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Gruppo Astrofili DEEP SPACE

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23.01: “Astronautica da ridere: gli episodi più divertenti nella storia dell’esplorazione spaziale” di Paolo Attivissimo (a seguire osservazione degli oggetti del cielo con i telescopi del gruppo).
Per info: 0341.367584 – www.deepspace.it

Al Planetario di Ravenna

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23.01: Fotoreporter fra le stelle “Le meraviglie del cielo profondo” di Luca Argalia.
Per info: tel. 0544.62534 – info@arar.it
www.racine.ra.it/planet – www.arar.it

Venerdì dell’Universo 2015 – Incontri e seminari su Astronomia, Fisica e Scienze

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23.01: “La questione energetica italiana” di ALBERTO ROTONDI.
Per informazioni: Tel. 0532/97.42.11
E-mail: venerdiuniverso@fe.infn.it
www.fe.infn.it
www.unife.it/dipartimento/fisica

Un pianeta nano nel mirino di Dawn: la prima immagine di Cerere da VIR

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Una animazione delle immagini della camera di Dawn scattate il 13 Gennaio. Crediti: NASA/JPL-Caltech/UCLA/MPS/DLR/IDA/PSI
Una animazione delle immagini della camera di Dawn scattate il 13 Gennaio. Crediti: NASA/JPL-Caltech/UCLA/MPS/DLR/IDA/PSI

Dopo un anno passato in orbita intorno all’asteroide Vesta e altri due anni e mezzo di viaggio, la missione NASA Dawn sta finalmente raggiungendo il pianeta nano Cerere. Questa ultima fase di avvicinamento durerà fino al 6 Marzo, giorno in cui Dawn entrerà in orbita intorno a Cerere e darà il via ai successivi 16 mesi di studio. In questa ultima fase di approccio, gli strumenti si accenderanno ogni due settimane, iniziando a inviare a Terra le prime immagini e dati di questo mondo ancora sconosciuto.

Prima di Dawn, le migliori immagini di Cerere a nostra disposizione erano quelle scattate da Hubble Space Telescope nel 2003 e 2004 e mostravano poco e niente della sfocata superficie di quello che è il corpo piu grande della fascia degli asteroidi. Con i suoi 950 km di diametro, Cerere è a tutti gli effetti un pianeta nano che potrebbe nascondere ghiaccio, oceani sotterranei e chissà quali altre sorprese.
“Sappiamo molto del Sistema Solare e ancora così poco di questo corpo. Ora Dawn è pronto a rivoluzionare questo stato di cose” annuncia Marc Rayman, ingenere capo e Direttore di missione di Dawn, del Jet Propulsion Laboratory della NASA.

Il 13 gennaio la Camera di Dawn ha osservato per oltre un’ora Cerere da una distanza di 383,000 chilometri. Crediti: NASA/JPL-Caltech/UCLA/MPS/DLR/IDA/PSI

Il 13 gennaio, durante la prima accensione in fase di avvicinamento, sono state scattate una serie di immagini che la NASA presenta oggi al pubblico per la prima volta. La prima è un ritratto di Cerere realizzato dalla camera da 383,000 chilometri. Da questa distanza, la camera aveva un potere risolutivo paragonabile a quello con cui l’Hubble Space Telescope ha ritratto il pianeta nano, producendo un’immagine di Cerere che ricopre 26 pixel (in basso uno zoom elaborato al computer). La Camera ha continuato ad osservare Cerere per oltre un’ora e i dati raccolti hanno permesso al team di elaborare una prima animazione dove è visibile più della metà della superficie del corpo e su cui è già possibile indovinare zone chiare e scure (vedi l’immagine a sinistra e l’animazione in alto).

L’altra preziosa immagine (immagine in basso) è la prima di Cerere realizzata dallo spettrometro italiano VIR ed è tratta dai 6 cubi di dati raccolti finora dallo strumento in questa fase di avvicinamento.

La prima imagine di Cerere realizzata da VIR il 13 gennaio 2015, da 383,000 chilometri di distanza. Nel box al centro il campo di vista dello strumento di 256 x 123 pixels in cui è visibile Cerere di 10×10 pixels. Nei riquadri: un ingrandimento di Cerere in luce visibile (a 500nm) e nell’infrarosso (a 4800nm). Questo secondo box corrisponde a una mappa di temperatura dove sono visibili zone più calde (in bianco) e zone più fredde (in rosso). Credit: NASA/JPL-Caltech/UCLA/ASI/INAF

Nell’immagine originale è visibile il pianeta nano ritratto sempre il 13 gennaio, che misura 10 x 10 pixels, in un campo di vista totale dello strumento di 256 x 123 pixels (box al centro dell’immagine). I due zoom in alto sfruttano le varie lunghezze d’onda catturate da VIR per evidenziare come il pianeta nano apparirebbe in bianco e nero a un occhio umano e per mostrare una prima mappa termica nell’infrarosso del corpo celeste.

Racconta Maria Cristina De Sanctis, PI di VIR “la temperatura media che emerge da queste prime misure è in accordo con quanto ci aspettavamo e già da questa distanza, è possibile vedere che esistono sulla superficie di Cerere zone più o meno calde, che differiscono tra loro per qualche decina di gradi. La composizione di Cerere al momento non è molto chiara. Sicuramente si tratta di un oggetto ricco di materiali idrati, probabilmente ricco di acqua. Uno spettrometro ad immagini come VIR potrà dare indicazioni precise sul materiale che compone la superficie. L’altra cosa che andremo a studiare è l’eventuale presenza di getti di vapor d‘acqua in atmosfera, simili a quelli osservati su Encelado. Le passate osservazioni di Herschel di questo fenomeno ci fanno ben sperare. Il prossimo appuntamento è fissato per il 25 gennaio, prossima accensione degli strumenti. In questa data , la distanza tra Dawn e Cerere sarà scesa a circa 200,000 km e le fotografie realizzate dalla camera avranno una risoluzione migliore di quella del telescopio Hubble, mentre la risoluzione di VIR sarà circa un terzo rispetto a quella della camera. Di sicuro, già da queste fasi di avvicinamento, Cerere ci riserverà molte sorprese.”

La missione Dawn è gestita dal JPL per conto del Science Mission Directorate della NASA. Dawn è un progetto appartenente al Discovery Program, gestito dal Marshall Space Flight Center in Huntsville, Alabama. La University of California a Los Angeles (UCLA) è responsabile per la parte scientifica. La sonda è stata progettata e costruita da Orbital Sciences Corp. in Dulles, Virginia. Il German Aerospace Center, il Max Planck Institute for Solar System Research, l’ASI, Agenzia Spaziale Italiana e l’INAF, Istituto Nazionale di Astrofisica sono partner internazionali della missione.

Per maggiori informazioni: http://www.nasa.gov/dawn.

Vedi l’intervista completa a https://www.youtube.com/watch?v=WHV-MO-nF10&feature=youtu.be





Gruppo Amici del Cielo di Barzago

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22.01, ore 21:00: “Antimateria” di Davide Trezzi presso LA TORRE DEL SOLE, Via Caduti Sul Lavoro (ang. Via Locatelli), Brembate di Sopra (BG).

Per info: didattica@amicidelcielo.it
www.facebook.com/groups/15788424963
www.amicidelcielo.it

Insieme alla Luna, Mercurio e Venere daranno spettacolo

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La sera del 21 gennaio, appena dopo il tramonto del Sole, Mercurio e Venere sfideranno con la loro luminosità il chiarore del cielo al crepuscolo. La coppia di pianeti dovrebbe farcela a rendersi visibile, sia pure nei pressi dell’orizzonte (altezza di +12°). La vera impresa sarà invece riuscire a scorgere una giovanissima falce di Luna crescente, situata 2,4° a ovest di Mercurio.

Per le effemeridi di Luna e pianeti vedere il Cielo di gennaio

Al Planetario di Ravenna

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20.01: “Le stelle più grandi della Via Lattea” di Massimo Berretti.
Per info: tel. 0544.62534 – info@arar.it
www.racine.ra.it/planet – www.arar.it

Dopo più di un secolo di nuovo una congiunzione Marte-Nettuno degna di nota

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Alle 18:30 del 19 gennaio – osservando verso l’orizzonte ovest-sudovest – sarà possibile osservare Marte (mag. +1,1). Il piandeta rosso sarà alto circa +17° nell’Acquario, 18′ a nord della stella sigma Aquarii (mag. +4,8), ma la vera sorpresa verrà dal constatare (con un telescopio) che 18′ a nord di Marte ci sarà anche un puntino luminoso di mag. +7,9 che indicherà la presenza di… Nettuno.
Dato che l’avvicinamento del 1952 fu di fatto inosservabile, possiamo dire che dal 1900 ad oggi quello del 19 gennaio è il più stretto avvicinamento Marte-Nettuno mai effettivamente osservato in Italia.

Per le effemeridi di Luna e pianeti vedere il Cielo di gennaio

La cometa comincia a fare sul serio

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Credits: ESA/Rosetta/MPS for OSIRIS Team MPS/UPD/LAM/IAA/SSO/INTA/UPM/DASP/IDA

La prima immagine rilasciata per il 2015 dalla missione Rosetta ci mostra la spettacolare crescita dell’ attività della cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko e una vista senza precedenti del dettaglio dei getti di polvere espulsi dal nucleo.

La straordinaria immagine è stata ripresa il 22 novembre scorso tramite la camera grandangolare OSIRIS a bordo della sonda Rosetta, che in quel momento di trovava a una distanza di 30 km dal nucleo.

Malgrado la lunga esposizione mostri il nucleo quasi completamente avvolto dai getti gassosi, in realtà siamo soltanto all’inizio del lungo processo che, in prossimità del suo perielio, porterà la 67P/Churyumov-Gerasimenko a livelli di attività per ora inimmaginabili.

Arriva Mr Big, mezzo km d’asteroide

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Animazione del passaggio di 2004 BL86. Crediti: NASA/JPL-Caltech

HAI UN BINOCOLO? POTRAI VEDERLO ANCHE TU

Mai visto un asteroide dal vivo? L’occasione per riuscirci si presenterà a fine gennaio, quando 2004 BL86, un pietrone dalle dimensioni stimate attorno ai 500 metri, passerà a circa 1.2 milioni di chilometri dalla Terra. Non proprio uno sfioramento, diciamocelo, visto che corrisponde più o meno a tre volte la distanza che ci separa dalla Luna: dunque un margine di sicurezza abbondantemente superiore anche alla soglia più pessimista. Ma comunque un passaggio degno di nota, non fosse altro che per la sua rarità: per vedere un altro oggetto di dimensioni comparabili intersecare così da vicino l’orbita terrestre, fanno sapere dalla NASA, occorrerà infatti attendere l’incontro con 1999 AN10, in calendario per il mese d’agosto del 2027.

Animazione del passaggio di 2004 BL86. Crediti: NASA/JPL-Caltech

«Per l’asteroide 2004 BL86, quello di lunedì 26 gennaio sarà il passaggio più ravvicinato dei prossimi 200 anni», dice Don Yeomans, del Near Earth Object Program Office presso il Jet Propulsion Laboratory (JPL) della NASA. «Non rappresenta una minaccia per la Terra, perlomeno non nel prossimo futuro, ma si tratta comunque d’un flyby relativamente ravvicinato da parte d’un asteroide relativamente grande, dunque è un’opportunità unica per osservarlo e scoprire qualcosa di più».

Proprio per scoprire qualcosa di più sul versante scientifico, la NASA è intenzionata a seguire il passaggio di BL86 anche nella banda delle microonde, sfruttando come fossero dei radar le gigantesche antenne di Goldstone, in California, e dell’Osservatorio di Arecibo, a Puerto Rico. «Il giorno dopo il flyby, quando ci arriveranno i dati, saremo in grado di estrarne le prime immagini dettagliate», promette Lance Benner del JPL, al quale è stato affidato il compito di coordinare le osservazioni radar di BL86 con l’antenna di Goldstone, «e non escludiamo sorprese, visto che a oggi, di quest’asteroide, non sappiamo praticamente nulla».

Ma non sarà un’osservazione riservata ai radioastronomi: BL86 dovrebbe infatti essere sufficientemente grande, e passarci sufficientemente vicino, da diventare visibile a qualunque astrofilo dotato di un piccolo telescopio o anche solo di un comune binocolo. Dalle nostre parti, il momento ideale per l’osservazione dovrebbe presentarsi qualche ora dopo l’apice del flyby (che avverrà alle 17:20 ora italiana), nella notte fra il 26 e il 27 gennaio.

Un’occasione che nemmeno gli scienziati vogliono farsi scappare. «Mi sa che prenderò il binocolo e ci darò anch’io un’occhiata», dice Yeomans, «perché gli asteroidi hanno qualcosa di speciale. Non solo hanno portato sulla Terra i mattoni della vita e la maggior parte dell’acqua: in futuro potranno diventare miniere preziose per l’estrazione di minerali e di altre risorse naturali vitali. E saranno loro le “stazioni di rifornimento” per l’umanità nei futuri viaggi d’esplorazione del sistema solare. Insomma, c’è qualcosa, negli asteroidi, che mi fa venire voglia di guardarli».

Per seguire il passaggio in diretta webcast:

CASTORE, SEI STELLE IN UNA

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Dal tardo autunno fino alla primavera, la costellazione dei Gemelli, altissima al meridiano nelle serate di febbraio e marzo, si rende manifesta soprattutto per le due luminose stelle che identificano i mitici Dioscuri: la bianca Castore e la dorata Polluce.

È alquanto strano come gli arabi, attenti osservatori, stimarono le due stelle di luminosità identica mentre il Bayer attribuì a Castore la lettera α ad indicarne il primato luminoso su Polluce che ricevette quindi la β, stima in seguito ribadita anche da Flamsteed nel suo Historia Coelestis Britannica del 1714.

Qualcosa è evidentemente cambiato negli ultimi quattro secoli, ma non esiste purtroppo documento alcuno che possa attestare quale delle due abbia incrementato o diminuito la propria luminosità, e in che misura.

Mentre Polluce è una gigante arancione non dissimile da Arturo, isolata nello spazio ad una distanza di 35 anni luce, la luce di Castore, al contrario, ci rivela particolari incredibili sulla sua multipla natura; tanto che già W. Herschel la definì “la più pregevole stella doppia dell’emisfero boreale”, senza conoscerne ancora la sua reale natura di sistema multiplo, che verrà scoperta in seguito. Ma andiamo per ordine.

Castore splende di magnitudine 1,58, seconda per luminosità tra le stelle della costellazione dopo Polluce e ventiquattresima di tutta la volta celeste. Sembra sia stato G. Cassini nel 1678 il primo a risolvere la stella in due componenti anche se la sua doppia natura divenne nota solo nel 1719, allorché W. Herschel la presentò come primo esempio noto di stella binaria.

Storia alquanto curiosa: allorché, infatti, egli compilò nel 1784 e nel 1782 due cataloghi di stelle da lui definite “doppie”, era convinto che queste fossero solo prospettiche e non fisicamente legate tra loro come invece accade nella realtà; anzi, l’astronomo tedesco, ritenendo che tutte le stelle splendessero della stessa luminosità intrinseca, rilegava quella apparente solo alla distanza, aspettandosi quindi che la componente più luminosa in una coppia fosse quindi la più vicina. Ragione per la quale essa avrebbe dovuto mostrare un certo spostamento parallattico rispetto alla secondaria, più lontana.

Ma Herschel non ottenne alcun risultato a suffragare tale ipotesi, fortemente contrastata dal reverendo J. Michell che dedusse, tramite puro calcolo probabilistico, che erano ben troppe le stelle doppie che potevano spiegarsi con un casuale allineamento prospettico.

Quasi un quarto di secolo più tardi Herschel giunse alla medesima conclusione, rinnegando la sua ipotesi; questo arco di tempo gli permise infatti di osservare, per alcune delle doppie che seguiva, degli “archi di orbita” seguiti dalle componenti più deboli attorno alle più luminose. Abbandonando quindi la sua ipotesi, fu proprio Herschel ad annunciare per primo, nel 1803, che era la gravitazione a tenere legate tali binarie, fornendo come primo esempio proprio la stella α dei Gemelli, da lui seguita per lunghi anni.

Da allora, le due componenti di Castore sono denominate A la più luminosa (mv = 1,93) e B (mv = 2,97) la più debole. Dopo aver raggiunto la minima separazione angolare di 1,8” d’arco nel 1965, le due componenti vanno da allora “aprendosi”: al momento, la coppia AB è separata da circa 4,8” d’arco, valore in costante aumento fino al 2085, quando le due saranno lontane 7,35” d’arco.

L’uso di un comune telescopio è quindi già sufficiente per risolvere Castore in due stelline, entrambe bianco-azzurrine ma dalla evidente differenza di luminosità, a patto di effettuare l’osservazione sotto un cielo che restituisca immagini le più calme e puntiformi possibili.

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Misurazioni astrometriche relative alla posizione della coppia, effettuate a partire dal XIX secolo, hanno permesso di seguire l’arco orbitale finora percorso dalla componente B per circa metà dell’intera orbita; non essendo quindi noto con precisione, il periodo orbitale “più probabile” stimato sembra essere di 467 anni. Mettendo in relazione tali grandezze con i dati ottenuti dal satellite Hipparcos sulla distanza del sistema, stimata in 51 anni-luce, ne consegue che la distanza fra le due componenti varia da un minimo di 71 UA fino ad un massimo di 138 UA.

Nel 1904, H. Curtis annunciò che entrambe le stelle erano, a loro volta, doppie spettroscopiche: la duplicità si rese manifesta dallo spostamento periodico delle righe spettrali per effetto Doppler, dovuto al moto orbitale. Scoperta certamente degna di nota poiché, improvvisamente, Castore diveniva il secondo sistema quadruplo noto dopo quello di Epsilon Lyrae!

Studi condotti sui ciclici spostamenti delle righe spettrali, in stretta relazione con la velocità radiale delle stelle, forniscono alla coppia Aa e Ab, separata da 3 milioni di km, un periodo orbitale di 9 giorni; al contrario, le più vicine Ba e Bb impiegano poco meno di 3 giorni a compiere una rivoluzione attorno al comune centro di massa.

Le componenti secondarie di ognuna delle due coppie distano circa 0,12 e 0,03 UA dalle principali; mentre queste ultime sono stelle di sequenza principale di tipo A, con luminosità rispettivamente 34 (Aa) e 14 (Ba) volte quella solare, le due compagne più piccole sono entrambe di tipo M, più piccole e fredde del Sole e con la metà della sua massa. Ma le sorprese non finiscono qui.

Basta infatti un comune telescopio per poter individuare, a poco più di 1 primo dalla coppia principale, un’anonima stellina rossastra di decima grandezza che, osservata nel corso degli anni, ha reso manifesto lo stesso moto nello spazio delle componenti A e B: si tratta di Castore C, terza componente del sistema, che dista dalla coppia principale almeno 1000 UA (150 miliardi di km) e attorno alle quali sembrerebbe orbitare in non meno di 14 000 anni!

Castore C è una binaria sia spettroscopica sia ad eclisse, cioè le due stelle si eclissano a vicenda durante il loro moto orbitale. Il periodo orbitale è di 0,81428 giorni, corrispondenti a circa 19,54 ore.

Un periodo così breve indica che le due componenti sono molto vicine fra loro: 2,7 milioni di km. L’orbita delle due stelle si presenta quasi di taglio e ciò spiega perché le due componenti, viste dalla Terra, si eclissano a vicenda. Le due componenti, entrambe di classe M1Ve, possiedono caratteristiche quasi identiche: i valori di massa, raggio e luminosità sembrano essere rispettivamente la metà, 0,6 volte ed appena 7 centesimi di quelli del Sole per entrambe le componenti.


Le osservazioni nelle alte energie condotte da telescopi spaziali hanno rivelato che, nei raggi X, la coppia AB è ben quattro volte meno luminosa della componente C che, pur essendo composta da stelle fredde, sono tuttavia interessate da fenomeni di intensa portata. La sigla YY Gem con la quale è conosciuta la componente C identifica la presenza di una certa variabilità; a tutti gli effetti, le due nane rosse esibiscono intensi brillamenti superficiali a cui sono associate intense emissioni nei raggi X aventi luogo nelle rispettive corone, molto probabilmente dovute ad interazioni fra le stesse.

Castore C venne scoperta spettroscopicamente, quindi identificata come terza componente del sistema di Castore, nel 1926; in realtà, l’orbita di Castore C non è ben nota ma se questa dovesse essere iperbolica, allora Castore C sarebbe solo “momentaneamente” legata al sistema AB, dal quale si allontanerà in futuro. Tralasciando questo dato, al momento quello di Castore è ad ogni modo un sistema popolato, quindi, da ben sei stelle legate tra loro dalla mutua gravità: roba da capogiro!


L’ultima sorpresa nella nostra esplorazione virtuale del sistema di Castore è che essa da il nome all’omonima corrente di stelle che condivide lo stesso movimento nello spazio; il gruppo, scoperto nel 1990, è composto da circa una quindicina di stelle relativamente vicine e tutte della stessa età, stimata in circa 200 milioni di anni: tra queste, figurano Fomalhaut, Vega, Alderamin e Zubenelgenubi, tutte posizionate in punti molto lontani sulla volta celeste proprio a causa della loro vicinanza.

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Approfondimenti e link

Emergenza in corso sulla ISS [IN AGGIORNAMENTO]

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Samantha Cristoforetti esegue la procedura di purificazione della maschera in una simulazione di fuga di ammoniaca sulla ISS. Credit: ESA/S Corvaja

[Aggiornamento 17:30]

Samantha ci aggiorna anche in Italiano…

(IT) Grazie a tutti, stiamo tutti bene qui nel segmento russo e siamo al sicuro. Per aggiornamenti seguite @NASA e @Space_Station

— Sam Cristoforetti (@AstroSamantha) January 14, 2015

[Aggiornamento 16:20]

Samantha via Twitter ci conferma che è tutto a posto…

Hey everybody, thanks for your concern. We’re all safe & doing well in the Russian segment. Follow @Nasa for updates on @Space_Station today

— Sam Cristoforetti (@AstroSamantha) January 14, 2015

[Aggiornamento 14.30]

E’ arrivato il momento di riportare la situazione aggiornata:

  • Prima di tutto, l’equipaggio di Expedition 42, di cui fa parte anche la nostra Samantha Cristoforetti, è sano e salvo, e nessun rischio reale è stato corso da parte degli astronauti in queste ore.
  • Questa mattina attorno alle 09.50 a bordo della Stazione Spaziale Internazionale è scattato un allarme per contaminazione atmosferica da ammoniaca, che viene usata come liquido scambiatore nel sistema di raffreddamento dell’avamposto spaziale.
  • L’equipaggio ha indossato le maschere ad ossigeno e ha iniziato, come da procedure di sicurezza, a campionare la qualità dell’aria senza rilevare livelli tossici di ammoniaca.
  • Per precauzione agli astronauti è stato ordinato di spostarsi tutti nel segmento russo della ISS e di chiudere il portello del modulo Unity, che unisce la Stazione nelle sue due componenti, in attesa di nuove istruzioni.
  • Il “sovraffollamento” del segmento russo ha portato nel corso della mattinata ad alcuni ulteriori allarmi incendio, tutti prontamente accertati come falsi positivi.
  • Gli ultimi aggiornamenti dal controllo missione propendono per un falso allarme da contaminazione, dovuto ad un malfunzionamento di alcuni sensori, ma le indagini sono ancora in corso.
  • Fino a nuovo ordine l’equipaggio resta chiuso nella sezione russa della ISS, mentre da Terra si completa l’esecuzione delle procedure per la messa in sicurezza del segmento USOS. Tra poche ore agli astronauti sarà concesso di riaprire i portelli e rientrare in pieno possesso della Stazione.

[Aggiornamento 14.10]

Con un Tweet NASA conferma i “sospetti” di un falso allarme per quanto riguarda la perdita di ammoniaca rilevata stamane dai sensori di bordo.

#ISS flight controllers are not sure if the alarm was triggered by a pressure spike, a faulty sensor, or a problem in a computer relay box.

— NASA (@NASA) January 14, 2015

[Aggiornamento 14.05]

Ecco la trascrizione e la traduzione della comunicazione di Houston agli astronauti avvenuta alle 13.00 ora italiana. Per chi ha dimestichezza con l’inglese, abbiamo messo a disposizione anche lo spezzone dell’audio originale.

http://www.astronautinews.it/wp-content/uploads/2015/01/ISS-Houston-Sitrep-20150114T1300.mp3

[B] = Barry “Butch” Wilmore, comandante della ISS

[H] = Controllo missione di Houston

TRASCRIZIONE

[B] – Houston, go ahead.

[H] – Hey Butch, no change to the step I told you about earlier, with the Loop Bravo, and the LTL loops, and the leak, and all that stuff that we talked about before. We are still doing a graceful powerdown. There are several things that we decided to not power down, we’re hanging on to. We have also still not vented Loop Bravo, which of course is a step that you can’t take back.
So big picture perspective, we’re still trying to figure out exactly what happened. We’re not entirely convinced that this is an ammonia leak, as you probabily suspect from the fact that we started, stopped, and started over again. Maybe there’s the possibility that this is a combination of sensor problems, MDM partial failures ant thermal effects, all together in the exact wrong way, to make this thing look like it was a classic ammonia leak.
Bottom line is, we’ve get all the experts coming now, everybody is pouring over the data, we’ve got all the smart folks taking a look at it, and we’re trying to exactly figure out what’s going on. Right now our dP/dT is still effectively stable. Sometimes it looks like it’s a little bit positive, but it’s certainly not increasing at a great rate. We’ve at least a full day before it hits any kind of limit right now for a positive pressure relief, or anything like that.
Bottom line is, we’re pretty much standing with the configuration we have right now, all the folks have come in and talking about the data, de-construct this thing and trying to figure out exactly what happened.

[B] – Thanks, we  really appreciate that summary. We’ll just stand by and if we can do anything on our end, you have force. Thank you for that.

[H] – Yeah, we wish we had more for you guys to do, but we don’t. So, enjoy your in-prompt day off a little bit. We’ll keep you guys informed with what’s going on. We’ll also let you know as the conventional wisdom comes around on the story. Like I said the good news is that right now we’re not utterly convinced that we had a very bad problem that we had indications of. Clearly we did  the right thing with the indications that we had, but we’re still trying to figure out what the actual event is.

TRADUZIONE ITALIANA

[B] – Houston, avanti.

[H] – Ehi Butch, nessun cambiamento allo step di cui discutevamo prima, a proposito del circuito Bravo, i circuiti LTL, e la perdita, e tutta quella roba di cui abbiamo parlato. Stiamo ancora procedendo con cautela con gli spegnimenti. Ci sono diverse cose che abbiamo deciso di non spegnere, che teniamo su. Abbiamo anche evitato di svuotare il circuito Bravo, dato che si tratta di un passo irreversibile (cioè lo svuotamento nello spazio del contenuto in ammoniaca del circuito di raffreddamento B della ISS, ndr).
Quindi, la situazione generale è questa: stiamo ancora cercando di capire cosa sia successo. Non siamo del tutto convinti che si tratti di una vera perdita di ammoniaca, come avrai già capito dal fatto che abbiamo iniziato (ad applicare certe procedure, ndr), poi ci siamo fermati, e poi ricominciato da capo.
Potrebbe esserci la possibilità che si tratti di una combinazione di sensori difettosi, di un fallimento parziale dell’MDM (computer che si occupano di ricevere la telemetria dai trasduttori e di girarla ai computer principali, ndr) e di effetti termici, che tutti insieme e nell’ordine sbagliato hanno fatto sembrare questa cosa una classica perdita di ammoniaca.
In sostanza, abbiamo qui tutti gli esperti ora, e stanno analizzando i dati. Abbiamo tutti i cervelloni che stanno dando un’occhiata e stiamo cercando di capire cosa sta succedendo. In questo momento il dP/dT (derivata prima della pressione rispetto al tempo, in altre parole la misura di eventuali variazioni della pressione atmosferica interna alla ISS, ndr) è ancora molto stabile. A volte sembra esserci un lieve incremento ma di certo non cresce velocemente. Abbiamo almeno un altro giorno buono prima che i livelli si avvicinino a qualunque limite che richieda uno scarico della pressione, o qualcosa di simile.

Quindi restiamo nella configurazione attuale; qui sono arrivati tutti e stanno discutendo dei dati (di telemetria, ndr), dissezionando questa cosa e cercando di capire esattamente cosa sia successo.

[B] – Mille grazie per questo riassunto, lo apprezziamo molto. Restiamo in attesa e se possiamo fare qualcosa puoi contare su di noi. Grazie ancora.

[H] – Sì, vorremmo aver qualcosa in più da farvi fare ragazzi, ma per ora nulla, quindi, godetevi il vostro giorno libero a sorpresa. Vi terremo informati non appena avremo capito bene questa storia. Come ho detto, la buona notizia in questo momento è che non siamo del tutto convinti che abbiamo davvero avuto il grave problema di cui sembravamo avere indicazione. Chiaramente abbiamo fatto la cosa giusta visti i segnali che avevamo, ma stiamo ancora cercando di capire la reale natura di questo evento.

[Aggiornamento 13.15]

Abbiamo precedentemente citato i segmenti USOS (americano/internazionale) e russo della ISS. Questa foto mostra la posizione dei moduli russi.

Il segmento russo della ISS – Fonte NASA/Wikipedia.

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[Aggiornamento 13.05]

Houston ha comunicato poco fa agli astronauti che probabilmente anche il primo allarme, quello legato alla perdita di ammoniaca, potrebbere essere stato un falso positivo dovuto ad una sfortunata serie di concause. Stiamo riascoltando il segmento audio per preparar una traduzione tecnicamente corretta.

Nel frattempo, ecco il video che mostra il momento in cui è scattato l’allarme questa mattina a bordo della Stazione Spaziale Internazionale. Come abbiamo precedentemente spiegato, AstronautiNEWS registra costantemente lo streaming ISS Live di NASA su Ustream per farne fonte di articoli, commenti e curiosità per i nostri siti, e proprio queste registrazioni sono la nostra fonte primaria per gli aggiornamenti che stiamo pubblicando.

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[Aggiornamento 13.00]

Nuovo allarme incendio poco fa, e nuova conferma degli astronauti che si tratta di un falso allarme, questa volta nel modulo MRM/Rassvet sempre nel segmento russo. Ricordiamo ai nostri lettori che la situazione è sotto controllo, Mosca e Houston stanno lavorando insieme agli astronauti e applicando le procedure previste per riconfigurare correttamente la Stazione, dopo che vari apparati del segmento USOS della Stazione sono stati spenti o disattivati (esperimenti scientifici inclusi) in seguito all’allarme da contaminazione ammoniaca di questa mattina. Al momento gli astronauti sono tutti nel segmento russo e non vi sono pericoli per la loro incolumità.

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[Aggiornamento 12.50]

In questa immagine, tratta dal sito ISS Live! della NASA vedamo il dettaglio del sistema di raffreddamento ad ammoniaca della ISS, con telemetria reale letta alle 12.15 circa di oggi.

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[Aggiornamento 12.40]

Nella sezione russa della ISS gli astronauti stanno attivando, giudati dal controllo missione a Mosca e dalle procedure, i sistemi Elektron e Vozduh. Elektron è un appparato per la generazione di ossigno, che scinde l’acqua tramite elettrolisi e inietta l’ossigeno nella Stazione, mentre l’idrogeno viene espulso all’esterno. Vozduh invece è un apparato in grado di assorbire CO2 dall’atmosfera della ISS, tramite particolari filtri rigenerabili. Ricordiamo che al momento tutti e sei gli astronauti si trovano nel segmento russo della ISS, e che alcuni apparati della segmento USOS (la parte americano/internazionale della ISS) è parzialmente inoperante per le misure di sicurezza previste dalle procedure dopo l’allarme per contaminazione da ammoniaca scattato in mattinata.

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[Aggiornamento 12.30]
Poco fa si è verificato un allarme incendio sulla Stazione, che però non ha trovato riscontro nelle osservazioni degli astronauti. Capita relativamente spesso che i sensori anti incendio rilevino falsi positivi, e la collaborazione attiva degli astronauti consente di accertare immediatamente la situazione. Houston e Mosca sono in contatto radio con gli astronauti e stanno diagnosticando il comportamento dei sensori  antincendio numero 7, 8 e 9 del modulo russo Zarya / FGB, che segnalano un incendio ma che chiaramente non è stato confermato in alcun modo (niente fumo né odori, riferiscono via radio) dagli astronauti. La situazione è in  evoluzione ma al possiamo confermare che NON è in corso un incendio.

[Aggiornamento 12.15]
Una specificazione per tutti i nostri lettori: la nostra fonte è il loop audio/video di NASA, che viene trasmesso su questa pagina ufficiale NASA su Ustream http://www.ustream.tv/channel/live-iss-stream, che monitoriamo costantemente per ricavarne informazioni e curiosità sulla missione Futura di Samantha Cristoforetti. Il canale è attivo anche in questo momento e chiunque abbia dimestichezza con l’inglese può ascoltare facilmente. Al momento in cui scriviamo l’immagine sulla pagina ustream è blu perché la Stazione non è in vista dei satelliti TDRS e non ha abbastanza banda per trasmettere video, mentre l’audio è disponibile senza problemi.

[Aggiornamento 11:47]
Il centro di controllo di Mosca dopo essersi assicurato delle buone condizioni dell’equipaggio, ha confermato che la situazione è “off-nominal” ma comunque sotto controllo.
Attualmente la perdita sembra sia sul circuito B del Nodo 2 mentre nel settore Russo le letture sulla contaminazione riportano aria pulita e gli astronauti non indossano più le maschere.

[Aggiornamento 11:14]
L’equipaggio, come da procedura, ha chiuso il portello di collegamento fra la sezione internazionale della ISS e quella russa, isolandosi in quest’ultima. Da questa posizione di sicurezza continuerà l’analisi della situazione nella sezione evacuata.

[Aggiornamento 10:55]
La perdita di ammoniaca sembra confermata dall’innalzamento della pressione ambientale interna della ISS. Le operazioni di ricerca del guasto e messa in sicurezza dell’equipaggio e della Stazione stanno continuando.

Da alcuni minuti sulla ISS è stato attivato l’allarme per contaminazione dell’atmosfera da ammoniaca.
L’equipaggio attualmente indossa i dispositivi di sicurezza per la respirazione e sono in corso le analisi per l’accertamento delle cause.
Sulla ISS uno dei pericoli maggiori è la contaminazione da ammoniaca, utilizzata per il raffreddamento dei sistemi nei vari moduli è un gas altamente tossico e fra i maggiori rischi, se inalata, per gli astronauti a bordo.
L’equipaggio è ovviamente addestrato per la gestione di tale tipologia di emergenza (nella foto Samantha Cristoforetti impegnata in una simulazione a terra), questo è quello che raccontava l’astronauta italiana durante l’addestamento nel suo diario:
“Più che un incendio e la depressurizzazione, lo scenario che richiede una risposta immediata senza scherzi è una perdita di ammoniaca in cabina. Se vi state chiedendo da dove quell’ammoniaca potrebbe venire, ecco un po’ di informazioni di base sulla progettazione della ISS. Tutto l’equipaggiamento che abbiamo a bordo genera molto calore, di cui dobbiamo liberarci in qualche modo. Ecco perché abbiamo condutture di raffreddamento che corrono lungo tutta la Stazione: attraverso delle piastre fredde e gli scambiatori di calore della cabina, l’acqua in quelle condutture raccoglie il calore. Nelle condutture abbiamo scambiatori di calore di interfaccia, in cui il calore viene trasferito dalle condutture di raffreddamento interne a quelle esterne. E in queste ultime, avete indovinato, abbiamo l’ammoniaca. Due pompe esterne si assicurano che quell’ammoniaca scorra dagli scambiatori di calore, dove raccoglie il carico di calore, ai grandi radiatori della Stazione, dove il calore viene respinto nello spazio.

Così, ora sapete che c’è un’interfaccia fra le condutture esterne dell’ammoniaca e le condutture interne dell’acqua. Cosa accade se c’è una rottura in quell’interfaccia, lo scambiatore di calore? Beh, visto che le condutture esterne sono a una pressione più alta, è probabile che l’ammoniaca fluirebbe nella cabina.

L’ammoniaca è estremamente tossica e ha un odore molto caratteristico. Tuttavia, se la perdita è abbastanza piccola, il sistema di autorilevamento del veicolo o il controllo a terra potrebbero notarla per primi, osservando un aumento nella quantità di fluido negli accumulatori del sistema di raffreddamento: visto che non stiamo aggiungendo alcuna acqua, un aumento nella quantità deve venire dall’ammoniaca.”Dalla nota del diario L-142

“Visto che l’ammoniaca è altamente tossica, la prima azione è indossare una maschera a ossigeno. Lungo tutta la ISS abbiamo almeno una maschera, spesso due, in ogni modulo, pronta per essere utilizzata. Le maschere del segmento USA hanno un piccolo serbatoio contenente una riserva di 7 minuti di ossigeno. Potrebbe non sembrare molto, ma queste maschere vengono usate solo per la risposta iniziale, come vedrete.

Con le maschere indossate, quelli di noi che erano nel segmento USOS (moduli USA più Columbus e JEM) si sono spostati rapidamente a poppa verso il segmento russo—non solo perché i nostri veicoli Soyuz sono agganciati lì, ma anche per una importante differenza di progettazione: non ci sono condutture dell’ammoniaca nel segmento russo.

Assicurandoci di sapere dove si trovano tutti e sei i membri dell’equipaggio, chiudiamo il portello del Nodo 1, isolandoci così dal segmento USOS e dalla fonte della perdita. A quel punto ci liberiamo dello strato esterno di indumenti, potenzialmente contaminati, e li lasciamo nel PMA, il piccolo elemento adattatore fra il segmento USOS e quello russo, chiudendo il portello di poppa del PMA mentre ci ritiriamo verso il modulo russo FGB.

È il momento di recuperare le nostre maschere con respiratore e montarci sopra le cartucce rosa con i filtri per l’ammoniaca. Il passaggio dalle maschere O2 ai respiratori per l’ammoniaca deve essere fatto molto velocemente e attentamente, visto che non sappiamo quale sia la concentrazione dell’ammoniaca nell’atmosfera del segmento russo. Presupponendo che l’atmosfera contaminata, teniamo gli occhi chiusi e tratteniamo il respiro mentre togliamo le maschere O2. Una volta indossati i respiratori, facciamo un certo numero di respiri di purificazione per liberarci dell’eventuale ammoniaca all’interno del cappuccio. Solo allora riapriamo gli occhi.

Dopo che ciascuno è passato in sicurezza al respiratore, è tempo di capire quanta ammoniaca abbiamo nell’atmosfera del segmento russo. Per quello disponiamo di un sistema di misura con chip dedicato. Nello scenario peggiore, il segmento russo è contaminato a un livello tale che dobbiamo evacuare la stazione. Se la concentrazione dell’ammoniaca non è così alta, possiamo filtrare l’aria attraverso le nostre cartucce respiratore attraverso la respirazione. Poi rimaniamo per diverse ore, fino a quando le misure mostrano un’atmosfera sicura. Nel caso fortunato in cui l’aria nel segmento russo non fosse stata contaminata, potremmo togliere le maschere e respirare normalmente. Sicura, di certo, ma con il segmento USOS perduto, almeno per il momento.”Dalla nota del diario L-140

Manterremo aggiornato questo articolo con gli sviluppi principali della situazione nelle prossime ore. Per tutti gli aggiornamenti vedi anche la notizia originale.

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Pianeti nani? Cercate più lontano

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Il pianeta nano Eris, nella ricostruzione artistica basata sulle riprese effettuate all’osservatorio dell’ESO di La Silla in Cile. Crediti: ESO/L. Calçada e Nick Risinger (skysurvey.org)
Il pianeta nano Eris, nella ricostruzione artistica basata sulle riprese effettuate all’osservatorio dell’ESO di La Silla in Cile. Crediti: ESO/L. Calçada e Nick Risinger (skysurvey.org)

Il 2015 sarà l’anno dei pianeti nani? Non pensate però a previsioni con implicazioni simil-astrologiche, noi stiamo parlando di prospettive concrete e scientificamente documentate. Con una accoppiata storica, ovvero l’arrivo a marzo all’asteroide Cerere della sonda Dawn, e la missione New Horizons praticamente alla porte di Plutone e della sua luna Caronte, che raggiungerà a luglio, per astronomi e appassionati c’è davvero da aspettarsi grandissimi risultati.

Ma la caccia agli elusivi oggetti celesti che si annidano alle propaggini del Sistema solare prosegue anche da Terra: un lavoro lungo e difficile. Ad analizzare in modo collettivo i dati degli ultimi sette anni di osservazioni continuative condotte dal Catalina Sky Survey (CSS) e dalla Siding Spring Survey (SSS), due campagne osservative il cui obiettivo principale è quello di individuare asteroidi prossimi alla Terra, ci ha pensato il team di astronomi guidati da Michael Brown, del Caltech, il California Institute of Technology di Pasadena, negli Stati Uniti. I ricercatori hanno passato al setaccio l’enorme archivio di riprese prodotte dai due programmi di ricerca. Dando però la caccia a oggetti molto più lontani degli asteroidi della fascia principale (approssimativamente tra le orbite di Marte e Giove), ovvero quelli che potrebbero trovarsi nella fascia di Kuiper, oltre Nettuno. Poiché questi oggetti possiedono moti apparenti assai piccoli, l’indagine è stata portata avanti confrontando, grazie a software dedicati, le riprese di una stessa zona celeste fatte a parecchi giorni o addirittura mesi di distanza. I risultati parlano piuttosto chiaro: almeno entro il limite di magnitudine apparente degli oggetti ripresi dalle due survey, ovvero fino al valore di 19,4 per CSS e di 18,9 per SSS, tutto quello che c’era da scoprire è stato già scoperto. In realtà rimane ancora una zona che potenzialmente potrebbe riservare sorprese: il nastro di cielo che si stende lungo il piano della Galassia, ovvero la Via Lattea. Tuttavia, anche se i calcoli di Brown e colleghi danno un incoraggiante 32 per cento di probabilità che là si possa scoprire almeno un altro pianeta nano della taglia di Plutone nella Fascia di Kuiper (un KBO, Kuiper Belt Object), quindi non certo un piccolo ‘sasso’ spaziale, il problema rimane quello di riuscirlo a identificare tra la selva di stelle che affollano quella regione.

Per Brown, che di pianeti nani se ne intende – è stato infatti lui, insieme a Chad Trujillo e David Rabinowitz, a scoprire Eris, il più grande KBO finora noto, praticamente uguale per dimensioni a Plutone – meglio cercare oggetti simili a distanze ancora più grandi: verso cioè la nube di Oort, che si estende fino a decine di migliaia di unità astronomiche dal Sole. Lo scienziato ribadisce questa idea in un post sul suo blog proprio in occasione del decimo anniversario della scoperta di Eris, avvenuta l’8 gennaio del 2005. È dunque questa per Brown l’ultima frontiera per i cacciatori di “quasi pianeti” ai confini estremi del Sistema solare (e oltre), dove potremmo trovare corpi celesti della taglia di Marte o, addirittura, della Terra. Compito comunque assai arduo, che richiederà tutta la potenza osservativa dei telescopi, da terra e dallo spazio, di nuova generazione, come il James Webb o magari l’E-ELT. Per quelli dovremmo aspettare ancora un po’ di anni, ma siamo pronti a scommettere che, con New Horizons e Dawn pronti a entrare in azione, il 2015 sarà davvero l’anno dei pianeti nani.

Per saperne di più:

  • l’articolo A serendipitous all sky survey for bright objects in the outer solar system di  M.E. Brown et al., sottomesso per la pubblicazione alla rivista The Astronomical Journal

Associazione Ligure Astrofili Polaris

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16.01: “SpaceX e Orion: i lanciatori privati nel mercato USA” di Fabio Quarato.
Per info: cell. 346.2402066 – info@astropolaris.it
www.astropolaris.it

Gruppo Astrofili DEEP SPACE

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16.01: “«Bagnàa o sutt, per San Luca somenna tutt»: i lavori autunnali e il riposo invernale” di Elio Antonello.
Per info: 0341.367584 – www.deepspace.it

Suggestiva congiunzione tra Luna e Saturno

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Il 16 gennaio alle 6:30 una falce di Luna calante avvicinerà Saturno fino a una distanza angolare di 3,3°, proprio mentre il pianeta (mag. –0,6) sarà a 1,5° da Graffias (beta Scorpii; mag. +2,5). se la trasparenza dell’aria sarà buona, come spesso avviene in gennaio, anche questa “normale” congiunzione tra Luna e Saturno potrà regalare qualche piccola emozione all’osservatore mattiniero.

Per le effemeridi di Luna e pianeti vedere il Cielo di gennaio

FameLab selezioni regionali a Padova il 20 febbraio

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Il 20 Febbraio 2015 a partire dalle ore 9.00, presso la sala dell’Auditorium del Centro Culturale Altinate/San Gaetano a Padova si svolgerà la prima selezione in Veneto della manifestazione internazionale FameLab. Si tratta di un vero e proprio talent-show della divulgazione scientifica che quest’anno per la prima volta vedrà in Veneto il casting per la finale nazionale.

Giovani scienziati, ricercatori, studenti possono mettere alla prova il proprio talento di comunicatori, partecipando a FameLab, dove si sfideranno sul terreno della comunicazione. In soli tre minuti i partecipanti al casting dovranno far comprendere in modo chiaro e corretto al pubblico l’argomento della loro ricerca scientifica.

La competizione è riservata agli under 40!

La manifestazione (www.famelab.org, www.famelab-italy.it) è stata ideata dal Cheltenham Science Festival nel 2005 e promossa dal British Council in diversi Paesi in tutto il mondo. Al momento coinvolge 27 Paesi tra Europa, Asia, America, Africa e Oceania. In Italia il concorso viene promosso e coordinato dal 2012 dal British Council e da Psiquadro.

FameLab Italia prevede una prima fase di selezioni locali in sette città, le altre sedi oltre a Padova sono Ancona, Bologna, Genova, Napoli, Perugia e Trieste.

I concorrenti che si iscriveranno alla selezione padovana avranno anche la possibilità di partecipare gratuitamente a un seminario intensivo di public speaking a cura di un attore professionista.

I candidati saranno giudicati da una giuria di cinque esperti: scienziati, ingegneri, sociologi, giornalisti scientifici e attori,rappresentando le diverse aree del mondo della scienza e della comunicazione. Il successo dei candidati dipenderà quindi dal voto della Giuria e dall’approvazione della platea di spettatori presenti all’evento.

Attraverso le selezioni locali saranno scelti due finalisti per ogni città che parteciperanno alla FameLab Masterclass – un workshop di formazione in comunicazione della scienza – e avranno accesso alla finale nazionale del concorso, che si terrà a Milano il 9 maggio prossimo, nell’ambito dell’Expo 2015.

Il vincitore di FameLab Italia parteciperà alla finale internazionale di FameLab International, gareggiando con 27 concorrenti di altrettanti paesi del mondo. La gara si svolgerà nel mese di giugno 2015 a Cheltenham in Inghilterra, durante il Cheltenham Science Festival.

Famelab Padova è promosso e organizzato da Gruppo Pleiadi per la divulgazione scientifica, Università degli Studi di Padova e Istituto Nazionale di Astrofisica – Osservatorio Astronomico di Padova.

Le iscrizioni per la selezione di Padova scadono il 13 febbraio 2015. Per iscriversi è necessario scaricare l’apposito modulo disponibile sul sito www.famelab-italy.it cliccando sul tasto blu in altro “Come partecipare nel 2015”, da compilare e inviare a padova@famelab-italy.it.

Per informazioni e iscrizioni

padova@famelab-italy.it

www.famelab-italy.it

Al Planetario di Ravenna

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13.01: “Il cielo della merla” di Giuliano Deserti.
Per info: tel. 0544.62534 – info@arar.it
www.racine.ra.it/planet – www.arar.it

Comete – LOVEJOY SUPERSTAR, “ma le piace vincere facile”

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Una splendida ripresa a colori della C/2014 Q2 Lovejoy di Rolando Ligustri. La cometa è stata ripresa il 29/12/2014 di passaggio vicino all'ammasso globulare M79 (in basso a sinistra rispetto alla cometa). Campo: 200' x 150' ripresa in remoto da Siding Spring-Itelescope.net con un Takahashi apo 106/530, posa 1 x 120".

EFFEMERIDI

Regina del mese, invece, sarà la C/2014 Q2 Lovejoy, che in dicembre si è “attivata” mostrando oltre a una larga chioma verde anche una bella coda di ioni. In gennaio, con le due magnitudini guadagnate, potrebbe regalare proprio un bello spettacolo.
La sua luminosità dovrebbe mantenersi infatti sempre intorno alla mag. +5/+6 (n.d.R. le ultime segnalazioni la danno attorno alla 5) con un picco tra il 7 e 15 gennaio, in corrispondenza del suo
massimo avvicinamento alla Terra (0,469 UA il 7 gennaio).

La C/2014 Q2 Lovejoy, avviata al suo perielio di fine mese, a inizio gennaio transiterà alla minima distanza dalla Terra. Questo fa sì che in questo periodo la cometa sia caratterizzata da un elevato moto proprio, di cui è necessario tenere conto nelle riprese fotografiche. La foto, che inquadra un campo di 16'x25', è stata ottenuta sempre da Rolando Ligustri lo scorso 20 dicembre utilizzando una postazione remota situata in Australia (DK 500 F 2250 e CCD PL6303e) con 20 pose di 30 secondi ciascuna (L = 10 x 30 s; RC = 10 x 30 s).

Dal 15 al 20 si troverà a transitare tra Toro e Ariete, circa 8° a sudovest delle Pleiadi. È da tenere però presente che la cometa attraversa una regione di cielo estremamente densa di oggetti peculiari, prestandosi quindi a svariate composizioni scenografiche.

Per la posizione della cometa giorno per giorno vedere le effemeridi nel box qui in alto e le seguenti mappe:

La cometa, caratterizzata da un moto molto rapido, si sposterà infatti nel corso del mese attraverso ben 6 costellazioni, dalla Lepre al Triangolo, passando per Eridano, Toro e Ariete, per finire al 31 gennaio in Andromeda.

Leggi tutti i dettagli e i consigli per l’osservazione, con tutte le immagini, nella Rubrica Comete di Rolando Ligustri presente a pagina 70 di Coelum n.188

I dadi di Platone – approfondimenti sul quesito e soluzione

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I cinque solidi platonici

I solidi platonici

Nel numero 184 di Coelum ho parlato di solidi platonici. I solidi che portano il nome del celebre discepolo di Socrate sono dei poliedri: in altre parole, appartengono alla grande famiglia dei solidi delimitati da un numero finito di facce piane poligonali. Non sono però dei poliedri qualsiasi: hanno la caratteristica di avere come facce poligoni regolari, tutti uguali tra di loro, e inoltre hanno tutti i vertici e gli spigoli equivalenti.

Sono, per così dire, l’analogo dei poligoni regolari in versione 3D (non a caso vengono spesso denominati poliedri regolari, o solidi regolari). Ma c’è una differenza sostanziale, e, per così dire, affascinante: mentre i poligoni regolari sono infiniti (per ogni numero intero N esiste un poligono regolare con N lati), i solidi platonici sono solo cinque.

Questi cinque poliedri portano nomi suggestivi, che derivano dal greco: tetraedro, esaedro (o cubo), ottaedro, dodecaedro e icosaedro.

Dato che in greco έδρα significa “base”, è facile comprendere l’etimologia di questi nomi: un tetraedro è un poliedro con 4 facce, un esaedro ne ha 6, un ottaedro 8, un dodecaedro 12 e un icosaedro 20.

I cinque solidi platonici

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Caratteristiche dei cinque solidi platonici

Osservate che ognuno dei solidi regolari può essere convertito nel suo duale: basta trasformare le facce in vertici e i vertici in facce. Sottoposto a questa metamorfosi, il tetraedro resta invariato, avendo 4 facce e 4 vertici. Il cubo, invece, diventa un ottaedro, e viceversa. Il dodecaedro si tramuta in un icosaedro, e così anche all’inverso.

Perché solo cinque?

Perché i solidi platonici sono soltanto cinque? Davvero non ne esistono altri?

Ai tempi di Platone, cioè nel IV secolo a.C., si intuiva già che i solidi regolari fossero cinque, ma nessuno lo aveva ancora dimostrato rigorosamente. Nel suo dialogo “Timeo”, il filosofo ateniese descrisse i solidi regolari, e ne associò quattro agli elementi fondamentali dell’universo: il tetraedro al fuoco, il cubo alla terra, l’ottaedro all’aria, l’icosaedro all’acqua. Il quinto solido, il dodecaedro, venne fatto corrispondere alla forma dell’universo nella sua totalità.

Circa un secolo e mezzo dopo, il grande matematico Euclide riuscì a provare che i solidi regolari sono soltanto i cinque descritti da Platone, e che non ce ne sono altri.

La "Scuola di Atene" di Raffaello Sanzio, affresco conservato al Vaticano. Platone è la figura centrale con il mantello rosso, mentre Euclide è (probabilmente) il personaggio chino in basso a destra, intento a tracciare cerchi su una tavoletta

Una dimostrazione intuitiva può essere compresa senza grande sforzo.

Prima di tutto, osserviamo che in un qualsiasi poliedro, ogni vertice è il punto di incontro di almeno tre facce: infatti due facce si possono incontrare su uno spigolo, ma non possono formare un vertice.

Inoltre, queste tre o più facce devono essere poste su piani diversi, perché se giacessero sullo stesso piano formerebbero in realtà una faccia sola, e non tre. Di conseguenza, la somma dei tre o più angoli che si incontrano in un vertice deve essere inferiore a 360°. Infatti, se fosse esattamente 360°, le facce sarebbero sullo stesso piano, mentre una somma angolare più bassa consente al punto di incontro di “alzarsi”, creando un vertice.

Ricordando che le facce del solido devono essere poligoni regolari, vediamo quali possono essere questi poligoni.

Certamente potrebbero essere triangoli equilateri. Ogni angolo di un triangolo equilatero è ampio 60°: quindi in un vertice del solido potrebbero incontrarsi 3 facce triangolari formando un angolo di 3 × 60° = 180° < 360°, oppure 4 facce triangolari formando un angolo di 4 × 60° = 240° < 360°, oppure 5 facce triangolari formando un angolo di 5 × 60° = 300° < 360°. Con 6 facce saremmo invece fuori, perché uscirebbe un angolo di 6 × 60° = 360°: troppo perché il vertice possa “alzarsi”.

Le facce potrebbero anche essere quadrati, in cui ogni angolo è di 90°. In ogni vertice del solido potrebbero infatti convergere 3 facce quadrate, a creare un angolo di 3 × 90° = 270° < 360°: già con 4 facce l’angolo sarebbe di 4 × 90° = 360°, quindi da escludere.

Infine, potremmo utilizzare come facce pentagoni regolari, nei quali ogni angolo è di 108°. Ogni vertice del solido potrebbe essere allora punto di incontro di 3 facce pentagonali, formando un angolo di 3 × 108° = 324° < 360°: con 4 facce saremmo invece oltre i limiti consentiti (4 × 108° = 432° > 360°).

Non potremmo invece utilizzare facce esagonali, perché in un esagono ogni angolo è di 120°, e già 3 facce formerebbero un angolo di 360°, che contribuirebbe a tassellare il piano, senza poter elevare un vertice del solido. Poligoni con più lati sono ancora peggiori, perché con sole 3 facce creerebbero angoli più grandi dell’angolo giro.

Le possibilità che abbiamo individuato sono quindi soltanto cinque:

  1. 1. 3 facce triangolari che si incontrano in ogni vertice: è il caso del tetraedro, che ha 4 facce triangolari e 4 vertici;
  2. 2. 4 facce triangolari che si incontrano in ogni vertice: è il caso dell’ottaedro, che ha 8 facce triangolari e 6 vertici;
  3. 3. 5 facce triangolari che si incontrano in ogni vertice: è il caso dell’icosaedro, che ha 20 facce e 12 vertici;
  4. 4. 3 facce quadrate che si incontrano in ogni vertice: è il caso del cubo o esaedro, che ha 6 facce e 8 vertici;
  5. 5. 3 facce pentagonali che si incontrano in ogni vertice: è il caso del dodecaedro, che ha 12 facce e 20 vertici.

Dadi e palloni

I solidi platonici forniscono lo spunto per comprendere e approfondire molti argomenti di interesse matematico, ma sono anche modelli straordinariamente utili per la realizzazione di oggetti per giocare: in particolare dadi e palloni.

Ciascuna di queste due tipologie di manufatto richiede attenzioni particolari nel processo di costruzione: a meno che non vogliamo fregare qualcuno, un dado deve innanzitutto essere equo, cioè tutte le sue facce devono avere la stessa probabilità di uscire durante un lancio, mentre un pallone deve essere il più possibile simile a una sfera.

Cominciamo dai dadi. I solidi platonici, evidentemente, grazie alla loro forma simmetrica, caratterizzata da facce regolari e uguali, e da vertici e spigoli equivalenti, costituiscono ottimi modelli di dadi equi.

Per gli appassionati di Dungeons and Dragons ciò non rappresenta una sorpresa: per questo gioco vengono infatti utilizzati dadi la cui forma riflette quella dei cinque dadi platonici.

Ma l’uso di dadi platonici non è certo un fatto recente. Negli anni Venti del secolo scorso, l’archeologo inglese Leonard Wooley fece un curioso ritrovamento all’interno delle tombe reali dell’antica città sumera di Ur: alcune tavole da gioco anticamente utilizzate per il cosiddetto Gioco Reale di Ur, l’antenato del moderno backgammon.

Copia della tavola da gioco ritrovata nelle tombe di Ur, con tre dadi tetraedrici

Come è visibile nella figura, la particolare scacchiera era formata da un rettangolo 8 × 3 privato di due caselle esterne su ciascuno dei lati lunghi. Ciascuno dei due giocatori utilizzava 7 pedine e 3 dadi a forma di tetraedro con le punte smussate. In ciascun dado, due dei quattro vertici erano marcati, affiché ogni lancio potesse produrre due possibili esiti, a seconda che il vertice rivolto verso l’alto fosse marcato o no. In pratica gettare un dado era come lanciare una moneta e vedere se è uscita testa oppure croce.

Il regolamento del gioco non è stato del tutto chiarito. Pare comunque che ogni giocatore dovesse partire da una delle caselle e arrivare a una casella terminale, determinando il numero di caselle percorse a ogni turno mediante il lancio dei dadi. La collisione con un pezzo avversario costringeva l’altro giocatore a ripartire dall’inizio. I simboli speciali disegnati su alcune caselle provocavano eventi particolari, come il pagamento o il ritiro di una posta.

Ma, oltre ai cinque platonici, ci sono altri solidi che possono essere sfruttati per costruire dadi equi? Ebbene sì: i matematici hanno scoperto che ne esistono in particolare altri venti, oltre a cinque famiglie formate ciascuna da un numero infinito di dadi equi.

E i palloni? Concentriamoci sui palloni da calcio (anche se si potrebbe scrivere forse un libro intero considerando la geometria di tutti i tipi di palle utilizzate nei vari sport).

Il problema della costruzione un pallone di cuoio per giocare a calcio è il seguente: non è possibile costruire una sfera perfetta (come invece si deve fare per le palline da ping pong), ma si deve cercare di approssimare una sfera cucendo insieme pezzi di cuoio. Inoltre, è comodo che i pezzi di cuoio siano tutti uguali, ed è ancora più comodo se questi pezzi vengono prodotti come poligoni regolari. Ecco quindi che i solidi platonici tornano utili anche in questo caso: preparando, per esempio, pezzi di cuoio a forma di triangolo equilatero si possono poi cucire tra di loro per realizzare una palla tetraedrica oppure ottaedrica oppure icosaedrica. Una volta il pallone viene gonfiato d’aria, le spigolosità si smussano, ottenendo qualcosa di vagamente simile a una sfera. È chiaro però che più sono le facce del solido più il pallone risulterà vicino a una forma sferica.

Ecco perché l’icosaedro è il modello platonico storicamente preferito dai costruttori di palloni da calcio. Ai mondiali messicani del 1970 l’Adidas presentò il suo mitico pallone Telstar, ottenuto da un icosaedro spianando i vertici: la forma risultante, il familiare pallone a esagoni bianchi e pentagoni neri, è ciò che i matematici chiamano icosaedro troncato, e che i chimici hanno ritrovato in una molecola di carbonio chiamata buckminsterfullerene, appartenente alla vasta famiglia dei fullereni. Il nome Telstar fu scelto per la somiglianza con l’omonimo satellite artificiale posto in orbita geocentrica e utilizzato nelle telecomunicazioni a partire dagli anni Sessanta.

Anche alcuni modelli più recenti di palloni da calcio si rifanno ai solidi platonici: il Brazuca dei Mondiali 2014 in Brasile è topologicamente un cubo, così come lo era il pallone dei primi Mondiali, quelli del 1930, mentre il Teamgeist, pallone ufficiale dei Mondiali tedeschi del 2006 vinti dall’Italia, era un ottaedro troncato.

I solidi platonici nell’arte

I solidi platonici sono sempre stati fonte di ispirazione per molti artisti. Piero della Francesca, che non fu soltanto un pittore, ma anche un matematico, era ossessionato dai solidi regolari: uno dei suoi trattati, il “De quinque corporibus regularibus”, era dedicato escludivamente a questi suggestivi poliedri, che all’artista interessavano ovviamente anche per il loro rapporto con il disegno e con le arti figurative.

Nell’articolo del numero 184 ricordavo come anche Leonardo Da Vinci realizzò moltissime illustrazioni inerenti ai solidi platonici, che furono pubblicate nel libro “De divina proportione” del frate matematico Luca Pacioli.

Nel 1955, il grande pittore surrealista Salvador Dalì realizzò una “Ultima cena” che stravolge i canoni dell’iconografia tradizionale. La scena è inserita all’interno di un grande dodecaedro, il solido regolare che Platone aveva associato alla perfezione dell’universo nel suo complesso. Nel descrivere il dipinto, Dalì parlò di una “cosmologia aritmetica e filosofica basata sulla sublime paranoia del numero dodici”. Sicuramente non è un caso che il numero delle facce del dodecaedro, 12, sia uguale al numero degli apostoli.

“Ultima cena” di Salvador Dalì (1955), olio su tela conservato alla National Gallery di Washington

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“Cascata”, litografia di Maurits Cornelis Escher (1961)

Un altro artista del Novecento che ha sfruttato a fini figurativi il fascino dei solidi platonici è stato l’olandese Maurits Cornelis Escher, autore di celebri costruzioni impossibili e di disegni geometrici di grande fascino. La sua famosa litografia “Cascata” mostra un piccolo villaggio caratterizzato da costruzioni paradossali, in cui dell’acqua sembra scorrere in salita. Sulla sommità delle due torri poggiano due grandi solidi, oggi noti come poliedri di Escher, la cui forma si può ottenere intrecciando tra di loro tre ottaedri.

La soluzione del problema

L’enigma di settembre descriveva un particolare dado tetraedrico, sulle cui facce sono indicati quattro numeri interi, che godono di alcune proprietà:

  • sono tutti diversi tra di loro;
  • sono tutti numeri primi;
  • uno dei quattro numeri ha una sola cifra;
  • ognuno degli altri tre numeri ha due cifre, la seconda delle quali è 3;
  • lanciando il dado, la somma dei numeri visibili dà sempre un numero primo.

I lettori erano invitati a determinare i numeri interi riportati sulle quattro facce del tetraedro.

La soluzione dell’enigma non era unica: anzi, ce n’erano ben cinque. Alcuni lettori sono stati bravi a indicarle tutte, anche se per considerare vinta la sfida era sufficiente individuarne una.

Le soluzioni erano le seguenti:

  • 5, 13, 23, 43
  • 5, 13, 43, 53
  • 5, 13, 43, 83
  • 7, 13, 23, 53
  • 7, 23, 73, 83

Non vi era un metodo particolare per individuare le soluzioni del problema: un approccio praticabile era quello per “forza bruta”, cioè per enumerazione e verifica delle possibili quaterne, da attuare a mano oppure con l’ausilio della potenza di calcolo di un computer (molti lettori, per esempio, si sono serviti di un foglio elettronico, strumento molto servizievole in casi come questo).

I vincitori

Il lettore che per primo ha inviato una risposta esatta è stato Mattia Caligiana, che si è aggiudicato l’abbonamento premio.

Gli altri lettori che hanno risolto correttamente l’enigma sono stati Davide Messina, Giorgia Hofer, Daniele Tosalli, Iacopo Longo, Alessio Aurigemma, Dario Broggi, Alberto Masini, Fabio Nevola, Michele D’Errico e Maurizio Carlino.

Complimenti al vincitore e a tutti i lettori che hanno saputo trovare la soluzione al problema!

Il primo della classe – approfondimenti sul quesito e soluzione

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Ritratto di Carl Friedrich Gauss pubblicato sull'”Astronomische Nachrichten” nel 1828.

Carl Friedrich Gauss

Il protagonista della rubrica Moebius del numero 185 di Coelum era uno dei più grandi matematici della storia: Carl Friedrich Gauss (1777-1855).

Nato da una famiglia di umile estrazione sociale, dimostrò fin dalla più tenera età la sua straordinaria propensione per la matematica e per le scienze in genere. A scuola, raccontano le cronache, si annoiava perché sapeva già tutto, avendo imparato da solo formule e regole matematiche, e non di rado arrivava a correggere il maestro.

Ritratto di Carl Friedrich Gauss pubblicato sull'”Astronomische Nachrichten” nel 1828.

È famoso l’aneddoto secondo il quale, all’età di nove anni, riuscì a risolvere in pochi secondi un problema che il maestro aveva assegnato alla classe allo scopo di tenere occupati i ragazzi per buona parte dell’ora di lezione. L’esercizio consisteva nel sommare tutti i numeri interi da 1 a 100. Probabilmente la maggior parte delle persone, di fronte a questo compito, non troverebbe niente di meglio da fare che eseguire pazientemente tutte le 99 addizioni, una dopo l’altra, arrivando infine al risultato richiesto.

Ma fare matematica, come dico sempre, non è fare conti, ma trovare regolarità e strutture. Il giovanissimo Gauss trovò nel problema una regolarità comodissima per arrivare alla soluzione senza impazzire con i calcoli: si accorse che la somma del primo numero, 1, e dell’ultimo numero, 100, era uguale alla somma del secondo numero, 2, e del penultimo, 99, e anche a tutte le altre somme costruibili in modo analogo spostandosi verso la somma centrale (50+51) arrivando contemporaneamente da sinistra e da destra. La somma complessiva, comprese Gauss, si ottiene quindi sommando 50 volte la somma parziale 101, ed è quindi pari a 5050.

L’insegnante di Gauss, resosi conto del genio precoce del ragazzo, lo segnalò al duca di Brunswick, il quale finanziò i suoi studi al Collegium Carolinum tra il 1792 e il 1795. Successivamente Gauss frequentò l’università di Gottinga, dove ottenne una serie di importanti risultati, tra i quali spiccano quelli inerenti alla geometria e all’invenzione dell’arimetica modulare.

Nel 1796 formulò, senza dimostrarla, la congettura nota come teorema dei numeri primi, sulla quale tornerò più avanti. Tre anni dopo, nella sua tesi di dottorato, dimostrò il teorema fondamentale dell’algebra, secondo il quale un qualsiasi polinomio di grado maggiore o uguale a 1, con coefficienti reali o complessi, ammette almeno una radice reale o complessa. Quest’ultimo risultato, anche se Gauss lo dovette precisare e perfezionare negli anni successivi, fu particolarmente rilevante, anche perché molti brillanti matematici del passato, tra cui il grande Eulero, avevano tentato di dimostrare il teorema senza mai riuscirci.

Nel 1801 pubblicò il famoso trattato Disquisitiones Arithmeticae, che raccoglieva molte delle fondamentali innovazioni ottenute negli anni precedenti nel campo della teoria dei numeri (cioè dell’aritmetica): una di queste fu l’introduzione dei numeri immaginari e complessi, che qualche lettore ricorderà di avere studiato a scuola o all’università.

Il geniale matematico tedesco soffriva di una strana malattia: il perfezionismo. Quando trovava una dimostrazione, non la pubblicava se non arrivava ad essere assolutamente certo della sua perfezione. Inoltre era ossessionato dalla possibilità che altri potessero rubargli le scoperte, e per questo appuntava le sue idee in modo criptico, così che nessuno potesse comprenderne il reale significato.

La scoperta di Cerere

Cerere, l’asteroide più grande della fascia principale del Sistema solare, oggi considerato pianeta nano, fu scoperto casualmente il 1° gennaio 1801 (il primo giorno del XIX secolo) dall’astronomo italiano Giuseppe Piazzi, presso l’Osservatorio Nazionale del Regno delle Due Sicilie a Palermo.

Giuseppe Piazzi

Piazzi non riuscì a seguire a lungo il moto di Cerere, perché l’11 febbraio l’asteroide entrò in congiuzione diventando invisibile dalla Terra. L’astro andò così perduto, e lo stesso Piazzi, non del tutto convinto di avere scoperto un nuovo pianeta, minimizzò annunciando di avere trovato semplicemente una cometa. Le osservazioni di Piazzi furono comunque pubblicate nel settembre 1801, e il ventiquattrenne Gauss entrò subito in possesso di questi dati.

Il matematico tedesco sviluppò un nuovo metodo, basato sui minimi quadrati, per determinare la traiettoria completa di un astro utilizzando tre sole osservazioni. Applicando questa tecnica al caso dell’asteroide perduto, Gauss riuscì a predire l’orbita di Cerere e i suoi calcoli condussero alla riscoperta dell’astro il 31 dicembre 1801, ad opera di Franz Xaver von Zach e Heinrich Olbers.

L’anno che si era aperto con la scoperta casuale di Piazzi si concludeva con il felice ritrovamento dell’asteroide, grazie al genio di Gauss.

I numeri primi

Che cos’è un numero primo? Semplicemente un numero naturale che non può essere diviso per nessun altro numero naturale se non per 1 e per se stesso. Per esempio, 5 è un numero primo, perché non ammette divisori che non siano 1 o 5, mentre 6 non lo è, perché può essere diviso per 2 e per 3, oltre che per 1 e 6.

Il grande matematico greco Euclide dimostrò che i numeri primi sono infiniti, cioè scelto un certo numero naturale N si può sempre trovare un numero primo più grande di N.

I numeri primi sembrano collocati in modo disordinato lungo la linea dei numeri naturali. Non è per nulla facile individuare una regolarità, una legge semplice che governi la loro distribuzione.

Ritratto di Carl Friedrich Gauss ad opera di Christian Albrecht Jensen

Il teorema dei numeri primi, congetturato per la prima volta da Gauss nel 1796, descrive in modo approssimato come i numeri primi siano distribuiti tra i numeri naturali. In particolare, afferma che, scelto un numero reale positivo x, la quantità di numeri primi minori o uguali a x può essere stimata approssimativamente come x diviso il logaritmo naturale di x.

Man mano che ci spinge verso valori di x più grandi, l’approssimazione fornita dal teorema risulta sempre più accurata.

Gauss intuì che il teorema era veritiero, ma non trovò il modo di dimostrarlo rigorosamente, cosa che invece riuscì cent’anni dopo la prima formulazione, grazie ai due matematici Hadamard e de la Vallée Poussin.

Copertina della prima edizione delle “Disquisitiones Arithmeticae” di Gauss

Il teorema fondamentale dell’aritmetica

Nelle “Disquisitiones Arithmeticae” del 1798, Gauss dimostrò per la prima volta il teorema fondamentale dell’aritmetica, secondo il quale:

Ogni numero naturale maggiore di 1 o è un numero primo o si può esprimere come prodotto di numeri primi. Tale rappresentazione è unica, se si prescinde dall’ordine in cui compaiono i fattori.

Che cosa significa questa affermazione? Prendiamo un numero come 5. Si tratta di un numero primo, e quindi ci troviamo nel primo caso. Prendiamo invece 6. Dato che questo non è un numero primo, il teorema ci assicura che possiamo esprimerlo come prodotto di numeri primi. In effetti possiamo scrivere 6 = 2 × 3, e i numeri 2 e 3 sono primi. Ma il teorema ci dice un’altra cosa ancora più importante: che non possiamo trovare un’altra fattorizzazione di 6 in numeri primi, prescindendo dall’ordine dei fattori. In altre parole, è vero che possiamo anche scrivere 6 = 3 × 2, ma questa non è una diversa fattorizzazione: è un modo diverso di scrivere quella di prima, con i fattori riportati in ordine diverso.

Il solito Euclide, negli “Elementi”, aveva dimostrato che ogni numero è primo oppure fattorizzabile in numero primi, ma non era arrivato rigorosamente a provare l’unicità della fattorizzazione. Vi si era avvicinato molto, ma fu Gauss a dimostrare per primo questa verità fondamentale della matematica.

Per evitare il “fastidio” derivante dai diversi ordini in cui i fattori primi possono essere elencati, i matematici hanno stabilito una convenzione, semplice quanto ovvia: i fattori devono essere scritti in ordine crescente, dal più piccolo al più grande, eventualmente ripetendo quelli che compaiono più volte.

I seguenti sono quindi esempi di fattorizzazioni scritte bene: 6 = 2 × 3, 60 = 2 × 2 × 3 × 5, 100 = 2 × 2 × 5 × 5.

Si pone a questo punto una vecchia e spinosa questione: anche 1 è un numero primo?

Teoricamente, se dovessimo attenerci unicamente alla definizione che ho dato sopra, dovremmo dire di sì. Ma considerare 1 come primo comporterebbe un grosso guaio: ogni fattorizzazione non sarebbe più unica, perché potremmo sempre aggiungere una quantità indefinita di uni all’inizio della fattorizzazione stessa. Avremmo cioè 60 = 2 × 2 × 3 × 5, ma anche 60 = 1 × 2 × 2 × 3 × 5, 60 = 1 × 1 × 2 × 2 × 3 × 5, 60 = 1 × 1 × 1 × 2 × 2 × 3 × 5, e così via all’infinito.

Per evitare questo fastidio, e per restituire validità al teorema fondamentale dell’aritmetica, i matematici hanno stabilito per convenzione che 1 non è primo.

Il problema di ottobre e la soluzione

L’enigma di ottobre proponeva di sfruttare il teorema fondamentale dell’aritmetica per costruire una specie di codice segreto utile per cifrare un messaggio. Se ciascun numero intero può essere fattorizzato in uno e in un solo modo, perché non usare questa “firma” unica per trasformare un numero in un messaggio cifrato? Per esempio, il numero 42042 viene fattorizzato come 2 × 3 × 7 × 7 × 11 × 13, e quindi la sua firma è costituita dai fattori 2, 3, 7, 7, 11, 13.

Se, a questo punto, ci inventiamo liberamente una tabella di corrispondenza che associ ogni numero primo a una lettera dell’alfabeto, la fattorizzazione si tramuta in una successione di lettere.

Immaginiamo che i numeri primi siano associati alle lettere secondo l’ordine alfabetico: il 2 corrisponderà alla lettera A, il 3 alla B, il 5 alla C, il 7 alla D, l’11 alla E, e così via.

Secondo questa chiave, il nostro numero 42042 viene codificato come ABDDEF.

Naturalmente non è necessario che scorrendo la tabella di corrispondenza in modo che i numeri primi crescano, le lettere vengano assegnate in ordine alfabetico. In altre parole, andrebbe benissimo anche una tabella in cui al 2 corrisponda la lettera M, al 3 la lettera F, al 5 la lettera Q, eccetera, così come qualunque altra tabella di corrispondenza che ci venga in mente.

L’unico (grave) inconveniente di questo metodo di crittazione è che le lettere sono soltanto 26 (considerando l’alfabeto inglese), e quindi possiamo arrivare al massimo al numero primo 101. Un numero come 2884, che si fattorizza come 2 × 2 × 7 × 103, non potrebbe essere codificato perché ci mancherebbe la lettera corrispondente al fattore 103.

L’enigma proposto, comunque, non incorreva in questo problema.

Vediamo i termini del problema. Una certa tabella di corrispondenza è stata stabilita, ma noi non la conosciamo a priori. Sappiamo solo che:

  • il numero 575795 viene codificato come “TERRA”
  • il numero 18 viene codificato come “ISS”
  • il numero 147407 viene codificato come “LUNA”.

Quale numero viene codificato con la parola “STELLA”?

Per risolvere il quesito, basta trovare le fattorizzazioni dei tre numeri proposti.

Il numero 575795 è sicuramente divisibile per 5 (lo riconosciamo dalla sua ultima cifra, 5): dividendolo per 5 otteniamo 115159. Come procedere ora? Abbiamo in mano un numero dispari, quindi il 2 non è tra i divisori. Nemmeno 3, 5 o 7 vanno bene, e lo possiamo verificare provando le rispettive divisioni, e osservando che escono risultati non interi. Il numero 11, invece, va bene: dividendo 115159 per 11 otteniamo il numero intero 10469. Continuando così, scopriamo che i successivi fattori primi sono 19, ancora 19, e infine 29. La fattorizzazione completa di 575795 è quindi 5 × 11 × 19 × 19 × 29.

Guardiamo la parola corrispondente: “TERRA”. La lettera T è dunque associata al numero 5, la lettera E all’11, la lettera R al 19, e la lettera A al 29.

Fattorizzare 18 è molto più facile: si trova subito che è uguale a 2 × 3 × 3: dato che la codifica letterale è “ISS”, ecco che la lettera I è associata al 2, e la lettera S al 3.

Ci rimane il numero 147407: utilizzando ancora il solito algoritmo di fattorizzazione, scopriamo che esso equivale a 13 × 17 × 23 × 29. La parola corrispondente è “LUNA”: ritroviamo correttamente la A associata al numero primo 29, e inoltre arricchiamo la nostra tabella con le corrispondenze L = 13, U = 17, N = 23.

Abbiamo ora tutti gli ingredienti necessari per risolvere il problema, cioè per decodificare la parola “STELLA”. Conosciamo già i numeri correlati alle lettere di queste parola: la S corrisponde al 3, la T al 5, la E all’11, la L al 13, e la A al 29.

Il prodotto 3 × 5 × 11 × 13 × 13 × 29 dà come risultato 808665, che quindi è il numero cercato.

I vincitori

Il vincitore dell’abbonamento è stato Fabio Nevola, che ha fornito per primo la risposta esatta.

Numerosi sono stati gli altri lettori che hanno saputo risolvere il problema correttamente: Mattia Caligiana, Andrea Alessandrini, Andrea Console, Andrea Rocchi, Daniele Tosalli, Fabio Marioni, Andrea Chiaramonte, Giovanni Casati, Giovanni Tassi, Alberto Masini, Stefano Zella e Bruno Alves. A tutti loro vanno i nostri più sentiti complimenti!

Al Planetario di Ravenna

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11.01, ore 10:30: Osservazione del Sole.
Per info: tel. 0544.62534 – info@arar.it
www.racine.ra.it/planet – www.arar.it

Stazione Spaziale, i più spettacolari transiti del periodo

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Con il 2015 la ISS tornerà ad attraversare i nostri cieli al mattino, poco prima dell’alba. Per questo riportiamo solo i transiti più evidenti e luminosi, visibili dalla maggior parte della nazione così da valorizzare ogni sveglia.

Si inizia il 9 gennaio quando, osservando da SO a NE dalle 06:19 alle 06:27, la ISS sarà ben visibile da ogni zona del paese, tagliandolo quasi in due latitudinalmente. La magnitudine massima si attesterà su un valore di –3,3: un transito, quindi, davvero impossibile da mancare, nubi permettendo.

> Orari aggiornati al 5 gennaio:

100 Supernovae per Koichi Itagaki

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Il 13 dicembre il famoso astrofilo giapponese Koichi Itagaki ha scoperto l’ennesima supernova nella bella galassia a spirale NGC309 distante circa 140 milioni di anni luce nella costellazione della Balena. Il 16 dicembre con il telescopio da 3,5 metri dell’Apache Point Observatory nel New Messico (USA) è stato ripreso lo spettro che ha permesso di classificare il transiente di tipo Ib. Una classe poco comune di supernovae di tipo I, caratterizzate da una luminosità inferiore ed un declino più lento rispetto alle tradizionali supernovae di tipo Ia.

Immagine della SN in NGC309 che ha portato a 100 il bottino di Itagaki. Ripresa in remoto dal New Messico da Adriano Valvasori. Cliccare l'immagine per ingrandire.

Questa è la quinta supernova che esplode fra le braccia di NGC309. Le quattro precedenti erano state tutte di tipo II. Si tratta comunque di una supernova poco appariscente, poiché ha raggiunto una luminosità massima non superiore alla mag.+17,5 ma rappresenta una singolare particolarità, è infatti la scoperta n. 100 per il veterano ricercatore del sol levante.

Nato il 12 novembre del 1947 a Yamagata City, Koichi Itagaki porta avanti la sua passione per l’astronomia dal suo Osservatorio privato posto sulle pendici del Monte Zao a circa un’ora di macchina da Yamagata City.

L'Osservatorio di Itagaki alle pendici del Monte Zao

E’ costituito da quattro cupole e cinque telescopi di vari diametro. Il telescopio principale è un riflettore da ben 600 mm di diametro a quale è affiancato un’altro da 500 mm e tre da 210 mm.

Koichi dispone anche di un Osservatorio a Takanezawa – Tochigi comandato in remoto dove sono alloggiati altri quattro riflettori: un 500 mm, un 350 mm, un 300 mm e un 210 mm.

Il suo interesse per l’astronomia iniziò a tempi delle scuole superiori ed in tutti questi anni dedicati ad osservare il cielo in maniera professionale, Koichi è riuscito ad ottenere un invidiabile palmares. Ha scoperto 3 comete, 5 pianetini, 32 novae extragalattiche individuate nelle vicine galassie M31 – M33 – M110, 7 novae nella nostra Via Lattea, l’ultima nell’agosto 2013, la famosa e luminosa Nova Delphini visibile ad occhio nudo, 23 variabili cataclismiche e 5 Luminous Blue Variable. Naturalmente però il suo fiore all’occhiello sono queste cento supernovae, ottenute in circa 14 anni di ricerche riprendendo e controllando un enorme numero di immagini di galassie.

La scoperta della sua prima supernova risale al 10 maggio 2001 con la SN2001bq in NGC5534.

Itagaki con il telescopio principale da 60 cm nell'Osservatorio privato di Yamagata.

E’ l’unico ad essere riuscito a scoprire ben tre supernovae in una stessa galassia e precisamente nella bella Messier 61, l’ultima la recente SN2014dt (vedi l’articolo pubblicato online).

Solo altri quattro ricercatori amatoriali hanno raggiunto questo incredibile traguardo. In questa Top Five di mostri sacri troviamo infatti gli americani Tim Puckett e Jack Newton con oltre 270 scoperte, l’inglese Tom Boles con oltre 160 scoperte ed il sudafricano Berto Monard con oltre 130 scoperte. Chissà se un italiano riuscirà mai a raggiungere un simile traguardo. Noi intanto facciamo il tifo per il nostro Fabrizio Ciabattari, già a quota 55 scoperte e ci uniamo alle congratulazioni arrivate da tutto il mondo astronomico amatoriale e professionale in favore del mitico Koichi Itagaki.

Possibili tracce di strutture biologiche fossili fotografate dai Mars Exploration Rover

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Terra vs. Marte: Ecco una delle immagini presenti sul Lavoro pubblicato su IJASS, 2014. La somiglianza delle strutture evidenziate sulla Terra (microbialiti:colonie di microrganismi unicellulari) e su Marte (fotografate da Opportunity sul pianeta rosso) è davvero notevole (vedi i contorni automatici ottenuti dal sistema computerizzato, sulla destra) . La successiva analisi automatica di immagine ha confermato con alta significatività statistica l’identità delle immagini.

Già nel lontano 2004 la missione più longeva su Marte, Opportunity, fotografò delle microsferule di ematite, soprannominate mirtilli, una delle prime prove concrete che su Marte in un tempo molto lontano deve essere esistita acqua allo stato liquido.

Poi nel corso degli anni, il quadro che disegnava Maven dall’orbita, prima Opportunity e Curiosity poi direttamente dal suolo marziano è passato da poco più che una probabilità a una una certezza: c’era stato un momento nel passato lontano che Marte aveva posseduto dell’acqua liquida sulla sua superficie. Si sono così accumulate centinaia di prove: corsi essiccati di fiumi, minerali e depositi argillosi che solo la presenza non occasionale di acqua liquida può aver generato sul Pianeta Rosso.

Terra vs. Marte: Ecco una delle immagini presenti sul Lavoro pubblicato su IJASS, 2014. La somiglianza delle strutture evidenziate sulla Terra (microbialiti:colonie di microrganismi unicellulari) e su Marte (fotografate da Opportunity sul pianeta rosso) è davvero notevole (vedi i contorni automatici ottenuti dal sistema computerizzato, sulla destra). La successiva analisi automatica di immagine ha confermato con alta significatività statistica l’identità delle immagini.

Nel 2004 il Mars Exploration Rover Opportunity stava esplorando il Meridiani Planum quando in un costone di roccia chiamato Guadalupe, si imbatté in una delle prime e più evidenti prove che nel lontano passato Marte aveva posseduto acqua liquida [1].
Non che la cosa fosse del tutto inaspettata. Già la missione orbitale Mars Odyssey aveva segnalato la presenza di grandi quantità di idrogeno che facevano supporre la presenza di ghiaccio sotto la superficie di Marte, ma non si erano ancora trovate tracce così evidenti della passata presenza di acqua liquida sulla superficie; ma non solo…

Il Dott. Giorgio Bianciardi dell’Università di Siena, biologo e medico, ricercatore dell’Università di Siena, dove insegna Microbiologia e Astrobiologia, [2][3], il Dott. Vincenzo Rizzo ex ricercatore del CNR presso l’Istituto di Ricerca per la Protezione Idrogeologica (CNR-IRPI) di Cosenza, geologo, e il Dott. Nicola Cantasano ricercatore CNR all’istituto di Foreste e Agricoltura del Mediterraneo di Cosenza, hanno comparato 30 immagini riprese dalle missioni  Mars Exploration Rover (Spirit e Opportunity) e confrontate con altrettante (45) immagini di stromatoliti terrestri 1 per un totale di 40 000 microstrutture esaminate, tenendo conto della forma, dimensioni, complessità e similitudini tra le immagini marziane e i campioni terrestri [4].

Questa immagine mostra una parte dello sperone di roccia a Meridiani Planum, Mars, soprannominato “Guadalupe.” Fu scattata dal Microscopic Imager (MI) di Opportunity,. Credit: NASA/JPL

Il team italiano evidenzia una similitudine statistica molto elevata tra le microstrutture rilevate dalle immagini riprese su Marte e le strutture microbiologiche (microbialiti 2 e stromatoliti) terrestri.
Tutte le immagini dei campioni sono state ricomposte sulle stesse proporzioni delle immagini trasmesse dai rover (sui metodi di trattamento e i software usati rimando all’articolo originale su ijass.org) e poi si è proceduto con una analisi di tipo frattale 3 [5] (la stessa che Giorgio Bianciardi usa da anni nelle sue ricerche biomediche) sulle immagini prendendo in considerazione otto diversi indici frattali che indicano altrettanti dati riguardo la complessità e le dimensioni delle strutture esaminate.
I risultati a cui sono giunti mostrano una totale similitudine tra le immagini marziane e i campioni terrestri sostenendo che la probabilità di una casualità simile e pari a 1 su 2^8 (p < 0,004). In altre parole i ricercatori italiani sostengono che durante il periodo in cui sussistevano le condizioni per la presenza di acqua liquida su Marte, esistevano ampie colonie di microorganismi unicellulari molto simili a quelli che hanno dato origine alle stesse simili strutture qui sulla Terra.

Questo mosaico di 28 immagini è stato ripreso il Sol 844 (21/12/2014) e mostra una parte del Gale Crater soprannominata “Salsberry Peak.” Sono evidenti i segni della presenza dell’acqua nel passato di Marte. Cliccare per l'immagine panoramica originale ad alta risoluzione. Credit: NASA/JPL/Caltech/MSSS. Composizione di Jason Major.

Indice dei contenuti

Note:

  1. Le stromatoliti sono strutture sedimentarie finemente laminate dovute all’attività di microrganismi fotosintetici bentonici come microscopiche alghe eucariotiche e procarioti.
  2. Le microbialiti sono sedimenti carbonatici finissimi causati da comunità microbiche bentoniche.
  3. Lo stesso metodo fu utilizzato dallo stesso Bianciardi per individuare la presenza attuale di vita microbica su Marte analizzando i gas rilasciati negli esperimenti biologici dei Viking.

References

  1. “Mars Exploration Rover Mission: Press Releases”http://mars.nasa.gov/mer/newsroom/pressreleases/20040302a.html
  2. “IJASS”http://ijass.org/publishedpaper/year_abstract.asp?idx=132
  3. . @UmbyWanKenobi, “Intervista a Giorgio Bianciardi sul Labeled Release Experiment – Il Poliedrico”, Il Poliedrico, 2012. http://ilpoliedrico.com/2012/05/intervista-a-giorgio-bianciardi-sul-labeled-release-experiment.html
  4. “IJASS”http://ijass.org/PublishedPaper/topic_abstract.asp?idx=474
  5. . @UmbyWanKenobi, “Caccia ai microrganismi marziani, le nuove ricerche sugli esperimenti Labeled Release – Il Poliedrico”, Il Poliedrico, 2012. http://ilpoliedrico.com/2012/04/caccia-ai-microrganismi-marziani-le-nuove-ricerche-sugli-esperimenti-labeled-release.html

Happy Birthday, Hubble!

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La celebre immagine dei “pillars of creation” di Hubble(NASA/ESA)

Credit: NASA, ESA/Hubble and the Hubble Heritage Team

Happy Birthday, Hubble! Il telescopio più famoso del mondo, dopo quello di Galileo del 1609, messo in orbita nel 1990, compie tra poco un quarto di secolo di splendido servizio. La NASA lo festeggia in modo elegante: ripropone la immagine più famosa della galleria cosmica di Hubble, ripetuta e migliorata. Si tratta dei famosissimi “Pillars of Creation”, i Pilastri della Creazione che, visti da Hubble nel 1995, fecero subito il giro del mondo, stampati su T-shirts come su tazze da caffè (americano, viste le dimensioni dell’immagine). Adesso la NASA ne pubblica una seconda immagine, appena fatta, più profonda e più bella.

Qui sopra un particolare dell'ultima immagine ad alta risoluzione dei Pilastri della Creazione, ripresa dal Telescopio Spaziale Hubble nel 2014 a confronto con quella ormai storica ripresa sempre da Hubble nel 1995.

Il nome “pilastri”, dato dagli scopritori, descrive in realtà un gruppo di nuvole fatte di gas e polveri interstellari che, per caso, hanno forme allungate nella stessa direzione. Girate la foto, però, e i pilastri diventano radici, o stalattiti, o carote cosmiche… qui c’entra la famosa “gestalt”, il nostro modo di vedere le forme. “Creazione”, invece, è molto più appropriato. Dentro alle fotogeniche nubi (invisibili all’occhio umano), la materia diffusa può condensarsi, collassando, cioè cadendo su se stessa a causa della forza che muove tutto l’Universo, la gravità.

Alla fine del collasso, miracolo, nasce una stella. Cioè la materia diventa così densa e calda da far accendere le reazioni nucleari, le stesse che tengono acceso il nostro Sole. E di solito le stelle non nascono da sole, ma a grappoli, tutte insieme: dentro e intorno a quei “pilastri” si intravedono delle pouponnières di stelle appena create. E se ci sono stelle appena create, potrebbero esserci tantissimi pianeti appena nati, come era la nostra Terra quattro o cinque miliardi di anni fa. Chissà come evolveranno.

Le dimensioni dei pilastri, e anche delle nurseries stellari, sono astronomiche, naturalmente. Le nubi di materia che Hubble ha fotografato si trovano a più di seimila anni luce da noi, e quindi il nostro Sole, se fosse lì, sembrerebbe una delle tante stelline deboli dell’immagine. Ma naturalmente non si vedrebbe traccia di un sistema planetario intorno a lui né, tanto meno, di un eventuale terzo pianeta del sistema stesso… Anche per questo è difficile guardare l’immagine senza fermarsi un attimo a pensare.

Alcune delle stelle neonate sono particolarmente calde (tipo ventimila gradi in superficie) ed emettono getti di radiazione ultravioletta ad alta velocità. Anzi, confrontando le due immagini separate da 20 anni si scopre che uno di quei getti ha un allungamento misurabile: la materia cosmica si muove, sembra viva.

Nate insieme, le stelle poi muoiono una ad una, perché hanno evoluzioni e durate di vita diverse. Alcune, le più grosse, alla fine esplodono, tornando ad essere gas e polvere. In questo modo, le stelle arricchiscono le nubi interstellari degli elementi chimici prodotti durante la loro vita e nell’esplosione finale. E’ così che fu creato il calcio delle nostre ossa, il ferro del nostro sangue o l’oro dell’orecchino che abbiamo appena regalato per Natale.

Per saperne di più

  • L’immagine originale a piena definizione è scaricabile QUI (attenzione file di 114,9 MB)
  • Per le altre dimensioni vedi QUI

La galassia Andromeda vista in HD

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Mettetevi comodi e godetevi questo spettacolo: la galassia a spirale Andromeda vista in HD. Quella catturata dal telescopio spaziale di NASA/ESA Hubble è l’immagine più grande e nitida mai scattata della nostra vicina di casa, conosciuta tra gli esperti del settore come Messier 31. La foto che vedete qui sopra è solo una parte dell’intero è anche la più estesa (per numero di pixel) mai scattata da Hubble e mostra oltre 100 milioni di stelle e migliaia di ammassi stellari incorporati in una sezione del disco della galassia che si estende per più di 40 000 anni luce. Questa galassia è la più estesa del Gruppo Locale, di cui fa parte anche la Via Lattea, e dista dalla Terra “solo” 2,5 milioni di anni luce.

Il panorama mozzafiato è stato realizzato grazie al programma Panchromatic Hubble Andromeda Treasury (PHAT) analizzando la galassia nel vicino ultravioletto, in luce visibile e nel vicino infrarosso, usando anche l’Advanced Camera for Surveys montata a bordo di Hubble e dei filtri blu e rossi. Ciò che potete vedere nella foto in alto è un terzo della galassia Andromeda nei suoi colori naturali e si tratta di un’immagine di 1,5 miliardi di pixel, il che vuol dire che sarebbero necessari 600 televisori HD per visualizzarla in maniera corretta e nella sua piena nitidezza. L’immagine originale, invece, è di 3,9 miliardi di pixel per una lunghezza di 60 000 anni luce.

A questo link ne trovate una versione zoomabile che permette di apprezzarne al meglio i dettagli.

Guardando la foto gli esperti hanno ipotizzato che la galassia possa essere stata coinvolta in una collisione con un’altra galassia 2 miliardi di anni fa. Benjamin Williams, della University of Washington a Seattle, ha detto che l’immagine si focalizza su un’antica area di formazione stellare precedentemente avvistata solo in una zona della Andromerda. «Nessuno avrebbe immaginato che fosse uguale in tutta la galassia», ha detto, avvalorando l’ipotesi di un drammatico scontro nella storia di Andromeda.

Immagini simili aiuteranno gli astronomi a interpretare la luce proveniente da galassie simili alla nostra e alle nostre vicine, ma che si trovano molto più lontano. Andromeda è molto vicina e quindi è un obiettivo molto più grande rispetto agli altri fotografati di solito da Hubble a miliardi di anni luce di distanza. Per catturare la gran parte della sezione della galassia sono stati necessari 411 scatti separati che sono stati poi assemblati in un’immagine a mosaico. Quello che possiamo vedere è parte del nucleo della galassia (colore bianco-giallo a sinistra), dove le stelle sono più agglomerate, e poi gas stellare e vuoti che percorrono tutto il disco esterno andando verso destra. Qui i grandi gruppi di stelle dal colore bluastro indicano i cluster stellari e le regioni di formazione stellare nei bracci della spirale, mentre le “striature” più scure non solo altro che complesse strutture di polvere stellare. Disseminate qui e lì ci sono stelle rosse più fredde che stanno ad indicare l’evoluzione della galassia nel corso di milioni di anni, proprio come come gli anelli che attraversano il tronco di un albero.

Associazione Ligure Astrofili Polaris

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09.01: “La storia delle leggi di Keplero” di Pietro Planezio.
Per info: cell. 346.2402066 – info@astropolaris.it
www.astropolaris.it

Gruppo Astrofili DEEP SPACE

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09.01: “Dieci anni di cielo in una stanza” proiezione a più voci nel decennale del Planetario. Ciclo “Astronomia, meteorologia e agricoltura nel mondo antico: dagli autori latini ai proverbi lombardi”.
Per info: 0341.367584 – www.deepspace.it

La notte del 7 gennaio avrà luogo una congiunzione tra Luna e Giove

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07 gennaio
La sera del 7 gennaio con una normale congiunzione tra Luna e Giove che si potrà osservare verso le 21:00 sull’orizzonte est. A quell’ora i due oggetti (un Giove sempre più luminoso perché prossimo all’opposizione, e una Luna purtroppo di fase piuttosto robusta) saranno alti circa +15°, distanti l’uno dall’altro circa 6,6°.

07 gennaio

Dopo quella dell’11 dicembre scorso, larga 5°, un’altra discreta congiunzione tra Luna e Giove avrà luogo la sera del 7 gennaio alle ore 21:00. I due oggetti sorgeranno dall’orizzonte est separati di circa 6,6°, mostrandosi proprio davanti alla testa del Leone e a Regolo. A quell’ora i due oggetti (che saranno osservabili ancora più vicini tra loro qualche ora dopo) saranno infatti alti sull’orizzonte est solo +14°.

Per le effemeridi di Luna e pianeti vedere il Cielo di gennaio

Dawn si avvicina a Cerere

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Crediti: NASA/JPL-Caltech
Crediti: NASA/JPL-Caltech

Mancano poco più di tre mesi e la sonda della NASA Dawn arriverà nell’orbita del pianeta nano Cerere, che, con un diametro di 950 chilometri, è l’asteroide più massiccio della Fascia Principale del Sistema solare tra Marte e Giove (dove si trova anche Vesta, un altro potenziale protopianeta come Pallade e Igea). In confronto, Vesta ha un diametro di 525 chilometri ed è il secondo corpo più massiccio nella cintura.

La sonda Dawn, lanciata nel 2007, è entrata di recente nella cosiddetta fase di approccio e punta dritto dritto verso l’unico corpo minore del nostro sistema a essere considerato – finora – un pianeta nano, proprio come Plutone. Il fatidico incontro avverrà il prossimo 6 marzo e la sonda rimarrà nell’orbita di Cerere per circa un anno.

Si tratta di una missione del Programma Discovery della NASA: il satellite ha raggiunto il suo primo obiettivo, l’asteroide Vesta, nel 2011. Dopo 14 mesi di orbita intorno a Vesta, la sonda si è messa in moto per raggiungere Cerere.

La missione è la prima a raggiungere e orbitare intorno a due diversi corpi celesti e l’INAF ha un ruolo importante, essendo responsabile dello spettrometro a immagine VIR (Visual and Infrared Spectrometer) nel visibile e vicino infrarosso. «Lo spettrometro ad immagine VIR è finanziato dall’ASI ed  è stato interamente costruito in Italia», ha spiegato a Media INAF Maria Cristina De Sanctis, ricercatrice presso l’Istituto di Astrofisica e Planetologia Spaziali dell’INAF a Roma. «Inoltre l’Italia contribuisce alle operazioni della sonda e partecipa alla missione con numerosi co-investigators  e team members». E ha aggiunto: «Il pianeta nano Cerere è un oggetto ancora molto enigmatico e presenta ai ricercatori molti quesiti, tra cui l’origine del vapore acqueo transiente osservato di recente. Uno degli obbiettivi di Dawn è indagare il ruolo dell’acqua nelle fasi primordiali del Sistema solare e Cerere è la chiave per questo obbiettivo».

Di recente Dawn è uscita dalla fase di congiunzione solare, in cui si trovava sul lato opposto del Sole rispetto alla Terra, il che ha limitato le comunicazioni. Il satellite è attualmente a 640,000 chilometri da Cerere e viaggia a una velocità di 725 chilometri all’ora. «Cerere è quasi un mistero per noi», ha detto Christopher Russell, principal investigator della missione Dawn presso l’Università della California. «Cerere, a differenza di Vesta, non ha meteoriti che gli orbitano attorno che potrebbero aiutarci a rivelare i suoi segreti. Tutto quello che possiamo prevedere con sicurezza è che saremo sorpresi», ha aggiunto.

Gli scienziati credono che Cerere e Vesta siano molto diversi: il primo potrebbe essersi formato più tardi rispetto a Vesta e potrebbe avere un nucleo ghiacciato. Le prove raccolte negli ultimi anni suggeriscono che Vesta abbia mantenuto solo una piccola quantità di acqua perché si sarebbe formato quando il materiale radioattivo era più abbondante, il che avrebbe prodotto più calore. Cerere, al contrario, ha un mantello spesso di ghiaccio e non è detto che non abbia un oceano sotto la sua crosta. La De Sanctis ha spiegato che «Vesta è un oggetto basaltico, relativamente privo di materiali ricchi di acqua, che si è differenziato ancor prima della Terra; Cerere è un oggetto ricco di materiali idrati, probabilmente differenziato, ma con una storia evolutiva completamente diversa da quella di Vesta. Questi due oggetti così diversi ma collocati nella stessa zona del Sistema solare ci indicheranno i processi evolutivi che sono stati all’origine del sistema solare che noi oggi osserviamo».

La sonda utilizza, da cinque anni, la propulsione a ioni che per viaggiare nello spazio profondo è ritenuta più efficiente rispetto alla propulsione chimica. In un motore a propulsione ionica, le particelle cariche (ioni), dopo essere state vengono accelerate da un campo elettrico, sono incanalate nello spazio attraverso un ugello. Sfruttando il principio di azione e reazione la navicella riceve una piccola spinta in direzione opposta.

«Orbitare sia attorno a Vesta che attorno a Cerere sarebbe veramente impossibile con un tipo di propulsione convenzionale», ha detto Marc Rayman, ingegnere capo e direttore della missione presso il Jet Propulsion Laboratory della NASA a Pasadena, in California. «Grazie alla propulsione ionica stiamo per entrare nella storia come la prima nave spaziale mai riuscita ad orbitare attorno a due mondi alieni inesplorati».

Entro la fine di gennaio arriveranno le immagini inviate dal veicolo spaziale e i dati saranno i migliori mai ottenuti del pianeta nano Cerere.

Per saperne di più:

  • Clicca QUI per andare al sito della missione DAWN della NASA

Abbonato a vita – approfondimenti sul quesito e soluzione

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Il problema di Roberto

Ricordate il numero 183 di Coelum, l’ultimo dell’epoca dell’edicola? Nell’ultima pagina raccontavo la storia di Roberto, giovane appassionato di astronomia e avido lettore della prestigiosa rivista che state sfogliando.

A partire dal mese di settembre 2014, il quattordicenne Roberto è abbonato a Coelum. Ogni primo giorno del mese riceve comodamente a casa la sua rivista preferita, e gli occorrono sempre esattamente trenta giorni per leggere a fondo ogni numero.

Come osservavo nell’articolo, chi è folgorato in giovane età dalle meraviglie del cielo è molto probabile che rimanga un astrofilo per tutta la vita. Possiamo immaginare che sarà così anche per Roberto: non stupisce allora sorprenderlo, in un nostro immaginario viaggio nel futuro, mentre festeggia il suo centenario con il numero di Coelum di settembre 2100 illuminato dalle candeline della torta.

La sfida lanciata ai lettori era la seguente:

Quanti sono esattamente, dal primo settembre 2014 al primo settembre 2100, i giorni nei quali Roberto si ritroverà a sfogliare le ultime pagine del numero del mese precedente, avendo già sul comodino il numero nuovo?

Molti lettori si sono cimentati con il problema, ma soltanto due hanno risposto esattamente. Vediamo perché.

Analisi del problema

A ben vedere, dal punto di vista di Roberto, ci sono tre “tipi” di giorni in un anno:

  • i giorni “normali”, che chiamerò di “tipo A”, nei quali il ragazzo legge il numero che gli è arrivato il primo giorno del mese in corso;
  • i giorni “di tipo B”, in cui Roberto ha già terminato la lettura dell’ultimo numero ricevuto, ma non può iniziare a leggere il successivo perché non gli è ancora arrivato;
  • i giorni “di tipo C”, in cui il giovane astrofilo ha già ricevuto il numero del mese in corso, ma sta ancora terminando la lettura del numero del mese precedente.

Per esempio, consideriamo il mese di gennaio 2015. Il postino recapiterà il numero 188 il primo del mese (non formalizziamoci sul fatto che è alquanto improbabile che la posta arrivi il giorno di Capodanno, così come in altri giorni festivi coincidenti con il primo del mese).

Roberto impiegherà i primi 30 giorni di gennaio per leggere il numero: questi saranno giorni di tipo A. Il 31 gennaio è un giorno di tipo B, perché il numero 189 non è ancora giunto a casa di Roberto. Il mese di febbraio 2015 ha 28 giorni, cosicché Roberto lo trascorrerà tutto leggendo il nuovo numero, ma gli serviranno anche i primi due giorni di marzo per completare la lettura: questi saranno quindi due giorni di tipo C.

E così via. Se completiamo l’analisi dell’anno, ci accorgiamo che il 2015 contiene 35 giorni di tipo B (il 31 gennaio, il 31 luglio, tutti i 31 giorni di agosto, il 31 ottobre, il 31 dicembre), e 4 giorni di tipo C (i primi due giorni di marzo, il primo aprile). Tutti gli altri 356 giorni sono di tipo A.

La figura seguente illustra la distribuzione dei tre tipi nel corso dell’anno (in verde i giorni di tipo A, in viola quelli di tipo B, in rosso quelli di tipo C).

Distribuzione dei tipi di giorni nell'anno non bisestile

I miei lettori avranno sicuramente colto la questione fondamentale: questa ripartizione vale non solo per il 2015, ma per tutti gli anni non bisestili.

In un anno bisestile, invece, le cose cambiano: i primi 30 giorni di gennaio rimangono di tipo A, e il 31 gennaio è ancora di tipo B. Il mese successivo, però, ha in questo caso 29 giorni, il che significa che a Roberto basta il primo marzo per terminare la lettura del numero di febbraio. E questo provoca conseguenze sulla suddivisione dei giorni del resto dell’anno.

In generale, un anno bisestile contiene 36 giorni di tipo B (oltre a quelli tipici degli anni non bisestile, dobbiamo considerare infatti il 31 maggio), e un solo giorno di tipo C (il primo marzo). E tutti gli altri 358 giorni sono di tipo A. La figura seguente mostra tale ripartizione.

Distribuzione dei tipi di giorni nell'anno bisestile

Calendari e anni bisestili

Appare ora chiaro dove si trova la chiave della risoluzione del problema: basta contare quanti anni bisestili ci sono tra il 2015 e il 2100 e il gioco è fatto.

Ebbene, nel periodo considerato ci sono 86 anni, di cui 21 bisestili (2016, 2020, 2024, 2028, 2032, 2036, 2040, 2044, 2048, 2052, 2056, 2060, 2064, 2068, 2072, 2076, 2080, 2084, 2088, 2092, 2096) e 65 non bisestili (tutti gli altri).

E il 2100? Perché non l’ho incluso tra i bisestili? In fin dei conti gli anni divisibili per 4 sono tutti bisestili, o no?

No. Se un anno divisibile per 4 lo è anche per 100, non è bisestile. E non è finita qui. Questa eccezione contiene, infatti, a sua volta, un’eccezione: Se l’anno è divisibile per 400, è comunque bisestile. L’esempio più emblematico è molto recente: il Duemila, anno divisibile per 4 ma secolare, è stato bisestile perché divisibile per 400.

Questo meccanismo, che potrebbe apparire cervellotico, è in realtà il geniale risultato dell’introduzione del calendario gregoriano, nel 1582.

Figura - Papa Gregorio XIII

Papa Gregorio XIII promulgò in quell’anno la bolla Inter gravissimas, che riformava il vecchio calendario giuliano, in vigore fin dai tempi di Giulio Cesare.

Come nel calendario giuliano, anche l’anno gregoriano non bisestile comprende 365 giorni, e quello bisestile introduce un giorno aggiuntivo al mese di febbraio.

La durata in giorni dei diversi mesi è per tutti molto familiare: gennaio, marzo, luglio, agosto, ottobre e dicembre hanno 31 giorni; aprile, giugno, settembre e novembre ne hanno 30, mentre febbraio ha 28 giorni negli anni ordinari e 29 in quelli bisestili.

Vi sono molte tecniche mnemoniche per ricordare la lunghezza dei vari mesi: dalle regole: dall’osservazione delle nocche delle mani e degli infossamenti fra di loro, alle popolari filastrocche come la seguente:

Trenta giorni ha novembre

con april, giugno e settembre

di ventotto ce n’è uno

tutti gli altri ne han trentuno.

Ma a noi interessa soprattutto la distribuzione degli anni bisestili. Dato che nel calendario giuliano, cioè prima del 1582, gli anni bisestili si alternavano semplicemente ogni 4 anni, la durata media dell’anno giuliano medio era pari a (365+365+365+366)/4, cioè 365,25 giorni.

Questa durata, però, era maggiore di quella dell’anno solare medio, ben nota agli astronomi (e anche agli astrofili), che equivale a circa 365,2422 giorni: più di 11 minuti di differenza all’anno.

Di conseguenza, nel corso dei secoli, l’utilizzo del calendario giuliano provocò l’accumularsi di un ritardo rispetto alle stagioni reali, pari a circa un giorno ogni 128 anni.

Verso la fine del sedicesimo secolo, lo sfasamento era ormai di circa 10 giorni. Secondo le osservazioni degli astronomi, la primavera non cominciava più il 21 marzo, ma l’11 marzo. La Pasqua, che cade la prima domenica successiva al plenilunio di primavera, veniva festeggiata quindi in una data “sbagliata”.

Quando gli astronomi gli fecero notare il problema, papa Gregorio XIII comprese che di questo passo si sarebbe finiti per celebrare la Pasqua in estate. Il pontefice si decise allora ad affrontare la questione, e nel 1580 nominò una commissione di esperti con il compito di trovare una soluzione allo spinoso dilemma.

Luigi Lilio

Nella commissione figuravano alcuni autorevoli matematici e astronomi dell’epoca, alcuni dei quali italiani: Luigi Lilio, calabrese, probabilmente il vero ispiratore della soluzione che alla fine venne adottata; Cristoforo Clavio, gesuita tedesco e professore nel Collegio Romano; Giuseppe Scala, siciliano, giovane professore all’università di Padova; Vincenzo di Lauro, anche lui calabrese, vescovo di Mondovì e consigliere teologico; Pedro Chacòn, spagnolo, teologo ed esperto in patristica e di storia della chiesa; Ignazio Nehemet, patriarca di Antiochia di Siria, anche lui storico della chiesa; Ignazio Danti, frate domenicano di Perugia e vescovo di Alatri.

Per fissare la durata dell’anno solare medio, gli scienziati presero come riferimento le misurazioni di Niccolò Copernico, pubblicate pochi anni prima, nel 1543.

Il 14 settembre 1580 la commissione consegnò nelle mani del papa il loro resoconto finale, intitolato Ratio corrigendi fastos confirmata et nomine omnium, qui ad Calendarii correctionem delecti sunt, oblata Sanctissimo Domino nostro Gregorio XIII.

Il resoconto finale dei lavori della commissione

Dalla relazione emergeva che due cose erano necessarie per risolvere il problema del calendario:

  • 1. riallineare la data d’inizio delle stagioni con quella vigente nell’anno 325;
  • 2. modificare la durata media dell’anno, in modo da prevenire il ripetersi di questo problema.

Per attuare il primo punto, si stabilì che il giorno successivo al 4 ottobre 1582 sarebbe stato il 15 ottobre 1582. Per il secondo punto, invece, si introdussero l’eccezione e la “sub-eccezione” menzionate prima: gli anni divisibili per 100 non sono bisestili, a meno che non siano divisibili anche per 400.

Il calendario gregoriano entrò in vigore già il 15 ottobre 1582 in Italia, Francia, Spagna, Portogallo, Polonia–Lituania e Belgio–Olanda–Lussemburgo, mentre alcuni degli altri paesi cattolici (Austria, Boemia, Moravia e cantoni cattolici della Svizzera) si adeguarono con qualche anno di ritardo. L’adozione del calendario gregoriano negli altri stati fu invece molto più lenta.

Con l’introduzione della nuova regola degli anni bisestili, l’anno gregoriano medio diventò un po’ più corto di quello giuliano, e questa differenza è legata a quei 3 anni su 400 che cessavano di essere bisestili: l’equivalente di 10 minuti e 48 secondi in meno rispetto a prima.

Quanto bastò a riallineare quasi perfettamente le cose: la discrepanza rispetto alla realtà è infatti di soltanto un giorno ogni 3323 anni circa. Possiamo essere abbastanza soddisfatti.

La soluzione del problema di Roberto

Torniamo ora al problema di Roberto.

Appurato che nel periodo compreso tra il 2015 e il 2100 ci sono 86 anni, di cui 21 bisestili e 65 non bisestili (tra cui il 2100), il problema si riduce al contare quanti sono in tutto, nel periodo compreso tra il 2015 e il 2100, i giorni di tipo C.

Presto detto: abbiamo visto che in ognuno dei 21 anni bisestili esiste un solo giorno di tipo C, mentre in ognuno dei 65 anni non bisestili vi sono 4 giorni di tipo C. La formula da utilizzare è quindi la seguente:

Numero giorni di tipo C = 1 × 21 + 4 × 65 = 21 + 260 = 281

La risposta corretta al quesito di luglio-agosto è quindi 281.

I vincitori

I lettori che hanno risolto correttamente l’enigma di Roberto sono stati due: Daniele Tosalli e Michele D’Errico. Entrambi hanno giustificato esaurientemente la risposta.

Dato che Tosalli ha recentemente già vinto l’abbonamento, il vincitore del numero 183 è Michele D’Errico.

Altri lettori hanno proposto risposte diverse, quindi errate: qualcuno ha detto 278 giorni, qualcun altro ha proposto 275, e qualcun altro ancora ha azzardato 323.

Complimenti a tutti coloro i quali hanno accettato la sfida e hanno provato a risolvere il problema di Roberto!

QUADRANTIDI: spettacolo sotto tono per le prime meteore dell’anno

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Verso le 3:00 del 4 gennaio, il radiante delle Quadrantidi, indicato dall’asterisco giallo, è alto circa +35° sopra l’orizzonte di nordest. Si consiglia comunque l’osservazione anche nelle ore precedenti e successive all’orario indicato dalle previsioni. Le Quadrantidi hanno in genere una velocità di circa 40 km/s, e le tracce, di colore prevalentemente blu, sono discretamente brillanti (anche se molte sono telescopiche) ma quest’anno le condizioni sono decisamente avversate dal forte disturbo luminoso di una Luna quasi piena (fase 98%).

Il Cielo di Gennaio

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EFFEMERIDI

Dopo la clemenza dei mesi autunnali, si fa avvertire in gennaio il clima tipico della stagione fredda. Situazione che da una parte offre le migliori condizioni di trasparenza, dall’altra pone seri problemi a chi vuole raggiungere siti lontani dalle luci cittadine e rimanervi nella lunga notte astronomica. Del resto, proprio le numerose ore di buio permettono in questo periodo di spaziare – in prima serata – dalle costellazioni autunnali più orientali (Pesci, Pegaso, Balena…) fino alle regioni ricche di nebulose e ammassi del cielo invernale, per terminare nella seconda parte della notte con le prime avvisaglie della grande concentrazione di galassie del cielo primaverile (Vergine, Leone, ecc.). Per quanto riguarda i pianeti, dopo il tramonto del Sole sarà Giove, sempre davanti la testa del Leone e prossimo all’opposizione di febbraio, a rubare lo sguardo, mentre poco prima dell’alba sarà Saturno nello Scorpione ad animare la scena.

Al Planetario di Ravenna

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30.12: “Cieli d’America: l’importanza del cielo e
della scienza nella storia del nuovo mondo” di
Oriano Spazzoli.
Per info: tel. 0544.62534 – info@arar.it
www.racine.ra.it/planet – www.arar.it

Associazione Astrofili Centesi

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26.12: “La stella del presepe: la cometa di Halley?”. Al telescopio: falce di Luna e Giove.

Per info: cell. 346 8699254
astrofilicentesi@gmail.com
www.astrofilicentesi.it

Al Planetario di Ravenna

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26.12: I Giardini di Natale (ingresso libero – attività
adatta a bambini a partire dai 6 anni).
ore 17:00: “Il Cielo delle vacanze”.
ore 20:00: Osservazione della volta stellata.
Per info: tel. 0544.62534 – info@arar.it
www.racine.ra.it/planet – www.arar.it

Gruppo Astrofili Rozzano

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26.1227.12 Escursione in montagna per l’osservazione degli astri. Pian dell’Armà (PV)
Per info: 380 3124156 e 333 2178016
info@astrofilirozzano.it
www.astrofilirozzano.it

Unione Astrofili Bresciani

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26.12 ore 21:00 apertura della Specola Cidnea.
Per il programma di dicembre in fase di definizione
consultare il sito.
Per info: osservatorio@serafinozani.it
www.astrofilibresciani.it

Il più grande Gioiello dell’universo

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Immagine composita dell’ammasso XDCPJ0044.0-2033 nell’infrarosso, ottico e nei raggi X.Le regioni in rosso-rosa corrispondono all’emissione infrarossa captata da Herschel e quella nei raggi X ripresa da Chandra. Crediti: Per le osservazioni nei raggi X: NASA/CXC/INAF/P.Tozzi, et al; Nell’Ottico: NAOJ/Subaru and ESO/VLT; Infrarosso: ESA/Herschel/J. Santos, et al.

Immagine composita dell’ammasso XDCPJ0044.0-2033 nell’infrarosso, ottico e nei raggi X.Le regioni in rosso-rosa corrispondono all’emissione infrarossa captata da Herschel e quella nei raggi X ripresa da Chandra. Crediti: Per le osservazioni nei raggi X: NASA/CXC/INAF/P.Tozzi, et al; Nell’Ottico: NAOJ/Subaru and ESO/VLT; Infrarosso: ESA/Herschel/J. Santos, et al.

E’ talmente massiccio che per ‘riempirlo’ ci vorrebbero quattrocentomila miliardi di stelle come il Sole. Il gigantesco ammasso di galassie, denominato XDCP J0044.0-2033 (o più brevemente XDCP J0044) è stato l’oggetto di due differenti studi a guida INAF condotti con i satelliti Chandra della NASA ed Herschel dell’ESA.  Studi che da una parte certificano come l’ammasso, ribattezzato “Gioiello”, sia il più massiccio gruppo di galassie scoperto finora alla distanza record di 9,5 miliardi di anni luce da noi. Ma evidenziano anche l’età relativamente giovane dell’ammasso, che gli astronomi stimano all’incirca di un miliardo di anni.  E giovani sono anche le galassie al centro dell’ammasso, come mostrano le osservazioni nel vicino infrarosso di Herschel: nelle regioni centrali del “Gioiello” è infatti presente una forsennata attività di formazione stellare, che non si riscontra in analoghi agglomerati di galassie più vicini a noi – sia nello spazio che nel tempo – e quindi più evoluti.

«Abbiamo deciso di chiamare l’ammasso Gioiello perché mostra tanti “colori” dello spettro elettromagnetico, che per noi astronomi hanno un preciso significato: si va dall’emissione nella banda X da parte del gas caldo che ci permette di misurare la massa totale del cluster, all’emissione infrarossa della polvere riscaldata dall’intensa attività di formazione stellare» dice Paolo Tozzi, ricercatore dell’INAF-Osservatorio Astrofisico di Arcetri che ha guidato il primo dei due studi su XDCP J0044, in pubblicazione sulla rivista The Astrophysical Journal. «Ma quel nome vuole anche ricordare il luogo dove il nostro team si è riunito per la prima volta a discutere sui dati di Chandra relativi a questo oggetto celeste, ovvero a Villa il Gioiello, dove Galileo Galilei trascorse l’ultimo decennio della sua vita e scrisse alcune delle sue più importanti opere».

L’osservazione del Gioiello nei raggi X da parte di Chandra è durata oltre 4 giorni ed è la più profonda  osservazione in questa banda di radiazione mai condotta su un ammasso di galassie più distante di 8 miliardi di anni luce. «Trovare questo enorme ammasso di galassie ad una distanza così elevata e quindi ad un’epoca così remota nella storia dell’universo ci ha sorpreso perché non è facile spiegare come un simile oggetto si sia formato nei primi 4 miliardi di anni dopo il Big Bang» aggiunge Tozzi. «Le informazioni che ci forniscono le indagini su XDCP J0044 potranno avere un notevole impatto sulla nostra comprensione di come l’Universo si sia formato ed evoluto su larga scala».

Immagine composita che evidenzia l’emissione nell’infrarosso della regione centrale dell’ammasso di galassie XDPCJ0044 realizzata grazie alle osservazioni dello strumento PACS del satellite Herschel. Crediti: ESA/Herschel/J. Santos et al. 2015; NAOJ/Subaru; ESA/VLT/Hawk-I

Ma questo ammasso risulta sorprendente anche per un’altra sua proprietà, emersa dalle osservazioni nell’infrarosso del telescopio spaziale Herschel dell’ESA. «A differenza degli ammassi più vicini, e quindi più evoluti, nel centro del ‘Gioiello’ le galassie stanno formando stelle ad un ritmo di circa duemila nuovi astri all’anno, un dato strabiliante se pensiamo che in genere al centro degli ammassi si trovano vecchie galassie ellittiche che hanno finito di formare stelle da miliardi di anni» spiega  Joana Santos, anche lei ricercatrice INAF all’Osservatorio Astrofisico di Arcetri, che ha guidato il secondo studio su XDCP J0044, in pubblicazione sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society. «Le nostre indagini ci danno una visione senza precedenti di cosa accade negli ammassi di galassie appena formati».

Studiare questo oggetto celeste nel lontano infrarosso è stato determinante poiché è soprattutto  in questa banda della radiazione elettromagnetica che si concentra l’emissione della polvere interstellare presente attorno alle stelle in formazione e che viene riscaldata da esse. Così, i ricercatori sono stati in grado di ricostruire la distribuzione e la temperatura di quel materiale e risalire al tasso di formazione stellare nelle galassie dell’ammasso. Per apprezzare il valore misurato da Herschel, che appunto ammonta a circa duemila nuove stelle ogni anno,  basti pensare che attualmente in tutta la nostra Via Lattea il tasso della formazione stellare è soltanto di  qualche massa solare all’anno. «Questa altissima frequenza con cui si stanno accendendo nuove stelle nel Gioiello è una novità assoluta per osservazioni di ammassi galattici di questa dimensione – aggiunge Santos – e ci indica che l’ammasso è ancora in una delle prime fasi della sua evoluzione. Sappiamo già che con il trascorrere del tempo poi, anche le galassie nel centro di XDCP J0044 diverranno simili a quelle degli ammassi che osserviamo nell’universo locale, ovvero galassie ellittiche ricche di stelle vecchie e senza più gas diffuso».

Oltre a Paolo Tozzi e Joana Santos, hanno partecipato ai due lavori Stefano Borgani (INAF-Osservatorio Astronomico di Trieste e Università di Trieste), Rene Fassbender (Postdoc Astrofit presso l’INAF-Osservatorio Astronomico di Roma-Monte Porzio), Mario Nonino (INAF-Osservatorio Astronomico di Trieste), Piero Rosati (Università di Ferrara e associato INAF), Barbara Sartoris (Postdoc Università di Trieste e associata INAF), Giovanni Cresci (INAF-Osservatorio Astrofisico di Arcetri)

Per saperne di più:

  • L’articolo Chandra deep observation of XDCP J0044.0-2033, a massive galaxy cluster at z>1.5 di Paolo Tozzi et al. in pubblicazione sulla rivista The Astrophysical Journal
  • l’articolo The reversal of the SF-density relation in a massive, X-ray selected galaxy cluster at z=1.58: results from Herschel di  Joana Santos et al. in pubblicazione sulla rivista Mothly Notices of the Royal Astronomical Society
  • Il comunicato stampa INAF
  • la notizia sul sito web ESA
  • la notizia sul sito web NASA

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