo, lo spettacolo dovrebbe essere assicurato anche grazie all’assenza della luce della Luna.

2. Concediti un po’ di tempo

Può sembrare scontato ma… non avere fretta! Stacca la spina dalla routine quotidiana e concediti qualche ora di relax, non solo perché fa sempre bene ma anche perché le Geminidi sono davvero uno show unico.

I tuoi occhi avranno bisogno di diversi minuti per adattarsi al buio. Ciò ti consentirà di vedere molte più stelle e meteore.

Porta con te tutto l’occorrente per combattere il freddo!

3. Trova il Radiante

Sebbene non sia indispensabile riconoscere le Costellazioni può esserti utile trovare il cosiddetto “Radiante“, cioè il punto dal quale sembrano provenire le meteore.

Le Geminidi possono apparire in qualsiasi zona del cielo, ma il prolungamento della loro scia le riconduce tutte ad un punto della volta celeste situato nei pressi della stella Castore, nei Gemelli.

Non devi per forza puntare gli occhi verso il Radiante per tutto il tempo. Puoi anche guardare nelle sue vicinanze e regalarti una visione la più ampia possibile.

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Altre risorse online

Una galleria delle più belle fotografie di meteore Geminidi

L’articolo di Giuseppe Petricca sulle Geminidi 2015

Supernovae scoperte a ottobre e novembre 2015

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Immagine della supernova in PGC 20346, ripresa da Paolo Campaner con riflettore da 400mm F.5,5
Tutte le immagini sono di Paolo Campaner.

Dopo oltre quattro mesi dall’ultima scoperta e passando attraverso un paio di sfortunate pre-discovery, finalmente il 21 ottobre dall’Osservatorio di Monte Agliale (LU) tornano a mettere a segno una nuova scoperta. F. Ciabattari, E. Mazzoni e G. Petroni individuano infatti una debole stellina di mag.+17,7 nella galassia a spirale PGC20346 posta nella costellazione dei Gemelli a circa 340 milioni di anni luce ed a circa 5° ad Ovest dalla famosa coppia Castore e Polluce. La galassia ospite fa parte di un bel terzetto di galassie, purtroppo non molto appariscenti, insieme alla galassia ellittica PGC20345 posta alla solita distanza ed alla galassia a spirale barrata PGC20355 posta invece leggermente più vicina a circa 330 milioni di anni luce. La notte seguente la scoperta, dall’Osservatorio di Asiago, viene ripreso lo spettro che permette di classificare la supernova di tipo II scoperta da due a tre mesi dopo l’esplosione, con i gas eiettati ad una velocità di circa 7200 km/s.

Quando è esplosa la supernovae, ad inizio/metà agosto, la galassia ospite aveva un’altezza sull’orizzonte all’inizio del crepuscolo di poco meno di 10°, quindi non facile da osservare. Nelle settimane successive però la galassia si è progressivamente allontanata dal Sole rendendosi sempre meglio visibile. Nella seconda metà del mese di agosto inoltre, la supernova dovrebbe aver raggiunto una luminosità superiore alla mag.+17 con una posizione periferica rispetto alle condensazioni centrali della galassia (offset 9” Ovest e 9” Sud) ed era pertanto un facile oggetto da individuare, ma evidentemente nessuno a rivolto il proprio strumento verso questo terzetto di galassie. Per Fabrizio Ciabattari si tratta della scoperta n. 60, che lo vede stabilmente posizionato all’ottavo posto della Top Ten mondiale degli scopritori amatoriali di supernovae. La settima posizione è occupata dall’inglese Mark Armstrong che ha al suo attivo 74 scoperte, ma è fermo a questa quota da diversi anni.

Le scoperte di Fabrizio Ciabattari e del team di Monte Agliale, però non finiscono qui ed il primo novembre ottiene un nuovo successo insieme ad E. Mazzoni e S. Donati nella piccola galassia PGC1514767 posta nella costellazione dell’Ariete al confine con quella dei Pesci, a poco meno di 6° ad Est dalla stupenda galassia M74. Al momento della scoperta il transiente aveva una luminosità pari alla mag.+17,2 ed il giorno seguente ha avuto un rapido incremento fino alla mag.+16,5. Questo è un caso eloquente dove la supernova diventa più luminosa dell’intera galassia che la ospita, dimostrando quanto l’esplosione sia imponente e spaventosa. Si tratta infatti dell’evento più catastrofico che si può verificare nell’universo, cioè una supernova di tipo Ia, come evidenziato dallo spettro ripreso il 3 novembre con il telescopio di 2,16 metri dall’osservatorio Xinglong Station posto in Cina sui monti Yanshan.

Per questa galassia fino ad oggi non era stato possibile calcolarne la distanza. Come ben sappiamo le supernovae di tipo Ia vengono utilizzate come misuratori di distanza in quanto al massimo di luminosità raggiungono tutte lo stesso valore di magnitudine assoluta cioè -19. Raffrontando poi la magnitudine apparente, più o meno luminosa a seconda di quanto distante sia la galassia ospite, si riesce con grande precisione a calcolare la distanza. Questa supernova dovrebbe aver raggiunto durante il massimo una luminosità intorno alla mag.+16,5 che porta ad un modulo di distanza pari a 35,5 (35,5 – 19 = 16,5) e che corrisponde a sua volta ad un valore di circa 420 milioni di anni luce. Grazie a questa supernova lucchese oggi sappiamo perciò con precisione la distanza che ci separa dalla galassia PGC1514767.

Non contenti di quanto fatto sopra e a conferma di un autunno iniziato nel migliore dei modi, nella notte fra il 7 e l’8 novembre Fabrizio Ciabattari ed il team di Monte Agliale mette a segno un’ulteriore bella doppietta, ottenendo perciò ben quattro supernovae in soli 18 giorni.

La prima delle due è stata scoperta nella piccola galassia irregolare PGC90388 posta nella costellazione del Cigno a circa 260 milioni di anni luce, a poco meno di 5° dalla famosa nebulosa Nord America. Fabrizio Ciabattari, E. Mazzoni e M. Rossi l’hanno individuata quando brillava di mag.+17,2 e nei giorni seguenti ha leggermente aumentato la sua luminosità fino a raggiungere la mag.+16,5. Lo spettro ripreso a tempo di record nella solita notte della scoperta dall’osservatorio di Asiago con il telescopio Copernico da 1.82 metri ha permesso di classificare la supernova di tipo Ia scoperta intorno al massimo di luminosità, con i gas espulsi dall’esplosione che viaggiano ad una velocità di circa 9500 Km/s. In base alla distanza della galassia ospite, questa supernova avrebbe dovuto raggiungere una maggior luminosità. Nello spettro sono però evidenti le righe strette del doppietto NA I causate dall’assorbimento delle polveri della nostra Via Lattea che tolgono alla luminosità della supernova circa una magnitudine.

La seconda, scoperta da Fabrizio Ciabattari, E. Mazzoni e G. Petroni, è sicuramente la più interessante fra queste quattro supernovae. E’ stata individuata a mag.+18,1 nella galassia a spirale UGC4812 posta nella costellazione dell’Orsa Maggiore, distante circa 480 milioni di anni luce ed a poco più di un grado a Sud-Ovest della bella galassia a spirale NGC2841. Nella notte seguente la scoperta, sempre dall’Osservatorio di Asiago, è arrivata la conferma spettroscopica: si tratta di una supernova di tipo Ia-pec scoperta circa 10 giorni prima del massimo. Pec significa peculiare, siamo infatti di fronte ad una supernova di tipo Ia diversa dal solito. Sembra essere un oggetto super luminoso prodotto dall’esplosione di una nana bianca con massa eccedente il limite di Chandrasekhar, per esempio ottenuto dalla fusione di due nane bianche di massa più piccola. Dovrebbe aver raggiunto la magnitudine assoluta di -20 ed è simile alla SN2009dc scoperta in UGC10064. Dall’osservatorio di Asiago seguiranno con attenzione l’evolversi di questa particolare supernova che intanto è aumentata di luminosità fino a raggiungere la mag.+16,0 / +16,5.

Akatsuki ce l’ha fatta: ecco le prime foto di Venere dopo l’inserimento orbitale

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Venere ripresa dalla camera Ultraviolet Imager (UVI) a bordo della sonda, il 7 dicembre, subito dopo le monavro di entrata in orbita, a circa 72,000 km dalla superficie. National Research and Development AgencyJapan Aerospace Exploration Agency (JAXA)

La JAXA, l’agenzia spaziale giapponese, ha confermato poco fa che la sua sonda Akatsuki si è inserita nell’orbita desiderata attorno a Venere. La conferma che la disperata manovra di inserimento orbitale, avvenuta due giorni fa, fosse stata eseguita alla perfezione dal sistema di propulsione secondario era arrivata già pochi minuti dopo lo spegnimento dei motori; ora, però, è arrivata anche la conferma radio: analizzando le comunicazioni con la sonda, gli ingegneri hanno potuto calcolare con precisione la sua orbita.

Akatsuki si è inserita in un’orbita di 400 per 440000 chilometri attorno a Venere, con un periodo di 13 giorni e 14 ore e una direzione prograda, ossia identica a quella della rotazione del pianeta.
Tre degli strumenti scientifici – UVI, LIR e IR1 – erano già stati attivati nell’arco delle scorse settimane; ora sarà il turno degli altri tre strumenti, IR2, LAC e USO. Nel corso dei prossimi mesi, inoltre, la sonda eseguirà una serie di manovre per ridurre il suo periodo orbitale a nove giorni. La missione entrerà davvero nel vivo, almeno dal punto di vista scientifico, ad Aprile.

New Horizons: le nuove immagini alla massima risoluzione e uno sguardo alla prossima meta

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Crediti: NASA / JHUAPL / SwRI
Cliccare l'immagine per vederla a piena risoluzione. Crediti: NASA / JHUAPL / SwRI

La vista acuta di New Horizons

La sonda New Horizons della NASA, che lo scorso 14 luglio ha sorvolato Plutone e la sua famiglia di cinque lune per poi proseguire la sua corsa nello spazio profondo, ha recentemente realizzato le riprese più vicine mai ottenute di un lontano oggetto dellaFascia di Kuiper, una vastissima regione al di là di Nettuno.

Nella breve animazione qui di seguito, composta da quattro fotogrammi ottenuti dalla camera a lungo campo LORRI il 2 novembre 2015 a intervalli di un’ora l’uno dall’altro, si può distinguere un corpo – stimato 150 chilometri in diametro e denominato ufficialmente 1994 JR1 – muoversi su uno sfondo di stelle. Al momento delle riprese, 1994 JR1 si trovava a 5,3 miliardi di chilometri dal Sole, ma ad appena 280 milioni di chilometri di distanza dalla sonda New Horizons, migliorando di almeno 15 volte il precedente record per l’immagine più ravvicinata di un KBO, i piccoli corpi gelati che popolano appunto la Fascia di Kuiper.

Secondo il team di New Horizons, questo dimostra la capacità della sonda di osservare un numero cospicuo di tali oggetti nel corso dei prossimi anni, se la NASA approverà definitivamente il finanziamento per l’estensione della missione nella Fascia di Kuiper, dove la sonda dovrebbe approcciare l’oggetto 2014 MU69 esattamente il primo gennaio 2019.

Per tornare all’attualità, è stata recentemente prodotta la vista più dettagliata di Plutone. L’immagine riprodotta sotto è un mosaico composto dalle riprese più nitide che New Horizons ha ottenuto durante il sorvolo del 14 luglio 2015. Gli scatti, grazie a una risoluzione tra i 77 e gli 85 metri per pixel, rivelano fini dettagli della diversificata superficie di Plutone, comprendendo terreni craterizzati, montagnosi e glaciali.

Le immagini interessano una striscia larga 80 chilometri che si estende dall’orizzonte frastagliato di Plutone per oltre 800 chilometri. Sono state ottenute sempre dalla camera LORRI da una distanza di circa 17.000 chilometri in un periodo di circa un minuto con una modalità di osservazione insolita: invece di “puntare e scattare”, LORRI ha ripreso foto ogni tre secondi mentre un altro strumento a bordo di New Horizons, Ralph/MVIC, stava effettuando una scansione della superfice di Plutone. Questa modalità richiede esposizioni brevi per evitare la sfocatura delle immagini.

Nel loro complesso, le immagini così ottenute sono sei volte migliori rispetto alla risoluzione della mappa globale di Plutone composta da New Horizons. Dopo avere aspettato pazientemente il loro turno nella memoria interna della navicella spaziale, le immagini sono state finalmente trasmesse a Terra, processate e ora disvelate al pubblico.

Akatsuki torna a far visita a Venere, stavolta per restarci

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Fra meno di una settimana, la sonda giapponese Akatsuki tornerà a far visita a Venere – stavolta, si spera, per restarci. La sonda, che nel 2010 aveva fallito la manovra di inserimento orbitale con cui si sarebbe dovuta lasciar catturare dalla gravità di Venere, ritenterà l’impresa il 7 Dicembre, quando passerà a 541 chilometri dalla superficie venusiana.

Le condizioni, almeno sulla carta, sono piuttosto sfavorevoli: il motore principale della sonda si era guastato meno di tre minuti dopo l’inizio della manovra di 12 minuti che avrebbe dovuto inserire Akatsuki in orbita attorno a Venere cinque anni fa. L’interruzione prematura della manovra aveva fatto sì che la sonda giapponese continuasse ad allontanarsi da Venere fino a perdersi su una nuova orbita eliocentrica. Ora, dopo aver dovuto sopportare condizioni ben oltre i limiti per cui era stata progettata, Akatsuki è pronta a riprovarci.

Venere visto da Akatsuki poco dopo l'inserimento orbitale fallito nel 2010.

Stavolta, invece del motore principale, che è ancora fuori uso e fra l’altro anche privo di carburante (gli ingegneri hanno deciso di alleggerire la sonda versando nello spazio 65 chili di propellente), Akatsuki userà i suoi motori secondari, progettati per effettuare piccole correzioni dell’assetto o della traiettoria della sonda. La manovra durerà circa 20 minuti e 33 secondi e, qualora dovesse aver successo, porterà Akatsuki su un’orbita ellittica attorno a Venere.

“Il piano originale prevedeva che usassimo questi propulsori solo per il controllo dell’assetto e per scaricare momento angolare, quindi non ci aspettavamo una manovra così lunga,” spiega Takeshi Imamura della JAXA, l’agenzia spaziale giapponese. “Quindi sì, questa operazione sarà piuttosto pericolosa, ma nelle manovre precedenti già eseguite abbiamo raggiunto fino a 10 minuti di propulsione, e 20 minuti non sono molti di più rispetto a quelli che abbiamo già provato.”

Espellendo il carburante del motore principale e alleggerendo la sonda, gli ingegneri hanno alleviato notevolmente il lavoro dei propulsori secondari. Si pensa che il fallimento del motore principale sia stato causato da una formazione salina che avrebbe bloccato il flusso di propellente al motore e provocato un aumento della temperatura interna di Akatsuki.

Durante questi cinque anni di crociera interplanetaria, la sonda si è mantenuta quasi sempre all’interno dell’orbita di Venere, esponendosi a condizioni molto più estreme di quelle per cui era stata progettata.

“Le condizioni termiche sono state piuttosto severe, soprattutto quando eravamo in prossimità del perielio,” prosegue Imamura. La sonda ha doppiato il suo ultimo perielio ad Agosto e si sta ora allontanando dal Sole, risalendo verso l’afelio della sua orbita eliocentrica. “Abbiamo dovuto sopportare temperature molto elevate a causa della distanza ridotta tra il Sole e Akatsuki. Le radiazioni solari erano peggiori del 37% rispetto a quelle previste.”

I problemi, purtroppo, non finiscono qui: i propulsori secondari generano una spinta di soli 20 N l’uno, contro i 500 del motore principale. Ciò significa che Akatsuki dovrà inserirsi su un’orbita molto più elevata di quella prevista e non potrà raccogliere tutti i dati scientifici promessi nel 2010. Invece di compiere una rivoluzione attorno a Venere ogni 30 ore, come previsto inizialmente, Akatsuki completerà un’orbita in 15 giorni. Una seconda manovra prevista per Marzo ridurrà il periodo orbitale a 9 giorni.

Recentemente, tre delle cinque fotocamere a bordo della sonda giapponese sono state attivate per la prima volta da più di quattro anni. Tutte e tre sembrano essere in buone condizioni. Le altre due saranno attivate solo dopo l’eventuale inserimento orbitale. Per sicurezza, gli ingegneri hanno già comandato ad Akatsuki di effettuare delle osservazioni di Venere subito dopo l’inserimento orbitale qualora questo dovesse fallire, in modo da raccogliere almeno qualche dato scientifico.

Nel frattempo, la comunità scientifica sta incrociando le dita per il successo della missione. Con la fine della sonda europea Venus Express, disintegratasi nell’atmosfera a inizio anno, nessuna altra sonda oltre ad Akatsuki raggiungerà Venere nel prossimo decennio. Qualora l’inserimento orbitale dovesse aver successo, Akatsuki dovrebbe riuscire ad operare per almeno due anni.

“L’orbita venusiana nel nuovo piano sarà molto ellittica,” spiega Imamura. “Da lontano, monitoreremo continuamente le dinamiche su scala globale dell’atmosfera e delle nubi, mentre da distanze ravvicinate scatteremo immagini dell’atmosfera e della superficie.”

Transiti ISS notevoli per il mese di dicembre 2015

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Questo mese la ISS ripresa da Raimondo Sedrani, per tutti i dettagli cliccare sull'immagine. Aspettiamo anche le vostre foto su Photocoelum!!

La ISSStazione Spaziale Internazionale nel mese di dicembre, sarà rintracciabile nei nostri cieli ad orari serali, quindi senza l’obbligo della sveglia al mattino prima dell’alba. Avremo quattro transiti notevoli con magnitudini elevate durante il corso dell’ultimo mese dell’anno.

Si inizierà il giorno 6 dicembre, dalle 18:04 alle 18:10, osservando da SO ad ENE. La ISS sarà ben visibile dalle zone del Sud Italia. La magnitudine massima si attesterà su un valore di -3.3, quindi il transito sarà individuabile senza alcun problema anche dal Centro e dal Nord, sempre più basso all’orizzonte, meteo permettendo.

Ancora al giorno 8 dicembre, dalle 17:55 in direzione OSO alle 18:02 in direzione NE. Questo sarà un transito indicato per il Centro Nord, con una magnitudine massima di -2.8.

Per il successivo transito notevole dovremo aspettare circa due settimane, il 21 dicembre e sarà osservabile al meglio dal Nord Est, ma la magnitudine massima sarà di -3.1, e quindi ben visibile anche dal resto del paese. La ISS transiterà nei nostri cieli dalle 17:46 alle 17:53, osservando da NO a E.

Il giorno 23 dicembre avremo ancora una occasione di transito ottimale, con il Centro Italia che vedrà la ISS attraversare il cielo molto vicina alla Luna, una ottima occasione fotografica. Dalle 17:37 in direzione ONO alle 17:47 in direzione SE. Anche questo sarà un transito osservabile da tutto il paese, grazie alla magnitudine elevata di -3.2.

Giuseppe Petricca

Giorno Ora Inizio Direzione Ora Fine Direzione Magnitudine
06 18:04 SO 18:10 ENE -3.3
08 17:55 OSO 18:02 NE -2.8
21 17:46 NO 17:53 E -3.1
23 17:37 ONO 17:47 SE -3.2
N.B. Le direzioni visibili per ogni transito sono riferite ad un punto centrato sulla penisola, nel centro Italia, costa tirrenica. Considerate uno scarto ± 1-5 minuti dagli orari sopra scritti, a causa del grande anticipo con il quale sono stati calcolati.

Il Cielo di Dicembre

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EFFEMERIDI

Arriva dicembre, e si apre ufficialmente la stagione in cui il cielo offre agli osservatori la parte più spettacolare del nostro emisfero, ovvero quel complesso di costellazioni che ha per centro la grande figura di Orione. Verso la metà del mese, alle 22:30, la figura del “cacciatore” sarà ancora defilata verso sudest, mentre saranno già in meridiano il Toro e, più in basso, l’anonimo Eridano.

A ponente scenderanno lentamente gli asterismi che qualche mese fa erano allo zenit (Pegaso e Cigno su tutti), mentre a est si preannunceranno già il Cancro e il Leone, con lo zenit attraversato dal Perseo.

Un paio di ore dopo sorgerà anche Boote, mentre staranno già scendendo a ovest la Balena, i Pesci e Andromeda.

Il Sole

All’inizio di dicembre il Sole si troverà nella costellazione zodiacale dell’Ofiuco e passerà in quella del Sagittario il giorno 17.

Sempre più bassa e immersa nella foschia, la nostra stella raggiungerà in questo periodo, più precisamente il giorno 22, la minima altezza sull’orizzonte al momento del passaggio in meridiano (+24,5°). Sarà questo il giorno del Solstizio invernale (dal latino “solstitium”, che significa “Sole immobile”, stazionario, per il fatto che la sua apparente caduta in altezza sembra progressivamente arrestarsi). Da questo momento in poi avrà inizio nel nostro emisfero l’inverno astronomico.

Il giorno del Solstizio invernale è ovviamente anche quello con meno ore di luce di tutto l’anno: per l’Italia la durata della notte (dal tramonto all’alba) varia secondo la latitudine, da 15h 38m (+48°) a 14h 28m (+38°), mentre la durata della notte astronomica (l’intervallo di tempo in cui il Sole si trova al di sotto dell’orizzonte di almeno 18°) varierà in maniera quasi inapprezzabile fra le 11,3 e le 11,5 ore. I valori massimi si avranno proprio nella seconda metà del mese, quando le osservazioni potranno iniziare già alle 18-18:30 e protrarsi fino alle 6-6:30.

Il Solstizio non cade sempre e solo il 21-22 dicembre, ma può verificarsi, sia pure molto raramente, anche il 20 e il 23.

L’ultima volta in cui si verificò il giorno 23 accadde nel 1903, la prossima sarà nel 2303; nel 1697 avvenne il 20 dicembre, cosa che si ripeterà soltanto nel 2080.

La notte astronomica

Data Fine crepuscolo serale durata notte astronomica

inizio crepuscolo mattino

dic    01 18:21 11:20 05:41
06 18:21 11:24 05:45
11 18:21 11:28 05:49
16 18:23 11:30 05:53
21 18:25 11:31 05:56
26 18:28 11:30 05:58
gen    01 18:31 11:28 05:59
I tempi sono indicati in TMEC ( TU+1); sono calcolati per una località a 12° Est e 42° Nord. Il crepuscolo astronomico inizia, o termina, nel momento in cui il Sole si trova 18° sotto l’orizzonte (vedi l’articolo all’indi­rizzo www.coelum.com/articoli/risorse/ il-crepuscolo).

Un “ritratto di casa” da Hayabusa 2 e Procyon

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Quest'immagine della Terra e della Luna è stata scattata alle 4:46 ora italiana del 26 Novembre dalla fotocamera ONC-T a bordo della sonda giapponese Hayabusa 2. Il 3 Dicembre, Hayabusa 2 riceverà una spinta gravitazionale dalla Terra che le permetterà di raggiungere l'asteroide Ryugu nel 2018. Al momento dello scatto, Hayabusa 2 si trovava a circa 3 milioni di chilometri dal nostro pianeta.

Il 3 dicembre, due sonde giapponesi sfioreranno la Terra per effettuare una manovra di fionda gravitazionale. Le sonde Hayabusa 2 e Procyon, lanciate assieme esattamente un anno prima, passeranno a qualche milione di chilometri dalla superficie terrestre, sfruttando la gravità del nostro pianeta per accelerare e modificare le proprie orbite.

Concluso l’incontro con la Terra, Hayabusa sarà nuovamente impegnata nella lunga traversata del sistema solare che le farà raggiungere l’asteroide 1999 JU3 Ryugu a metà del 2018. Una volta raggiunto l’asteroide, la nave madre giapponese rilascerà una flotta di sonde secondarie, tra cui una sonda che si schianterà contro l’asteroide e tre rover e una piattaforma scientifica europea che ne esploreranno la superficie. Raccolti i campioni del suolo, la sonda farà rientro sulla Terra. Una simulazione in tempo reale della traiettoria di Hayabusa 2 è disponibile cliccando qui.

Lo stesso giorno, due milioni e mezzo di chilometri più in alto di Hayabusa 2 ci sarà un’altra sonda giapponese, il piccolo veicolo sperimentale Procyon, diretto verso l’asteroide binario 2000 DP107. Purtroppo, a causa di un guasto al propulsore a ioni, gli scienziati hanno dovuto rinunciare all’obiettivo primario della missione, ovvero quello di esplorare l’asteroide. Nonostante ciò, gli altri sistemi di bordo continuano a operare alla perfezione: recentemente, Procyon ha perfino effettuato delle osservazioni della lontana cometa di Rosetta.

Un astronauta alla Croce del Nord

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Il Comandante e astronauta Maurizio Cheli durante il suo intervento

Sabato 7 Novembre è stata una giornata da tutto esaurito al Centro Visite “Marcello Ceccarelli” dei Radiotelescopi di Medicina (BO) in occasione della visita pubblica del Comandante modenese Maurizio Cheli, pilota ed astronauta.

A caccia degli E.T. con il SETI, presso il Centro Visite M. Ceccarelli.

Nell’attesa della conferenza di Cheli, i tanti visitatori, tra cui molte famiglie conbambini, hanno trascorso l’intero pomeriggio al Centro Visite potendo sceglieretra varie attività: spettacoli al planetario gonfiabile di Giuseppe Pupillo (ilplanetario.it), lancio di razzi a cura di Acme Italia e visite guidate alle due antenne medicinesi:la parabola da 32 metri di diametro e la Croce del Nord.

Nel tardo pomeriggio, dopo un breve intervento di Pierdomenico Memeo (divulgatore scientifico della Cooperativa Ossigeno) sul mini-corso per piccoli astronauti “Space Camp”, e l’introduzione di Stefania Varano (responsabile della divulgazioneper INAF), l’astronauta Cheli ci ha descritto la sua esperienza sullo Shuttle Columbia (anno 1996): 1260 interruttori, l’abbraccio avvolgente delle fiamme di tanti colori alla partenza, al rientro e tutto quel che sta in mezzo, in modo semplice ed emozionante come forse solo un volo spaziale sa essere.

Stefano Pozzato di ACME Italia

Cheli ha pero’ sottolineato che l’addestramento precedente al volo comprende anche fasi molto ripetitive con simulazioni non esaltanti, in modo da essere pronti a reagire in automatico a qualunque tipo di imprevisto.

La figura del candidato astronauta, nell’attesa del suo primo volo, è descritta efficacemente come “un pinguino, che ha le ali ma non sa ancora volare”, dice Cheli, e che una volta nello spazio, dopo aver attraversato “quello strato sottilissimo di atmosfera che ci tiene in vita” ha bisogno di circa tre giorni di tempo per abituarsi all’assenza di peso (e non di gravità, attenzione!).

Da sinistra Luigi Pizzimenti e Maurizio Cheli

Cheli ha infine presentato il suo libro “Tutto in un istante” affiancato da Luigi Pizzimenti, curatore della sezione Astronautica del museo Volandia di Malpensa, e dall’attrice badiese Cristina Chinaglia che ha magnificamente letto alcuni estratti del libro.

Al termine dell’incontro il Comandante si è reso disponibile per fotografie e autografi mentre all’esterno il pubblico è stato accolto dai telescopi dell’Associazione Astrofili Imolesi, pronta a far veder le stelle.

È stato un pomeriggio davvero spaziale in questo autunno primaverile, suggellato dall’entusiasmo dei visitatori, grandi e piccini, ma anche dello staff dell’ Osservatorio di Radioastronomia di Bologna, che ha realizzato questo evento. Del resto, chi non ha mai sognato almeno una volta di fare l’astronauta?

Daria Guidetti (Osservatorio di Radioastronomia – INAF, Bologna)

Personale dell’Osservatorio di Radioastronomia coinvolto (accoglienza e visiteguidate alle antenne e al planetario) in ordine alfabetico: Germano Bianchi, Daria Guidetti, Marco Poloni, Giuseppe Pupillo, Simona Righini, Francesca Schiavon, Stefania Varano.

Da sinistra gli astrofisici F. Schiavon, D. Guidetti, R. Ricci, S. Righini, P. Memeo

Ecco l’oggetto più lontano nel Sistema solare

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Il nome non è certo di quelli che rimangono in testa ma i segni particolari probabilmente sì: V774104 sarebbe l’oggetto più distante mai avvistato nel Sistema solare. La sua scoperta è stata annunciata appena ieri, nel corso del meeting della Division for Planetary Sciences dell’American Astronomical Society, nel Maryland, da parte di Scott Sheppard, astronomo della Carnegie Institution for Science a Washington DC, grazie alle osservazioni compiute col telescopio Subaru nelle Hawaii.

Al momento gli indizi su questo lontano oggetto (per ora ci si riferisce sommariamente così a V774104) sono però pochi. Indicativamente potrebbe essere grande dai 500 ai 1.000 chilometri (meno della metà di Plutone, il pianeta nano ai confini del Sistema solare, che misura circa 2.370 chilometri di diametro) e si troverebbe a circa 103 unità astronomiche (un’unità astronomica, Ua, è la distanza media che separa la Terra dal Sole ed è pari a circa 150 milioni di chilometri). Ma le osservazioni del nuovo oggetto sono state limitate, tanto che la sua orbita non è del tutto nota e complessivamente, avvertono alcuni esperti, non ci sono (ancora) ragioni per essere particolarmente entusiasti.

Le cose cambierebbero un po’ se le osservazioni future permettessero di confermare che effettivamente l’oggetto in questione è un vero oggetto della nube di Oort interna, una nube (immensa) di comete in orbita intorno al Sole che si troverebbe ben oltre la zona dei pianeti (il nano Plutone, per dire, si trova a circa 40 Ua) e la fascia di Kuiper (fino a 50 Ua). La nube di Oort si ipotizza si estenda dai 20mila alle 100mila Ua invece. Si crede però che questa possa avere un’estensione interna più vicina, e qui si troverebbe V774104.

Se davvero fosse così, questo oggetto diventerebbe di particolare interesse, perché la zona più interna della nube di Oort preserverebbe i segni del Sistema solare primordiale, e avere tra le mani oggetti che ne fanno parte, sarebbe a dir poco affascinante per gli astronomi (tutto questo se quelle 103 Ua ora stimate fossero la distanza minima). Insieme a V774104 nella stessa ipotetica zona si troverebbero i colleghi Sedna e 2012 VP113, ricorda Nature News.

Va da sé che parlando di tutte queste distanze viene da chiedersi quanto sia grande in tutto il Sistema solare. Rispondere però è tutt’altro che facile, perché dovremmo scegliere quali confini considerare (senza contare le difficoltà tecniche). Se consideriamo il Sistema solare come la zona di influenza della gravità della nostra stella questa si spingerebbe fino a circa due anni luce per alcuni (coprendo circa tutta l’estensione della nube di Oort). Se invece considerassimo come Sistema solare solo l’eliosfera (una sorta di bolla in cui ricadono il Sole, il suo campo magnetico, il vento solare e che li separa dal mezzo interstellare) i nostri confini arrivano almeno a 100 Ua ( e infatti la Nasa pone il confine del Sistema solare a 15 miliardi di chilometri, ovvero 100 Ua). Confini, lo ricordiamo, oltre cui ci siamo già spinti, con la sonda Voyager 1.

Philae – 12 novembre 2014

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Esattamente un anno fa, per la prima volta nella storia dell’umanità, un oggetto costruito dagli esseri umani atterrava sul nucleo di una cometa, lontana mezzo miliardo di chilometri dalla Terra, più di tre volte la distanza tra il nostro pianeta e il Sole.

Si tratta di Philae, il lander entrato nella storia per essere atterrato con successo sulla cometa67P/Churyumov-Gerasimenko dopo un tuffo di oltre 20 chilometri dalla sonda madre Rosetta, omonima della missione spaziale sviluppata dall’ESA, l’Agenzia Spaziale Europea.

Con lo scopo di studiare l’origine delle comete, la relazione tra la loro composizione e il materiale interstellare, Rosetta ha viaggiato per dieci anni nello Spazio per raggiungere l’orbita di 67P/Churyumov-Gerasimenko. Dopo qualche mese dal rendezvous con la cometa, Rosetta si è preparata a sganciare il suo lander per lasciarlo esplorare questa superficie fino ad allora sconosciuta.

Leggi anche: Rosetta: verso la cometa e oltre

Pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Crediti immagine: DLR German Aerospace Center, Wikimedia Commons

Novità da Plutone: criovulcani, regioni di mezza età, pochi crateri, lune binarie e molto altro

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“New Horizons ha preso ciò che sapevamo di Plutone e l’ha ribaltato,” spiega Jim Green della NASA. “È per questo che esploriamo – per soddisfare la nostra innata curiosità e per rispondere a domande più profonde su come siamo arrivati qui e cosa si cela oltre il prossimo orizzonte.”

Due criovulcani?

Una delle ultime scoperte è che, usando le immagini scattate da New Horizons per costruire mappe tridimensionali della superficie di Plutone e studiarne così la topografia, gli scienziati sono giunti alla conclusione che due delle più importanti montagne osservate sul pianeta nano potrebbero in realtà essere criovulcani – vulcani di ghiaccio che in un passato forse non troppo lontano sputavano fuori acqua e metano invece della lava che caratterizza il vulcanismo terrestre.

Due possibili criovulcani su Plutone.

I due potenziali criovulcani si trovano a sud di Sputnik Planum, la vasta pianura ghiacciata di metano, azoto e monossido di carbonio che costituisce il lobo sinistro di Tombaugh Regio. Si tratta di due montagne a cupola alte 3 e 5.5 chilometri, larghe 150 ciascuna e battezzate informalmente con i nomi di Wright e Piccard. Una di esse risulta visibile solo nelle immagini scattate in controluce, cioè quando New Horizons si trovava ormai oltre il pianeta nano.

“Sono montagne massicce e con una grande depressione in corrispondenza della loro sommità. Sulla Terra, queste caratteristiche significano generalmente una sola cosa: si tratta di vulcani,” spiega Oliver White della NASA.

“Se sono davvero di natura vulcanica, allora la depressione in vetta si sarebbe formata per collasso mentre il materiale veniva eruttato dalle profondità. La strana superficie collinosa delle pendici delle due montagne potrebbe rappresentare flussi vulcanici di qualche tipo che hanno viaggiato giù dalla sommità e verso le le pianure circostanti, ma perché siano collinosi, e di cosa siano composti, non lo sappiamo ancora.”

Superfici antiche, giovani e intermedie

Tra le tante cose che New Horizons ci ha insegnato di Plutone, la piccola sonda americana ci ha rivelato che la superficie del pianeta nano è un misto di regioni antichissime, forse risalenti all’alba del sistema solare, e regioni apparentemente recentissime, risalenti a meno di 10 milioni di anni fa, popolate da quelli che sembrano essere flussi glaciali di azoto colti nell’atto di attraversare valli e inondare antichi crateri.

Una mappa dei crateri a una risoluzione di almeno 900 metri per pixel ne rivela una distribuzione molto irregolare (le regioni in viola sono escluse da queste considerazioni, non essendo visibili alla sonda durante il flyby: le immagini di queste zone sono infatti disponibili solo a una più bassa risoluzione che non ha permesso una mappatura dei crateri). Cliccare l'immagine per ingrandire.
Una serie di crateri fotografati da New Horizons messi a confronto.

Generalmente, più una superficie planetaria è priva di crateri, più è geologicamente giovane, dato che i crateri da impatto sono qualcosa di inevitabile ovunque nel sistema solare e la loro assenza indica che un qualche processo geologico debba aver rimodellato la superficie in modo da eliminare le cicatrici. Finora, gli scienziati hanno mappato circa 1070 crateri, la cui distribuzione rivela che, oltre alle regioni antichissime e a quelle molto più recenti, vi sono anche regioni di età intermedia. Il lobo destro di Tombaugh Regio, ad esempio, potrebbe risalire a 1 miliardo di anni fa – una buona via di mezzo tra i 4 di Cthulhu Regio e i 10 milioni di Sputnik Planum.

“Abbiamo mappato più di mille crateri su Plutone, e variano molto sia in dimensioni che in aspetto,” spiega Kelsi Singer dell’SwRI. “Tra le tante cose, mi aspetto che le analisi dei crateri ci diano importanti indizi su come questa parte del sistema solare si sia formata.”

La relativa penuria di crateri su Plutone e sulla sua luna principale, Caronte, suggerisce inoltre che la fascia di Kuiper, la gelida dimora del pianeta nano, fosse in origine popolata da meno corpi minori rispetto a quanto i modelli attuali prevedano. Ciò mette in dubbio la teoria che tutti i corpi della fascia di Kuiper si siano formati attraverso la fusione di oggetti minori, grandi un chilometro o meno. Ora, gli scienziati di New Horizons stanno incominciando a sospettare che molti oggetti trans-Nettuniani possano essersi formati già relativamente grandi.

Un’atmosfera misteriosa

I dati raccolti da New Horizons sull’atmosfera, invece, suggeriscono che l’involucro gassoso sia più freddo e compatto e che i ritmi di fuga dell’azoto siano inferiori del previsto. L’esperimento radio REX ha inoltre registrato temperature diverse tra l’inizio dell’occultazione terrestre (30 K) e la fine (50 K).

Lune impazzite

New Horizons ha studiato in dettaglio non solo Plutone e Caronte, ma anche le quattro lune minori che, assieme al “pianeta nano doppio” Plutone-Caronte, costituiscono un sistema estremamente bizzarro. Mentre la maggior parte delle lune del sistema solare sono in rotazione sincrona rispetto al loro pianeta, cioè gli rivolgono sempre la stessa faccia, le lune minori di Plutone hanno moti e periodi molto più caotici.

Idra e Cerbero potrebbero essersi formate dalla fusione di due o più oggetti minori.

La piccola luna Idra, ad esempio, ruota su se stessa in appena 10 ore, per un totale di 89 rotazioni a ogni singola rivoluzione – un record nel sistema solare. Gli scienziati sospettano che ciò sia dovuto al momento fornito da Cerere. Notte, invece, ha un asse di rotazione ribaltato di 132 gradi, ovvero ruota su se stessa al contrario. Infine, Cerbero e Idra, ma forse anche Stige e Notte, hanno probabilmente avuto origine attraverso la fusione di due o più oggetti in un unico nucleo bilobato.

“Le lune di Plutone si comportano come trottole,” spiega Mark Showalter del SETI. “Sospettiamo che Plutone avesse più lune in passato, dopo il grande impatto che generò Caronte.”

Leonidi 2015

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A sinistra, la notte tra il 17 e 18 novembre, periodo di tempo in cui presumibilmente si potrà osservare il maggior numero di meteore, bisognerà aspettare fin quasi l’una del mattino per poter veder sorgere il radiante dello sciame delle Leonidi il cui picco massimo è però previsto per le ore che precedono l'alba del 18. A destra. Dando per scontato uno ZHR di 15-20 meteore per ora, la speranza per gli osservatori è quella di riuscire a vedere la caduta di qualche bolide molto luminoso, cosa a cui lo sciame ci ha abituato negli ultimi anni.

Il passaggio al perielio della Tempel- Tuttle, la cometa progenitrice dello sciame, è avvenuto ormai da 15 anni, ciò nonostante le Leonidi non hanno mai smesso di affascinare gli osservatori che ogni anno tornano ad aspettarle come se davvero si potessero ripetere le grandiose piogge di quegli anni. Per ritrovare la “tempesta” basterà proba­bilmente aspettare il 2031, anno del ritorno al perielio della cometa, per il momento dovremo accon­tentarci dell’incontro della Terra con le rade polveri sparse su tutto il suo percorso orbitale.

Le previsioni di quest’anno confer­mano che lo ZHR sarà ai soliti livelli (15/20 meteore l’ora), con un picco nella notte del 17/18 novembre, più pro­babile verso le 5:00 del 18; a quell’ora il radiante – (AR 10,3h; Dec +21,6°) posto nei pressi di Algieba (gamma Leonis) – sarà alto più di una cinquantina di gradi sull’orizzonte sudest, prossimo al transito in meridiano.

La buona notizia è che non ci sarà disturbo lunare, essendo il nostro satellite già tramontato poco dopo le 23 del 17 novembre. Non resta che incrociare le dita, fi­dando, più che nella quantità, nella ca­duta di qualche bolide spettacolare.

MAVEN osserva il vento solare portarsi via l’atmosfera marziana

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Illustrazione dell’operazione eseguita dallo spettrografo IUVS a bordo di MAVEN mentre analizza le luce di una aurora su Marte. I dati indicano che l’aurora marziana è simile a quella terrestre ma ha una origine diversa. Credit: University of Colorado

Come il Marte ricoperto d’acqua e potenzialmente abitabile di qualche miliardo di anni fa si sia evoluto nel mondo arido e inospitale che vediamo oggi è uno dei più grandi misteri nel sistema solare. Ora, però, la sonda americana MAVEN potrebbe aver trovato un tassello fondamentale per ricostruire la turbolenta storia del Pianeta Rosso.

La perdita atmosferica marziana in presenza (destra) e in assenza (sinistra) di una tempesta solare.

I sensori a bordo della sonda hanno misurato il ritmo con cui il vento solare – il flusso di particelle cariche espulso dal Sole a 1.6 milioni di chilometri orari – strappa i gas dell’atmosfera marziana e li disperde nello spazio profondo. I dati hanno permesso agli scienziati di individuare significativi picchi nel ritmo di perdita atmosferica in risposta a eventi quali le tempeste solari.

Una mappa del flusso di ioni O+ misurato da MAVEN.

“Marte in passato aveva un’atmosfera sufficientemente spessa e calda da supportare la presenza di acqua liquida, un ingrediente chiave e un mezzo della vita, almeno come la conosciamo noi,” spiega John Grunsfeld della NASA. “Capire cosa è accaduto all’atmosfera marziana ci permetterà di comprendere le dinamiche e l’evoluzione di qualunque atmosfera planetaria. Capire cosa possa causare una transizione da un ambiente planetario che potrebbe ospitare microbi in superficie a uno che non potrebbe è fondamentale.”

I dati raccolti da MAVEN indicano che il vento solare strappa circa 100 grammi di atmosfera marziana ogni secondo. “Come rubare un paio di monete dalla cassa di un negozio ogni giorno, con il passare del tempo la perdita diventa significativa,” spiega Bruce Jakosky, a capo della missione presso l’Università del Colorado. “Abbiamo osservato che l’erosione atmosferica aumenta notevolmente durante le tempeste solari, il che ci fa credere che un tempo, miliardi di anni fa, quando il Sole era più attivo e dinamico, il ritmo fosse più elevato.”

Rappresentazione artistica di una tempesta solare in avvicinamento verso Marte.
Il campo magnetico terrestre protegge il nostro pianeta e l'atmosfera dal vento solare.

Quando il vento solare incontra l’atmosfera marziana, il campo magnetico che trasporta è in grado di generare un campo elettrico che accelera gli atomi di gas elettricamente carichi, detti ioni, e li permette di fuggire all’attrazione gravitazionale marziana.

I dati di MAVEN hanno permesso agli scienziati di individuare anche tre regioni in cui il vento solare e la luce ultravioletta sembrano scavare maggiormente negli strati superiori dell’atmosfera marziana: la coda, ovvero la regione alle spalle del Pianeta Rosso in cui fluisce il vento solare; un pennacchio polare al di sopra dei poli marziani; infine, un’estesa nube di gas che avvolge Marte. Circa il 75 percento degli ioni in fuga provengono dalla coda, con un altro 25 percento dai pennacchi polari e il restante dalla nube diffusa.

“L’erosione dovuta al vento solare è un importante meccanismo di perdita atmosfera, abbastanza importante da essere responsabile di un cambiamento significativo nel clima marziano,” spiega Joe Grebowsky della NASA. “MAVEN sta studiando anche altri processi di perdita – ad esempio, la perdita dovuta all’impatto di ioni o la fuga di atomi di idrogeno – e questi non faranno altro che aumentare l’importanza della perdita atmosferica.”


Per saperne di più, leggi i quattro articoli su Science:

Il Cielo di Novembre

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Aspetto del cielo per una località posta a Lat. 42°N - Long. 12°E. La cartina mostra l'aspetto del cielo alle ore (TMEC): per il 1 novembre alle 01:00; per il 15 novembre alle 00:00; per il 30 novembre alle 23:00.

EFFEMERIDI

Verso la mezzanotte si avvicinerà al “mezzocielo superiore” (il punto in cui l’equatore celeste taglia il meridiano, che alle nostre latitudini è situato a circa 48° di altezza) l’inconfondibile Orione, accompagnato da Toro, Gemelli e Cane Maggiore. Più in basso il meridiano sarà attra­versato dalla estesa ma debole costellazione dell’Eridano, mentre più in alto transiteranno le Pleiadi. Cigno e Pegaso saranno al tramonto sull’orizzonte ovest, mentre dalla parte opposta del cielo starà sorgen­do il Leone.

IL SOLE

All’inizio di novembre il Sole si tro­verà ancora nella Bilancia, e solo il giorno 23 entrerà nello Scorpione, costellazione in cui non si “fermerà” per un mese intero, come di solito fa nelle altre, ma solo per una settimana. L’eclittica, infatti, passa nella parte alta dello Scorpione, attraversandola solo per un breve tratto, così che il giorno 30 il Sole sarà già nella co­stellazione dell’Ofiuco.

Nel corso del mese continuerà la discesa della nostra stella verso de­clinazioni e culminazioni al meridiano sempre più basse.

Alle ore 0:00 del 1 novembre la sua declinazione sarà di –14,3°, mentre alle stessa ora del 1 di­cembre avrà già raggiunto i –21,7°: questo si tradurrà in una perdita del periodo di luce (variabile secondo la latitudine) di circa 1 ora. La notte astronomica, pertanto, comincerà in media verso le 18:30 e terminerà alle 5:30 circa.

La notte astronomica

Data Fine crepuscolo serale durata notte astronomica

inizio crepuscolo mattino

nov 01 18:41 10:29 05:10
06 18:35 10:40 05:15
11 18:31 10:50 05:21
16 18:27 10:59 05:26
21 18:24 11:07 05:31
26 18:22 11:14 05:36
dic 01 18:21 11:20 05:41
I tempi sono indicati in TMEC ( TU+1); sono calcolati per una località a 12° Est e 42° Nord. Il crepuscolo astronomico inizia, o termina, nel momento in cui il Sole si trova 18° sotto l’orizzonte (vedi l’articolo all’indi­rizzo www.coelum.com/articoli/risorse/ il-crepuscolo).

Rilevato ossigeno molecolare (primordiale) sulla cometa 67P/Churyumov–Gerasimenko

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#CometWatch: la cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko vista dalla NavCam della sonda dell'ESA Rosetta il 18 ottobre 215 da una distanza di 433 chilometri. Credits: ESA/Rosetta/NAVCAM – CC BY-SA IGO 3.0
#CometWatch: la cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko vista dalla NavCam della sonda dell'ESA Rosetta il 18 ottobre 215 da una distanza di 433 chilometri. Credits: ESA/Rosetta/NAVCAM – CC BY-SA IGO 3.0

L’ossigeno è molto comune nell’Universo ma la sua forma più semplice, O2, è estremamente difficile da trovare perché è altamente instabile e, a causa della sua elevata reattività, si rompe e si lega rapidamente con altre molecole.

Rosetta ha studiato la cometa 67P/Churyumov–Gerasimenko da oltre un anno rilevando una grande varietà di gas: vapore acqueo, monossido di carbonio e biossido di carbonio prima di tutto ma anche una ricca gamma di azoto, zolfo, carbonio e diversi gas nobili. Tuttavia, l’O2 ancora mancava nell’inventario delle comete.

Copyright: Spacecraft: ESA/ATG medialab; comet: ESA/Rosetta/NavCam – CC BY-SA IGO 3.0; Data: A. Bieler et al. (2015)

“Non ci aspettavamo davvero di rilevare O2 dalla cometa e non così abbondante”, ha detto Kathrin Altwegg dell’Università di Berna, ricercatrice principale di ROSINA (Rosetta Orbiter Spectrometer for Ion and Neutral Analysis), la suite a bordo di Rosetta composta da due spettrometri di massa e da un sensore di pressione utilizzata per analizzare i gas della chioma. “Ed è anche imprevisto perché non ci sono molti esempi di O2 interstellare”, ha aggiunto.

“Anche se fosse stato incorporato nella cometa al momento della sua nascita, questo non è così semplice da spiegare con i modelli di formazione del Sistema Solare”.

Il team ha analizzato più di 3000 campioni raccolti attorno a Chury tra settembre 2014 e marzo 2015, grazie ai quali ha determinato un’abbondanza di ossigeno molecolare dell’1-10% rispetto all’acqua cometaria, con un valore medio di 3,80 ± 0,85% tale da porre O2 nella “top five” dei quattro gas più comuni nell’atmosfera di Chury.

Sembra che l’emissione di ossigeno molecolare sia connessa in qualche modo alla quantità d’acqua rilasciata dalla cometa nello stesso momento, suggerendo che i due elementi condividano una stessa attività all’interno del nucleo. Al contrario, l’O2 è parso scarsamente collegato al monossido di carbonio e all’azoto molecolare, anche se hanno una volatilità simile.

Durante i primi sei mesi dello studio, Rosetta stava accompagnando Chury verso ilperielio lungo la sua orbita, da una distanza di soli 10-30 chilometri dal nucleo. Tuttavia, nonostante la vicinanza al Sole, il rapporto O2/H2O era rimasto costante nel tempo ed omogeneo rispetto alla poszione di rilevazione di Rosetta. Il rapporto O2/H2O è stato visto, invece, diminuire per emissioni elevate di H2O.

L’ossigeno molecolare, anche se è una novità per le comete, è noto per essere presente sulle lune ghiacciate di Giove e di Saturno, probabilmente come risultato di un bombardamento di particelle ad alta energia in grado di rompere i legami delle molecole d’acqua, un processo chiamato radiolisi che forma ossigeno, idrogeno ed ozono (che, però, non è stato rilevato su 67P). I legami molecolari potrebbero essere scissi anche per fotolisi, ossia a causa dell’assorbimento di radiazione elettromagnetica, generalmente ultravioletta. Un fenomeno osservato frequentemente nelle atmosfere planetarie ad opera degli UV.

Sembra semplice ma adattare questi concetti a Chury non lo è.
Anche se la radiolisi avesse operato per miliardi di anni quando la cometa era dormiente nella fascia di Kuiper, l’O2 si sarebbe formato al massimo qualche metro sotto la superficie, coperto da strati ormai sublimati da un pezzo con i vari passaggi al perielio. D’altra parte, invece, se la formazione per radiolisi e fotolisi fosse recente, sarebbe molto più superficiale per cui i dati avrebbero mostrato una diminuzione del rapporto O2/H2O man mano che qualche millimetro di 67P si perdeva nello spazio.
“La generazione istantanea di O2 sembra improbabile perché dovrebbe portare a rapporti variabili piuttosto che costanti”, ha sottolineato il team nel report pubblicato sul blog di missione.

L’idea più probabile è che, in qualche modo, l’ossigeno molecolare primordiale sia stato incorporato nei ghiacci della cometa durante la sua formazione e venga rilasciato con il vapore acqueo emesso oggi.
“Indipendentemente da cosa lo ha prodotto, l’O2 è rimasto in qualche modo protetto durante la fase di accrescimento della cometa: questo deve essere accaduto con delicatezza per evitare che venisse distrutto da ulteriori reazioni chimiche”, ha spiegato Altwegg.

La scoperta potrebbe avere importanti implicazioni anche nella ricerca di segni di vita extraterrestre attraverso la scansione delle atmosfere degli esopianeti.
Sul nostro pianeta, la molecola biatomica dell’ossigeno è disciolta nei mari ed è presente in atmosfera, dove la quantità è mantenuta pressoché costante dal processo di fotosintesi clorofilliana. L’ossigeno molecolare, perciò, assieme al metano è considerata un’ottima biosignatura per altri mondi, così come lo è per la Terra.

“Se pensiamo ai pianeti extrasolari, il nostro obiettivo è quello di rilevare biosignature. E per quanto ne so, finora la combinazione metano e O2 è il suggerimento che c’è vita lì sotto. Sulla cometa abbiamo sia metano che O2 ma niente vita. Quindi forse questa combinazione non è una biosignatura così valida”, ha ggiunto Altwegg.

Abundant molecular oxygen in the coma of comet 67P/Churyumov–Gerasimenko [abstract]

The composition of the neutral gas comas of most comets is dominated by H2O, CO and CO2, typically comprising as much as 95 per cent of the total gas density. In addition, cometary comas have been found to contain a rich array of other molecules, including sulfuric compounds and complex hydrocarbons. Molecular oxygen (O2), however, despite its detection on other icy bodies such as the moons of Jupiter and Saturn, has remained undetected in cometary comas. Here we report in situ measurement of O2 in the coma of comet 67P/Churyumov–Gerasimenko, with local abundances ranging from one per cent to ten per cent relative to H2O and with a mean value of 3.80 ± 0.85 per cent. Our observations indicate that the O2/H2O ratio is isotropic in the coma and does not change systematically with heliocentric distance. This suggests that primordial O2 was incorporated into the nucleus during the comet’s formation, which is unexpected given the low upper limits from remote sensing observations. Current Solar System formation models do not predict conditions that would allow this to occur.

Informazioni aggiuntive

In arrivo l’asteroide di Halloween

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L’immagine raffigura l’orbita dell’asteroide 2015 TB145, che il 31 ottobre prossimo passerà vicino alla Terra, a una distanza pari a 1.3 volte quella della Luna. Le ore sono espresse in UTC. Crediti: NASA/JPL-Caltech
Rappresentazione artistica di un oggetto near-Earth.

Gli scienziati della NASA stanno monitorando il passaggio ravvicinato dell’asteroide 2015 TB145, previsto per il giorno di Halloween, con numerosi telescopi ottici e il Deep Space Network in California. L’asteroide sfreccerà a una distanza di poco superiore a quella della Luna il 31 ottobre prossimo, alle 18:05 ora italiana. Gli astronomi sfrutteranno il passaggio ravvicinato dell’oggetto, che si stima abbia una dimensione di circa 400 metri, per studiarlo con tutti gli strumenti a loro disposizione.

L’asteroide 2015 TB145 è stato scoperto il 10 ottobre 2015 dal telescopio Pan-STARRS-1 del Panoramic Survey Telescope and Rapid Response System, che fa parte del programma Near-Earth Observation Object (NEOO) della NASA. Stando a quanto afferma il catalogo degli oggetti near-Earth (Near Earth Object, NEO) del Minor Planet Center, questo sarà l’approccio più ravvicinato fino al passaggio dell’asteroide 1999 AN10, che ha un diametro di circa 800 metri e che arriverà a una distanza pari a quella della Luna (380.000 km) nell’agosto 2027.

L’immagine raffigura l’orbita dell’asteroide 2015 TB145, che il 31 ottobre prossimo passerà vicino alla Terra, a una distanza pari a 1.3 volte quella della Luna. Le ore sono espresse in UTC. Crediti: NASA/JPL-Caltech

«Conosciamo con precisione la traiettoria di 2015 TB145», ha detto Paul Chodas, direttore del Centro per gli Studi dei Near Earth Object al Jet Propulsion Laboratory della NASA. «Al punto di massimo avvicinamento si troverà a circa 480.000 km da noi, ovvero 1.3 volte la distanza della Luna. Sebbene si tratti di una distanza molto piccola rispetto agli standard celesti, ci aspettiamo di osservare un oggetto piuttosto debole, perciò chi vorrà osservarlo dovrà munirsi almeno di un piccolo telescopio». L’influenza gravitazionale dell’asteroide è così piccola che il suo passaggio non avrà alcun effetto rilevabile sulla Luna o qui sulla Terra.

Il Centro per gli studi dei NEO presso il JPL è uno dei nodi centrali per questo tipo di osservazioni e analisi dati. Inoltre è uno dei team chiave all’interno della collaborazione internazionale di scienziati che tengono monitorato il cielo con i loro telescopi alla ricerca di asteroidi potenzialmente pericolosi per il nostro pianeta. Per fare questo ne studiano con precisione le traiettorie grazie alle quali valutano la probabilità di impatto.

«Il passaggio ravvicinato di 2015 TB145 , insieme alle sue dimensioni, suggerisce che sarà uno uno dei candati migliori per osservazioni radar da qui a molti anni», ha dichiarato Lance Benner del JPL , che coordina il programma di ricerca di asteroidi con radar. «Abbiamo in programma di testare una nuova funzionalità per ottenere immagini radar con una risoluzione di due metri. Sarebbe la prima volta che potremmo raggiungere risoluzioni simili e speriamo di arrivare a osservare dettagli senza precedenti».

Durante il monitoraggio, gli scienziati utilizzeranno l’antenna DSS 13 da 34 metri del Goldston Observatory per studiare la superficie dell’asteroide. I segnali radar saranno poi raccolti dal Green Bank Telescope del National Radio Astronomy Observatory in West Virginia, e dall’Osservatorio di Arecibo a Porto Rico. Gli scienziati della NASA sperano di ottenere immagini radar dell’asteroide con una risoluzione di 2 metri per pixel. Questo dovrebbe permettere di rivelare un gran numero di dettagli dell’oggetto, la superficie, la forma, le dimensioni e molte altre proprietà fisiche.

«L’orbita è estremamente allungata, con una forte inclinazione al di sotto del piano del Sistema solare», ha spiegato Benner. «Il fatto che l’oggetto abbia un’orbita così peculiare e una velocità di circa 35 km/s ha fatto sorgere il sospetto che si possa trattare di un qualche tipo di cometa. Se così fosse, sarebbe la prima volta che il radar Goldstone riesce a riprendere una cometa da una distanza così ravvicinata».

Il programma di osservazione dei NEO della NASA rileva, traccia e caratterizza piccoli corpi del sistema solare che passano entro 50 milioni di km di distanza dalla Terra, utilizzando sia telescopi terrestri che osservatori spaziali. Il programma NEOO, chiamato anche “spaceguard”, è in grado di scoprire questo tipo di oggetti, caratterizzarne la natura fisica, e ricavarne le orbite per determinare se possano essere potenzialmente pericolosi per il nostro pianeta. Non esistono al momento minacce concrete, solo la continua e innocua caduta di meteoroidi, piccoli asteroidi che si consumano bruciando nell’atmosfera.

La mappa e le effemeridi per seguire 2015 TB145 dal 30 al 2 ottobre (a cura del GAMP).

Cassini pronta a un tuffo da record nei geyser di Encelado

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La sonda americana Cassini assaggerà un oceano extraterrestre, tuffandosi nel bel mezzo di uno dei potenti geyser che si staccano dal polo sud di Encelado, una piccola luna di Saturno. Alle 16:22 ora italiana del 28 ottobre, Cassini sorvolerà la regione polare dell’emisfero meridionale di Encelado a una quota di soli 49 chilometri. Mai prima d’ora la sonda era sfrecciata attraverso un geyser a quote così basse.

Lo scopo del flyby sarà di quantificare il livello di attività idrotermale all’opera all’interno di Encelado, un aspetto chiave nello studio del potenziale biologico della luna. In particolare, lo spettrometro INMS a bordo di Cassini cercherà tracce di idrogeno molecolare all’interno dei campioni prelevati dal pennacchio.

L'oceano globale che si nasconde al di sotto della crosta ghiacciata di Encelado. Credits NASA/JPL-Caltech/Space Science Institute

“Confermare la presenza di idrogeno molecolare nel pennacchio sarebbe un’altra prova dell’esistenza di attività idrotermali all’opera sul fondale dell’oceano di Encelado,” spiega Hunter Waite del Southwest Research Institute. “La quantità di idrogeno sarebbe proporzionale alla magnitudine dell’attività idrotermale.”

Tuffandosi a un’altitudine così bassa, Cassini sarà in grado di raccogliere le molecole più pesanti tramite il suo strumento CDA. In precedenza, volando a quote più elevate, la sonda aveva già riscontrato la presenza di materiali organici. Ora, portandosi a soli 49 chilometri dalla superficie, lo strumento CDA, in grado di rilevare fino a 10 mila particelle per secondo, potrà dipingere un quadro molto più dettagliato dei processi geochimici all’opera all’interno di Encelado.

“Non c’è spazio per ambiguità,” spiega Sasha Kempf dell’Università del Colorado. “O i dati corrisponderanno a ciò che i nostri modelli ci dicono sul ritmo con cui i geyser producono materiale, oppure il nostro concetto di come i geyser operano andrà rivisto.”

La traiettoria del flyby di Cassini, in rosso, su una mappa dei geyser di Encelado. Credits NASA/JPL-Caltech/Space Science Institute

Un altro obiettivo del flyby sarà quello di risolvere la struttura dei geyser, ovvero determinare se sono composti da singoli getti, simili a colonne, oppure da “tende” continue di materiale, o ancora da una combinazione.

Cassini fotograferà l’emisfero meridionale di Encelado ad alta risoluzione durante la fase di avvicinamento, sfruttando la luce solare riflessa da Saturno. Poi, nel giro di una decina di secondi, la sonda attraverserà uno dei getti, volando a 30.6 mila chilometri orari. Infine, allontanandosi dalla luna, Cassini userà il suo occhio robotico per catturare splendide foto di Encelado illuminato dal Sole, con Saturno sullo sfondo.

Quello di dopodomani sarà inoltre il penultimo incontro ravvicinato di Cassini con questo straordinario mondo alieno. L’ultimo flyby, previsto per il 19 Dicembre di quest’anno, vedrà la sonda passare a 4999 chilometri dalla superficie della luna.

Il più recente flyby di Encelado risale al 14 Ottobre di quest’anno, quando Cassini aveva fotografato per la prima volta le regioni polari dell’emisfero settentrionale, da poco uscite da un’oscurità che le aveva tenute nascoste dall’occhio di Cassini dall’inizio della missione (clicca qui per le foto del flyby).

New Horizons incomincia a virare verso la sua prossima destinazione

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Alle 19:50 ora italiana del 22 ottobre, la sonda americana New Horizons ha riacceso i suoi propulsori a idrazina e completato la prima delle quattro manovre necessarie a raggiungere la sua prossima destinazione, il corpo 2014 MU69 nella Fascia di Kuiper, nel Gennaio 2019.

La manovra è durata 16 minuti ed è risultata in un cambiamento di velocità pari a circa 10 metri al secondo. Il segnale di conferma della buona riuscita della manovra ha raggiunto il centro di controllo di Laurel, nel Maryland, alle 2:30 di stamattina ora italiana. Le prossime manovre sono previste per il 25 e il 28 Ottobre e il 4 Novembre. In totale, le quattro manovre comporteranno un cambiamento di velocità di circa 57 metri al secondo.

New Horizons si trova attualmente 120 milioni di chilometri oltre Plutone, a 5.08 miliardi di chilometri dalla Terra.

La nuova destinazione della sonda americana è un mondo largo 30-45 chilometri, individuato automaticamente dal software a bordo del telescopio spaziale Hubble il 27 Giugno 2014 in alcune immagini ottenute il giorno precedente. Tra il 2 e il 23 Agosto successivi, Hubble ha osservato l’oggetto altre 930 volte, confermando che, dei cinque candidati osservati, era il più accessibile vista la traiettoria di New Horizons. Degli altri quattro obiettivi, tre sono stati scartati quasi immediatamente. La decisione finale, presa alla fine di Agosto di quest’anno (clicca qui per i dettagli) è stata tra 2014 MU69 (PT1 1110113Y) e 2014 PN70 (PT3 G12000JZ), un mondo leggermente più grande di MU69 ma anche più difficile da raggiungere.

MU69 si trova attualmente nella costellazione del Sagittario e quindi in prossimità del centro galattico, il che ha complicato ulteriormente il suo studio. Nonostante sia ben 10 volte più grande e 1000 più massiccio della cometa 67P/Churymov-Gerasimenko, dimora celeste delle sonde europee Rosetta e Philae, MU69 è 50-80 volte più piccolo, 10 mila volte meno massiccio e 100 mila volte meno luminoso di Plutone, visto dalla Terra.

Si pensa che gli oggetti della Fascia di Kuiper (KBO, plurale KBOs) siano i mattoncini da costruzione di corpi più massicci, quali Plutone. Inoltre, essendo molto meno influenzati dal Sole rispetto agli asteroidi e alle comete, sono probabilmente rimasti incontaminati dall’alba del sistema solare.

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