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Il Mondo fra 100 Anni secondo Villemard

Tra il 1899 e il 1910, l’illustratore francese Villemard realizzò una serie di disegni in cui immaginava la tecnologia che avrebbe caratterizzato il mondo nell’anno 2000. Il futuro, che è poi il nostro presente, è immaginato da Villemard popolato da macchine volanti di vario tipo, tecnologie per muoversi nei cieli o esplorare i fondali marini, strumenti per automatizzare attività quotidiane come cucire vestiti, pulire il pavimento, cucinare o coltivare i campi.
Le tecnologie immaginate dall’artista francese sono quindi un tripudio di ruote dentate, leve, gru, ingranaggi, ali meccaniche e pulegge. La nostra epoca attuale, nella visione di Villemard, è l’esasperazione della meccanica. Nel suo immaginato anno 2000 manca però un aspetto che è invece cruciale ai nostri giorni: la comunicazione. A questo proposito fa sorridere la sua previsione di posta veloce, che è rappresentata da un postino su macchina alata che consegna la lettera a un signore che si sporge dal balcone. Qualcosa che neanche lontanamente può competere con le videoconferenze, le chat, l’e-mail e Internet di oggi!
L’artista di fine 800, infatti, ha estrapolato all’eccesso le tecnologie note all’epoca, immaginando macchine complesse, leve, ingranaggi, strumenti automatizzati e macchine volanti. Tuttavia, non è stato capace di immaginare le tecnologie veramente nuove, quelle che realmente avrebbero sconvolto il mondo e caratterizzato l’epoca attuale, per un motivo molto semplice: all’epoca la scienza alla base di quelle tecnologie era ancora allo stato embrionale. Certo, si conoscevano le leggi dell’elettromagnetismo, ma molte delle sue ricadute pratiche erano ancora da venire, e la prima comunicazione radio sarebbe stata realizzata proprio in quegli anni.
Tutto questo ci insegna – o meglio ci ricorda – un aspetto importante della Scienza: è estremamente difficile prevedere quali saranno le ricadute pratiche di una scoperta scientifica che all’apparenza ci appare soltanto un nuovo modo tramite il quale la Natura manifesta il suo comportamento. Questo è quasi sempre vero quando la scoperta scientifica riguarda la descrizione dei fenomeni naturali, ma è spesso vero anche per le stesse innovazioni tecnologiche. Basti pensare, in questo secondo caso, al web, quel “www” (world wide web) sviluppato originariamente da Tim Bernes Lee al Cern per offrire ai fisici delle particelle uno strumento utile per diffondere e condividere in tempo reale i loro risultati scientifici, e solo in seguito diventato ciò che sappiamo. D’altra parte, è emblematico ciò che il supervisor di Tim Bernes Lee, Mike Sendall, scrisse sul documento contenente la proposta di ciò che sarebbe diventato a breve un’invenzione che avrebbe stravolto il mondo: un semplice “vague but exciting”, vago ma stimolante.

Tutto ciò ci insegna quanto sia molto ingenuo, ma anche molto miope, pensare di poter decidere a priori quale ricerca si rivelerà utile dal punto di vista pratico, e magari credere di saper scegliere, fra le diverse linee di ricerca, quali perseguire e quali scartare perché ci appaiono inutili. Senza dimenticare poi che il progresso nella conoscenza scientifica necessita sempre di contributi che provengono da molte discipline diverse.
Immaginiamo quindi un mecenate del 700, che avesse dovuto decidere quali ricerche finanziare per velocizzare le comunicazioni fra le città dell’epoca. Forse avrebbe deciso di incentivare la selezione di cavalli più resistenti e veloci, o la progettazione di ruote e ammortizzatori più affidabili, o macchine alate e difficilmente funzionanti come quelle immaginate da Villemard, ma dubito che, pur nella sua lungimiranza, avrebbe intuito che l’embrione della soluzione definitiva al suo problema era negli studi che un certo Galvani stava effettuando sulle rane: l’elettricità. E d’altra parte, se a qualcuno non fosse venuto in mente di costruire lo strumento “per vedere le cose minime”, come lo chiamava Galilei, ovvero ciò che poi divenne il microscopio, ancora staremmo a crepare di peste.


L’articolo è pubblicato in COELUM 271 VERSIONE CARTACEA

ShaRA#10 – Corona Australis

Dettaglio sull'ammasso Coronet, la nursery stellare nella Corona Australe, dove gas e polvere si aggregano dando vita a nuove stelle

Indice dei contenuti

ABSTRACT

Nell’ambito del suo ultimo progetto astrofotografico, ShaRa #10, il team ShaRA ha focalizzato le sue risorse su una delle regioni più enigmatiche e scientificamente intriganti del cielo australe: la Nube della Corona Australe. Anche questo progetto fa parte del metodo collaborativo del gruppo ShaRa, dove astrofotografi da varie parti del mondo uniscono le loro competenze in elaborazione dati per ottenere a immagini complesse, raggiungendo risultati incredibili.

di Adriano Anfuso, Alessandro Ravagnin e ShaRA Team

Il Target

Dettaglio sull’ammasso Coronet, la nursery stellare nella Corona Australe, dove gas e polvere si aggregano dando vita a nuove stelle

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Il Progetto Overall Photons per l’Astrofotografia Condivisa e Democratica

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Nella tabella è riportato l’elenco completo dei partecipanti al progetto e le nazionalità. Nella mappa sono riportate le localizzazioni geografiche dei 19 partecipanti al Progetto_1 di Overall Photons. I colori dei pallini fanno riferimento alla scala Bortle. L’immagine è stata generata con Generic Mapping Tools (GMT) di Wessel e SMith (1998).

Abstract

Il 17 Agosto scorso abbiamo brindato alla nascita del nuovo progetto di astrofotografia amatoriale condivisa Overall Photons, nome opportunamente scelto per sottolineare il fondamento su cui l’idea si basa: condivisione di fotoni da tutti gli astrofotografi del mondo.
Un modus operandi quello della condivisione che già si è fatto notare in altri progetti, sia nazionali che internazionali, sia di impronta scientifica che non, volti a migliorare la qualità dei risultati partendo dall’esigenza comune di risparmiare il tempo necessario alla raccolta di dati spendendo decine, o centinaia, di ore e senza dover investire in strumentazione molto costosa, anche se amatoriale.

Articolo a cura di Andrea Iorio, Elisa Cuccu e Fernando Linsalata


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Una Giovane Nebulosa Solare

Una nebulosa composta da gas e polvere torbidi sotto forma di nuvole soffici e vaporose e, al centro, strati sottili e molto dettagliati premuti l'uno vicino all'altro. Grandi stelle luminose circondate da sei lunghi punti di luce sono punteggiate sull'immagine, così come alcune piccole stelle puntiformi incastonate nelle nuvole. Le nuvole sono illuminate in blu vicino alle stelle; i colori arancioni mostrano nuvole che brillano nella luce infrarossa.

La magnifica nebulosa ripresa in questa fantastica immagine del telescopio Webb contiene centinaia di stelle in formazione con età inferiore a due milioni di anni, la maggior parte delle quali nascoste alla vista da polveri spesse e oscuranti. Questo ambiente ricco e complesso potrebbe essere simile a quello in cui si è formato il nostro Sole oltre 4,5 miliardi di anni fa.

Credit: ESA/Webb, NASA & CSA, A. Scholz, K. Muzic, A. Langeveld, R. Jayawardhana


NGC 1333 fu scoperta dall’astronomo tedesco Eduard Schönfeld nel 1855 e fa parte della Nube Molecolare di Perseo, a circa 960 anni luce di distanza da noi. In seguito, la nebulosa è stata osservata da molteplici strumenti in diverse lunghezze d’onda, caratterizzandosi come una tra le più studiate regioni attive di formazione stellare.


La superba sensibilità del JWST ha permesso agli astronomi di individuare all’interno della nube giovani corpi celesti di massa molto piccola. In effetti, alcune delle “stelle” più fioche nell’immagine sono in realtà nane brune vaganti, con massa non troppo dissimile da quella di pianeti giganti come Giove. Le nane brune sono oggetti intermedi tra le stelle e i pianeti, spesso definite “stelle fallite” perchè le masse troppo piccole alla nascita non hanno permesso loro di sostenere il processo che consente alle stelle di brillare. Il meccanismo di formazione delle nane brune rimane piuttosto misterioso. Non è certo se si formino in modo simile alle stelle, per collasso gravitazionale di nubi molecolari con massa non sufficiente a innescare reazioni di fusione nucleare, in seguito a frammentazione di nuclei protostellari di grande massa, oppure attraverso accrescimento di materiale in un disco protoplanetario, in modo simile ai pianeti. Alcune nane brune hanno una compagna stellare, altre vagano solitarie nello spazio.
I dati acquisiti dal telescopio Webb costituiscono la prima osservazione spettroscopica profonda del giovane ammasso stellare nella nebulosa e hanno permesso di identificare 6 nuove candidate nane brune, con massa fino a 15 volte quella di Giove, grazie all’utilizzo dello strumento Near-InfraRed Imager and Slitless Spectrograph (NIRISS). I ricercatori riferiscono anche la scoperta di una nana bruna parte di un sistema binario, con un compagno di massa planetaria.


Il centro della ripresa rappresenta una visione profonda del cuore di NGC 1333: vaste nebulosità color arancio evidenziano gas brillante nell’infrarosso, mentre le nuvole vicino alle stelle si illuminano di tonalità bluastra. Molte delle stelle neonate sono ancora circondate da dischi di gas e polveri, da cui forse avranno origine interi sistemi planetari. Stelle brillanti più grandi risplendono come diamanti preziosi, mentre alcune stelle puntiformi più deboli rimangono nascoste nelle dense nubi. Tra le strutture caratteristiche delle regioni di formazione stellare attiva, non mancano gli Oggetti di Herbig-Haro, generati dalla collisione fra i getti energetici emessi da stelle neonate e il gas circostante, freddo e denso.
Mentre in luce visibile la maggior parte delle stelle rimane nascosta alla vista, la visione nell’infrarosso del telescopio Webb ci permette di penetrare attraverso le polveri cosmiche che si addensano nella regione, per rivelare la presenza di giovani stelle, nane brune e oggetti vaganti di massa planetaria, non legati gravitazionalmente ad altri corpi celesti.
La ripresa rivela minuti dettagli dei processi caotici che un denso ammasso di stelle in formazione può ingenerare nell’ambiente nativo. In modo simile alle giovani stelle nell’immagine, il nostro Sole con i suoi pianeti si è formato in una densa nube di freddo idrogeno molecolare, come parte di un ammasso stellare, che forse era ancor più massiccio ed energetico rispetto a questo. Pertanto, NGC 1333 ci offre ottime opportunità di studiare stelle simili al Sole, così come nane brune o pianeti liberamente vaganti, nelle fasi iniziali della loro formazione.

Collaborazione Internazionale

Il JWST, il più grande telescopio spaziale mai lanciato, è una partnership tra NASA, ESA e CSA. Grazie a strumenti avanzati come NIRSpec e MIRI, e al supporto europeo, il Webb continua a rivoluzionare la nostra comprensione del cosmo primordiale.

Fonte: https://esawebb.org/images/potm2408a/

Event Horizon Telescope: verso la comprensione dei potenti getti dei buchi neri

In questa rappresentazione artistica ci stiamo avvicinando al centro della galassia NGC 1052. Dietro le nubi di gas e polvere (mostrate in arancione) si trova il buco nero supermassiccio centrale della galassia. I due getti di particelle ad alta energia (mostrati in blu) vengono lanciati dal buco nero, ma non si sa come. I radiotelescopi possono vedere attraverso le nuvole per rivelare il centro della galassia.

Event Horizon Telescope: verso la comprensione dei potenti getti dei buchi neri

Dopo aver immortalato per la prima volta l’immagine di un buco nero e la notizia della ripresa del getto emesso da M87*, l’Event Horizon Telescope (EHT) si prepara a compiere un nuovo salto rivoluzionario nello studio dei buchi neri supermassicci e dei loro enigmatici getti di particelle ad alta energia. Un recente studio, pubblicato sulla rivista Astronomy & Astrophysics il 17 dicembre 2024, ha rivelato come l’EHT possa riuscire a osservare i getti provenienti dal buco nero al centro della galassia NGC 1052, distante circa 60 milioni di anni luce dalla Terra. Il lavoro, condotto da Anne-Kathrin Baczko della Chalmers University of Technology, apre una finestra promettente per risolvere uno dei misteri più affascinanti dell’astrofisica.

Anne-Kathrin Baczko, astronoma, Osservatorio spaziale di Onsala e Dipartimento di scienze spaziali, terrestri e ambientali, Chalmers University of Technology

Un obiettivo difficile ma promettente

Il buco nero supermassiccio al centro di NGC 1052 è una sorgente particolarmente impegnativa. Secondo Anne-Kathrin Baczko, “Il centro di questa galassia è un obiettivo promettente per l’Event Horizon Telescope, ma è debole, complesso e più difficile di tutte le altre fonti studiate finora”. Tuttavia, il lavoro del team è riuscito a superare queste difficoltà grazie a una strategia innovativa che ha coinvolto radiotelescopi interconnessi, tra cui ALMA (Atacama Large Millimeter/submillimeter Array) in Cile.

La galassia NGC 1052 ospita un buco nero che lancia due potenti getti di particelle relativistiche, che si estendono per migliaia di anni luce nello spazio, uno in direzione est e uno in direzione ovest rispetto alla Terra. L’origine di questi getti è una delle domande centrali della ricerca. Eduardo Ros, membro del team e astronomo presso il Max Planck Institute for Radio Astronomy, sottolinea: “Vogliamo indagare non solo il buco nero in sé, ma anche le origini dei getti.”

Osservazioni e risultati: un passo avanti

Gli scienziati hanno utilizzato cinque telescopi della rete globale dell’EHT, con ALMA in configurazione chiave per garantire la migliore stima possibile del potenziale di osservazione. Le misurazioni sono state poi integrate con dati provenienti da altri radiotelescopi. Il successo delle osservazioni è stato determinato dalla sensibilità di ALMA, che ha permesso di catturare anche segnali molto deboli provenienti dal centro di NGC 1052.

Un risultato cruciale riguarda la dimensione della regione in cui si formano i getti. Secondo le misurazioni, questa regione è simile a quella dell’anello del celebre M87*, il buco nero fotografato per la prima volta nel 2019. Questa scoperta implica che l’EHT, alla sua massima potenza, sarà in grado di ottenere immagini nitide di NGC 1052 e dei suoi getti.

Il centro nascosto della galassia NGC 1052 (rappresentazione artistica).
In questa rappresentazione artistica ci stiamo avvicinando al buco nero supermassiccio al centro della galassia NGC 1052. Qui, il materiale si raccoglie in un disco rotante prima di cadere nel buco nero e si accumulano campi magnetici che possono aiutare a lanciare i potenti getti della galassia.

I campi magnetici: chiave della formazione dei getti

Uno degli aspetti più affascinanti dello studio è la misurazione della forza del campo magnetico vicino all’orizzonte degli eventi del buco nero. I ricercatori hanno rilevato un campo di 2,6 tesla, circa 400 volte più forte del campo magnetico terrestre. Matthias Kadler, astronomo presso l’Università di Würzburg, spiega: “Questo è un campo magnetico così potente che pensiamo possa probabilmente impedire al materiale di cadere nel buco nero. Ciò a sua volta può contribuire a lanciare i due getti della galassia.”

Nuove prospettive con l’EHT e i telescopi del futuro

La ricerca condotta su NGC 1052 offre spunti fondamentali per il futuro delle osservazioni astronomiche. Le misurazioni confermano che l’ambiente circostante il buco nero brilla intensamente alle lunghezze d’onda millimetriche, ideali per essere catturate dai radiotelescopi attuali. Come afferma Matthias Kadler, “Le nostre misurazioni ci danno un’idea più chiara di come il centro più interno della galassia brilli a diverse lunghezze d’onda, rendendolo un obiettivo primario per la prossima generazione di radiotelescopi.”

Progetti futuri, come l’ngVLA (next generation Very Large Array) dell’NRAO e l’ngEHT (next generation Event Horizon Telescope), promettono di spingersi ancora oltre, fornendo immagini ancor più dettagliate dei buchi neri e dei loro getti.

Conclusione: un passo verso la comprensione dei getti

Il successo delle osservazioni condotte su NGC 1052 rappresenta un importante passo avanti nella comprensione dei meccanismi con cui i buchi neri supermassicci generano getti di particelle ad alta energia. Nonostante la sfida rappresentata da un obiettivo così debole e complesso, il lavoro del team guidato da Anne-Kathrin Baczko dimostra che l’EHT è in grado di affrontare con successo anche le galassie più difficili.

Mentre i radioastronomi si preparano per una nuova era di osservazioni ad alta risoluzione, il futuro appare luminoso. Le immagini promesse dall’EHT e dalle prossime generazioni di telescopi potrebbero finalmente svelare i dettagli nascosti della formazione dei getti cosmici, avvicinandoci alla soluzione di uno dei più grandi enigmi dell’astrofisica moderna.

Fonte:https://www.aanda.org/articles/aa/full_html/2024/12/aa50898-24/aa50898-24.html

M87: Nuove Scoperte sul Getto Relativistico e il Brillamento di Raggi Gamma ad Altissima Energia

Osservazioni AstroSat UVIT di M87. A sinistra: M87 nella banda BaF2. A destra: Immagine differenziale di M87. L'area patchata è fondamentalmente la regione mascherata del getto.

La galassia ellittica Messier 87 (M87), situata a circa 16,8 milioni di parsec nell’ammasso della Vergine, ospita uno dei buchi neri supermassicci (SMBH) più grandi conosciuti, denominato M87*, con una massa stimata di circa 6,5 miliardi di masse solari. Questo buco nero è celebre per aver prodotto, nel 2019, la prima immagine diretta di un orizzonte degli eventi grazie alla collaborazione internazionale Event Horizon Telescope (EHT). Recentemente, questa stessa collaborazione ha pubblicato risultati straordinari relativi alla campagna osservativa multi-lunghezza d’onda del 2018, che ha coinvolto più di 25 telescopi terrestri e spaziali, tra cui Fermi-LAT, Chandra, NuSTAR, MAGIC, HESS e VERITAS. Lo studio ha rivelato un brillamento di raggi gamma (flare) mai osservato in oltre un decennio proveniente dal potente getto relativistico emesso da M87*.

Il brillamento, registrato durante la campagna MWL (multi-wavelength), è stato caratterizzato da energie estremamente elevate, fino a migliaia di miliardi di elettronvolt (TeV). È durato circa tre giorni e ha mostrato un’emissione sbilanciata verso energie superiori rispetto a quelle tipicamente associate al buco nero. La ricerca, pubblicata su Astronomy & Astrophysics, è stata coordinata dal gruppo EHT-MWL e ha visto la partecipazione di istituzioni italiane come l’Università degli Studi di Trieste, l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) e l’Agenzia Spaziale Italiana (ASI). Giacomo Principe, ricercatore dell’Università di Trieste e associato INAF e INFN, ha sottolineato come queste osservazioni offrano una straordinaria opportunità per investigare la connessione tra il disco di accrescimento e il getto emesso da M87*, e per comprendere l’origine dei raggi gamma ad altissima energia.

Composito delle immagini M87 MWL a varie scale ottenute in radio e raggi X durante la campagna del 2018. Lo strumento, la lunghezza d’onda di osservazione e la scala sono mostrati in alto a sinistra di ogni immagine. Notiamo che la scala di colori è stata scelta per evidenziare le caratteristiche osservate per ogni scala e non deve essere utilizzata per scopi di calcolo dei livelli di rumore, della gamma dinamica o della densità di flusso. Immagini coperta da Copyright per i crediti si rimanda a https://www.aanda.org/articles/aa/full_html/2024/12/aa50497-24/F13.html

Le immagini VLBI ottenute con il progetto EHT mostrano che il getto relativistico di M87* ha una lunghezza che supera di decine di milioni di volte le dimensioni dell’orizzonte degli eventi. Tra i risultati più interessanti vi è la variazione nell’angolo di posizione del getto rispetto alle osservazioni precedenti del 2017, indicando cambiamenti strutturali significativi nel corso di un anno. Inoltre, è stata rilevata un’asimmetria nell’anello luminoso attorno all’orizzonte degli eventi, che suggerisce un’evoluzione dinamica nelle strutture prossime al buco nero.

I dati raccolti da strumenti come Fermi-LAT e i telescopi Cherenkov MAGIC e VERITAS hanno contribuito a identificare la regione di emissione dei raggi gamma, un aspetto cruciale per comprendere i processi di accelerazione delle particelle all’interno del getto. Elisabetta Cavazzuti, responsabile del programma Fermi per l’ASI, ha evidenziato l’importanza di osservazioni coordinate a più lunghezze d’onda per caratterizzare la variabilità spettrale della sorgente, che si estende su diverse scale temporali.

Questi risultati rappresentano un passo fondamentale verso la risoluzione di quesiti astrofisici di lunga data, come l’origine dei raggi cosmici, le dinamiche dei getti relativistici e i processi che accelerano particelle a energie estreme. Come spiegato da Sera Markoff, professoressa presso l’Università di Amsterdam e co-autrice dello studio, per la prima volta è possibile combinare l’imaging diretto delle regioni vicine all’orizzonte degli eventi con brillamenti gamma derivanti da eventi di accelerazione delle particelle, consentendo test diretti sulle teorie relative all’origine di queste emissioni.

Lo studio conferma ancora una volta la rilevanza di osservazioni sinergiche che abbracciano tutto lo spettro elettromagnetico e dimostra il potenziale di M87 come laboratorio naturale per l’astrofisica delle alte energie, aprendo nuove prospettive nello studio dei buchi neri supermassicci e dei loro potenti getti.

Fonte: https://www.aanda.org/articles/aa/full_html/2024/12/aa50497-24/aa50497-24.html

Il cielo si Veste di Magia: Congiunzione Luna-Pleiadi e il Massimo delle Geminidi

Luna Pleiadi di Alessandro Passeggia

Questa sera, un cielo ricco di eventi astronomici affascinerà gli osservatori: alle ore 18:30 assisteremo a una spettacolare congiunzione tra la Luna e le Pleiadi, mentre alle ore 23:30 sarà il momento culminante per le Geminidi, uno degli sciami meteorici più belli dell’anno.

La Congiunzione Luna-Pleiadi
Il 13 Dicembre 2024 la Luna in fase di 13 giorni ad un’altezza di +43° occulterà le stelle più meridionali dell’ammasso aperto delle Pleiadi (M45) alle ore 19:01, conosciuto anche come “Le Sette Sorelle”. Le Pleiadi, visibili nella costellazione del Toro, sono un gruppo di stelle giovani e brillanti situate a circa 444 anni luce dalla Terra. Questo ammasso aperto è famoso per le sue stelle blu, avvolte in delicate nebulosità causate dalla riflessione della luce stellare su polveri interstellari.

13 Novembre alle ore 19:01 congiunzione Luna-Pleiadi

La distanza apparente tra i due oggetti sarà di circa 2°, pari a quattro volte il diametro apparente della Luna nel cielo. Sarà un’occasione unica per osservare, anche con un binocolo, il contrasto tra la luce lunare e la delicata brillantezza delle Pleiadi.

Il Massimo delle Geminidi
Alle ore 23:30, lo sciame meteorico delle Geminidi raggiungerà il suo massimo. Questo sciame è generato dai detriti lasciati dall’asteroide 3200 Phaethon durante il suo passaggio vicino al Sole. Le meteore, entrando nell’atmosfera terrestre, creano scie luminose che sembrano irradiarsi dalla costellazione dei Gemelli, da cui lo sciame prende il nome.

Le Geminidi sono conosciute per la loro alta frequenza e luminosità: in condizioni ideali si possono osservare fino a 120 meteore all’ora. Le loro traiettorie lente e i colori variabili, che vanno dal bianco al verde, le rendono uno spettacolo straordinario.

Previsioni Meteo
Purtroppo, il tempo non sarà favorevole in gran parte d’Italia. Cieli coperti e maltempo renderanno difficile l’osservazione sia della congiunzione sia delle Geminidi. Tuttavia, ci sono alcune speranze per gli osservatori nelle Alpi e in Sicilia, dove sono previste brevi schiarite.

Se il meteo non permetterà l’osservazione, non disperate: la Luna continuerà a transitare vicino alle Pleiadi nei prossimi giorni, e le Geminidi rimarranno attive, seppur con una frequenza ridotta, fino al 17 dicembre.

Consigli per l’Osservazione
Chi avrà la fortuna di trovare un cielo sereno dovrebbe scegliere una zona lontana dalle luci artificiali e portare con sé un binocolo o un piccolo telescopio per godere al meglio della congiunzione. Per le Geminidi, invece, basterà sdraiarsi con il volto rivolto verso la costellazione dei Gemelli e pazientare: lo spettacolo è garantito!

Non lasciatevi scoraggiare dalle previsioni meteo: anche una breve occhiata al cielo può regalare emozioni indimenticabili.

Firefly Sparkle: Una Galassia Primordiale Studiata dal JWST

Divisione orizzontale al centro. A sinistra, migliaia di oggetti sovrapposti a varie distanze sono distribuiti in questo ammasso di galassie. Un riquadro in basso a destra è ingrandito sulla metà destra. Un ovale centrale identifica la galassia Firefly Sparkle, una linea con 10 punti in vari colori. Credito: NASA, ESA, CSA, STScI, C. Willott (NRC-Canada), L. Mowla (Wellesley College), K. Iyer (Columbia)

Il telescopio spaziale James Webb (JWST) ha individuato una galassia primordiale, soprannominata Firefly Sparkle, risalente a circa 600 milioni di anni dopo il Big Bang. Nonostante la sua antichità, questa galassia presenta una massa simile a quella che avrebbe avuto la Via Lattea nella stessa fase evolutiva. Firefly Sparkle, straordinariamente dettagliata grazie all’effetto di lente gravitazionale e alla sensibilità agli infrarossi del Webb, mostra 10 distinti ammassi stellari in varie fasi di formazione.

 

L’ammasso di galassie **MACS J1423** ospita migliaia di galassie scintillanti, legate dalla loro stessa gravità. Al centro, spicca una galassia ellittica supergigante, la più grande e luminosa dell’ammasso. Questo complesso agisce come una **lente gravitazionale**, amplificando e distorcendo la luce degli oggetti celesti situati dietro di esso, consentendo agli astronomi di esplorare galassie distanti come **Firefly Sparkle**.
Grazie alla **NIRCam** del telescopio James Webb, l’immagine del 2023 rivela dettagli sorprendenti, superando in risoluzione quelle ottenute nel 2010 dal telescopio Hubble. Lo strumento infrarosso di Webb ha permesso di identificare molte più galassie e con maggiore precisione, offrendo una visione senza precedenti delle dinamiche cosmiche e della formazione galattica.
Questo straordinario effetto di lente gravitazionale fornisce una finestra sull’Universo profondo, mostrando migliaia di galassie e la complessità delle loro interazioni gravitazionali.
Credito:
NASA, ESA, CSA, STScI, C. Willott (NRC-Canada), L. Mowla (Wellesley College), K. Iyer (Columbia)

Gli scienziati, guidati da Lamiya Mowla (Wellesley College) e Kartheik Iyer (Columbia University), hanno scoperto che la galassia è ancora in formazione. La lente gravitazionale ha amplificato la sua immagine, rivelandola come una struttura allungata simile a una goccia, con ammassi di stelle disposti lungo di essa. Questi ammassi emettono luce in diverse tonalità di rosa, viola e blu, indicando che la formazione stellare si è verificata in modo scaglionato nel tempo.

Oltre alla Firefly Sparkle, sono state individuate due galassie compagne vicine, che potrebbero influenzare la crescita e l’evoluzione della galassia principale attraverso interazioni e fusioni. Queste dinamiche rispecchiano i processi di formazione galattica previsti nel giovane Universo.

Divisione orizzontale al centro. A sinistra, migliaia di oggetti sovrapposti a varie distanze sono distribuiti in questo ammasso di galassie. Un riquadro in basso a destra è ingrandito sulla metà destra. Un ovale centrale identifica la galassia Firefly Sparkle, una linea con 10 punti in vari colori.
Credito:
NASA, ESA, CSA, STScI, C. Willott (NRC-Canada), L. Mowla (Wellesley College), K. Iyer (Columbia)

Lo studio, pubblicato su Nature il 12 dicembre 2024, evidenzia l’importanza del James Webb per esplorare le galassie primordiali. Come spiegato da Maruša Bradač (Università di Lubiana), Webb offre una risoluzione senza precedenti che consente di osservare i “mattoni” della formazione galattica. Questa scoperta rappresenta solo l’inizio delle indagini sulle origini delle galassie nell’Universo.

Collaborazione Internazionale

Il JWST, il più grande telescopio spaziale mai lanciato, è una partnership tra NASA, ESA e CSA. Grazie a strumenti avanzati come NIRSpec e MIRI, e al supporto europeo, il Webb continua a rivoluzionare la nostra comprensione del cosmo primordiale.

Fonte: https://esawebb.org/news/weic2429

La Straordinaria Collezione di Meteoriti dell’Osservatorio Vaticano

la magnifica sezione della siderite Sacramento Mountains (1890 New Mexico)

A due passi dal cielo

È risaputo che le meteoriti non hanno preferenze e possono cadere ovunque, ma di certo è a dir poco sorprendente che uno della dozzina di meteoriti osservate cadere in Italia nell’ultimo secolo, abbia preso di mira il parcheggio dell’allora Aeritalia (Oggi Thales Alenia space) a Torino.
Campione del meteorite Torino (18/05/1988)
Il fatto risale al 18 maggio 1988. Il frammento principale del meteorite (una Condrite ordinaria H) di 800 grammi, cadde, assieme ad altri, proprio nel parcheggio, mentre ulteriori frammenti furono raccolti tra Collegno e Pianezza. Uno di questi frammenti, la cui superficie è ancora segnata dall’impatto sul terreno, fa bella mostra di sé nella collezione vaticana di meteoriti, ospitata alla Specola Vaticana, presso la sede di Albano Laziale. La collezione nacque più di un secolo fa grazie a Adrien Charles Marchese de Maurois il quale, tra il 1907 ed il 1912, fece dono al Vaticano di centinaia di pezzi. Una successiva donazione risale al 1935 ad opera questa volta della vedova dello stesso marchese. Negli anni successivi la collezione crebbe più lentamente, sempre grazie ad ulteriori donazioni oltre che ad alcuni scambi ed acquisizioni, arrivando oggi a sommare quasi 1200 pezzi appartenenti a più di 500 distinti meteoriti. Si tratta quindi di una delle principali raccolte di meteoriti italiane, assieme a quella della sezione di Siena del Museo Nazionale dell’Antartide, che ospita 1500 pezzi e a quella del museo di scienze planetarie di Prato, con 928 esemplari. Ma la particolarità della collezione vaticana è quella di ospitare una grande quantità di meteoriti storici, essendo il nucleo della collezione nato nella seconda metà del XIX secolo, quando non esisteva ancora la ricerca di meteoriti nei deserti (e ancor meno nell’Antartide) e le raccolte si formavano con meteoriti trovate dopo le cadute. Dopo gli studi pionieristici tra gli anni 30 e 50 sulla spettroscopia delle meteoriti, per cercare comparazioni con gli asteroidi, la raccolta di meteoriti era rimasta sostanzialmente inutilizzata, fino agli inizi degli anni ’90, quando riprese nuova vita dal 1993, prima sotto la supervisione di Guy Consolmagno (oggi direttore della Specola Vaticana) e successivamente, dal 2014, con Robert Macke che ne è attualmente il curatore. Ed è proprio quest’ultimo che ci accoglie al cancello della Specola Vaticana e ci accompagna verso gli edifici della sede centrale della specola, dov’è ospitata la collezione. Nonostante i tre master in Fisica, Filosofia e Teologia, Macke ha un modo di fare informale, quasi schivo, in grado di far sentire l’interlocutore subito a proprio agio, tuttavia non può sfuggire l’entusiasmo non celato quando parla del proprio lavoro. Con lui visitiamo la grande raccolta di meteoriti, aprendo cassetti e vetrine ed estraendo di tanto in tanto (rigorosamente con i guanti) alcuni degli stupendi pezzi.
Br.Robert Macke mostra il campione di 3,5kg di Alfianello (16/01/1883 Alfianello Br)
La collezione è articolata in due sezioni: la prima presso il laboratorio dove sono ospitati la maggior parte dei pezzi, catalogati per tipo e dove si effettuano misurazioni fisiche; la seconda nella sala espositiva dove sono raccolti in una teca alcuni degli esemplari più importanti. Tra le meteoriti italiane, oltre a Torino (già citato prima) un grande campione di “Alfianello” di 3,5 kg fa bella mostra di sé. Questo meteorite, caduto vicino a Brescia nel 1883, con i suoi 228 kg di massa totale, si registra come il maggiore impatto sul suolo italiano (Vago di Verona, del 1688 potrebbe essere stato maggiore ma la massa principale del meteorite è andata perduta). Da un altro cassetto emerge una bella fetta di Vigarano, caduta nel 1910 in provincia di Ferrara e capostipite delle condriti carbonacee tipo “V”, Vigarano, appunto.
Il campione del meteorite di Ensisheim, caduto nel 1492, con la rappresentazione della caduta, dalle “Cronache di Norimberga” del 1493
Nella vetrina in sala vediamo il “nonno” di tutte le meteoriti: Ensisheim, caduto nel 1492 in Francia a testimoniare la prima ben documentata caduta di meteoriti. Accanto a questo L’Aigle (Fr) del 1803 e Weston (USA) del 1807. In un’altra sezione, troviamo le meteoriti marziane divise in tre classi abbreviate in SNC (Shergottiti, Nakhiliti e Chassigniti), nomi a loro volta derivati dai prototipi di queste meteoriti Shergotty (1865 India), Nakhla (1911 Egitto) e Chassigny 1815 (Francia). Nella collezione sono presenti tutti e tre le classi, con Tissint (2011) per le shergottiti, e le stesse Chassigny e Nakhla. L’ultima, un esemplare di 154 grammi particolarmente raro, fu donato nel 1912 dalla Geological Survey in Egitto.
Campione 154 grammi del meteorite Nakhla (Prototipo delle Nakiliti marziane)
Non mancano le lunari, con meteoriti Nord Africane ed un frammento di roccia lunare raccolto dalla missione Apollo 17 e donato dalla NASA al Vaticano. Tra le condriti carbonacee, oltre alla Vigarano, troviamo le rarissime CI1 con la meteorite Orguell (condriti i cui corpi progenitori hanno subito una fortissima alterazione per la presenza di acqua al loro interno) e non manca inoltre un bel campione di Allende (8/02/1969 Messico) Di particolare bellezza l’esposizione delle sideriti (meteoriti ferrose), con diversi esemplari, come ad esempio, “Sacramento Mountains” con una magnifica sezione, o una grande Canyon del Diablo (MeteorCrater in Arizona), oltre a mesosideriti e Pallasiti di indiscussa bellezza.
la magnifica sezione della siderite Sacramento Mountains (1890 New Mexico)

Conclusione

Di certo la “pausa caffe” accomuna tutti e un centro di ricerca, sia pure di gesuiti nello stato pontificio non fa eccezione. “No science without coffee” sentenzia Robert Make, mentre il direttore dell’osservatorio Guy Consolmagno annuisce gravemente. E proprio in questo momento di intervallo che prendo l’occasione per fare a fratello Macke alcune domande “difficili”: perché esiste un “Osservatorio Vaticano”, perché proprio l’ordine dei gesuiti conta tra le sue fila così tanti scienziati ed infine come lui coordina il suo essere uomo di fede e scienziato. Non vorrei fargli andare di traverso la ciambella che sta mangiando con il caffè. Invece ci fa accomodare fuori dalla saletta bar “troppo rumore qui” e ci risponde con un sorriso: -per quanto riguarda la prima domanda, citando Papa Leone XIII, che nel 1891, rifondò la Specola Vaticana, perché “tutti potessero vedere che la Chiesa non si oppone alla vera scienza ma che la incoraggia e la promuove”. – Relativamente alla presenza di scienziati nel nostro ordine, penso che il motivo principale sia nella vocazione educativa della Compagnia, che dalle sue origini non si limitava all’insegnamento della religione ma a tutto lo scibile. – Infine, non percepisco alcuna discontinuità tra il mio essere religioso ed uomo di scienza; siamo tutti alla ricerca della verità.

La ricerca all’Osservatorio Vaticano

Gli astronomi della Specola Vaticana si occupano di ricerca teorica e applicata, a partire dalla cosmologia, fisica teorica, galassie, stelle, Sole fino al Sistema Solare, asteroidi, ed ovviamente meteoriti. Lo strumento di punta di ricerca è il VATT (Vatican Advanced TecnologyTelescope), costruito sul monte Graham (vicino al sito del Large BinocularTelescope) in Arizona. Per quanto riguarda i meteoriti, lo studio si è concentrato tra la fine degli anni novanta e i primi anni del nuovo secolo, nella misura della porosità, passando poi, negli ultimi anni alla misura della capacità termica. Uno strumento apposito, il “picnometro”, utilizza un gas come l’Elio, che viene immesso in una camera dove è ospitato il meteorite, facendolo poi passare il gas in un’altra camera (di volume noto) e misurando la differenza di pressione. La capacità del gas di penetrare in profondità nel meteorite permette di misurarne il volume solido. Un laser 3d consente invece di modellizzare la superficie del meteorite per misurare il volume “apparente”. La differenza tra queste due grandezze misura la porosità. La misura della capacità termica è invece ottenuta immergendo il meteorite in azoto liquido. Utilizzando le curve di evaporazione è possibile misurare la capacità termica di un meteorite ad una temperatura data. Si tratta di misurazioni utili non soltanto per conoscere le caratteristiche dei meteoriti, ma per studiare le proprietà degli asteroidi, loro progenitori. Le ricerche fanno sì che Br. Macke e Br. Consolmagno siano co-autori di recenti articoli relativi allo studio di meteoriti lunari, i terreni marziani e del materiale raccolto dalla sonda OSIRIS-Rex sull’asteroide Bennu“Asteroid Bennu in the laboratory. Propreties of the sample collected by OSIRIS-Rex” Meteoritics&Planetry Science 1-34 (2024)
Museo Collezione Vaticana di meteoriti
Informazioni Visite – A causa dello staff limitato e del personale ridotto le visite alla collezione di meteoriti sono possibili soltanto per motivi di ricerca e per la stampa, previo accordo via mail. – Mail: staff@specola.va – La specola vaticana di castel Gandolfo, con i telescopi storici è invece visitabile per gruppi da 11 a 25 persone, con prenotazione on line dal sito ufficiale. Mail info.musei@scv.va
Orari Informazioni del Sito
Biglietto Ingresso Informazioni dal sito (Tariffe diversificate a seconda dei gruppi)
Letture 108 Years of Meteorites at the Vatican Observatory -Robert J. Macke

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Caccia al radioisotopo mancante la sfida dell’astrofisica nucleare per lo studio delle novæ

In attesa della probabile esplosione di T Coronae Borealis
continuiamo gli approfondimenti sulla tipologia di oggetto che potremo osservare e le tecniche investigative messe in atto anche dalla ricerca.

Introduzione

Da più di mezzo secolo l’astronomia osservativa si serve dei risultati ottenuti con metodi di spettroscopia nucleare, inviati da telescopi alloggiati in satelliti o dalla stazione spaziale internazionale. La radiazione cosmica o quella proveniente da corpi celesti viene studiata attraverso metodologie di analisi caratteristiche della fisica nucleare la quali consentono di monitorare lo stato attuale dell’universo, vicino o profondo, migliorarne le informazioni già in possesso, esplorare il passato e l’evoluzione futura dello spazio.
In questo campo una sfida di nicchia estremamente curiosa coinvolge alcuni centri di ricerca, principalmente europei, ed è relativa alle novæ. Queste infatti vengono studiate attraverso l’analisi di spettri di emissione gamma di prodotti di reazioni nucleari e permettono di caratterizzare singole novæ e di confermare le teorie che ne spiegano la natura.



Con il termine nova si intende l’insieme dei fenomeni di fusione nucleare e di conseguenti emissioni di energia da parte di una nana bianca di un sistema binario.

Scoperte alla fine del XVIII secolo, le nane, dette bianche per il loro spettro [1], sono state osservate nel corso dell’‘800 [2, 3] e poi studiate sistematicamente. Sulla base delle considerazioni relative alle prime tre osservate, Sirio A, Sirio B e il Cucciolo, si poté presto affermare che queste stelle possiedono un’elevata temperatura superficiale attorno ai 9000 K [4], una massa ridotta e un’elevata densità. Una volta appurata l’esistenza delle nane bianche, Sir Arthur Stanley Eddington, astrofisico inglese vissuto a cavallo tra ‘800 e ‘900, concepì per primo un’ipotesi relativa alla loro struttura. Eddington immaginò che, data la loro massa elevata e la loro dimensione modesta, le nane dovessero essere costituite da materia fortemente addensata, ossia non da atomi o molecole, ma da uno stato di plasma, dove protoni e neutroni potevano addensarsi e muoversi liberamente [5]. Fu da subito evidente che le pressioni a cui le cariche sono sottoposte possono confinare masse relativamente ridotte, cosa che determinò una corsa alla valutazione della massa limite per una nana bianca. Successivamente ai lavori di Anderson e Stoner della fine degli anni ’20, fu il fisico indiano Subrahmanyan Chandrasekhar a formalizzare l’idea di un valore limite per la massa di una nana bianca non rotante, fissato in 1,44 masse solari e detto limite di Chandrasekhar.

Lo stato di nana bianca è spesso quello finale di una stella. Il destino di una stella dipende infatti dal valore della sua massa m e dà questi esiti:

– nane bianche piccole (per stelle di massa m, m<0,5 M 1): dette nane all’elio, sono lo stato finale di stelle di massa m<0,5 M in cui i processi di fusione degli elementi successivi all’elio sono resi impossibili dalla temperatura che raggiunge la stella al termine della sintesi dell’elio;
– nane bianche medie (per stelle di massa m, 0,5M <m<8 M ): tra le più diffuse, sono lo stato finale di stelle di massa intermedia; sono dette nane al carbonio-ossigeno e la massa della stella è sufficientemente elevata per proseguire la sintesi degli elementi leggeri, fino all’ossigeno2;
– oltre le nane medie (per stelle di massa m, m>8 M ): per queste stelle non è prevista un’evoluzione in nana bianca e la loro massa è sufficientemente elevata per permettere reazioni di fusione nucleare che consentono la formazione di elementi pesanti fino al ferro. Queste stelle terminano il loro corso in una supernova che darà vita principalmente a una stella di neutroni o a un buco nero.
Le supernove, che esplodono per fusioni che avvengono all’interno della stella, non vanno però confuse con le novæ.

Il contributo della fisica nucleare allo studio delle novæ in anni recentissimi ha suscitato interesse e dato vita a aspettative che potranno essere confermate solo nei prossimi anni.

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Fornax: Un Laboratorio Naturale per la Cosmologia e l’Astrofisica

Figura 1: Fornax dSph, foto di archivio ESA/Hubble

Come le galassie sferoidali nane (dSph, dwarf Spheroidal), satelliti della Via Lattea possono aiutarci nella comprensione dei meccanismi evolutivi delle Galassie.

Fornax dSph per la Fornax (o Near-Field Cosmology)

Nel modello cosmologico standard, noto come Λ-CDM (la lettera Λ Lambda, indica la costante riferita al contributo della Energia Oscura, mentre CDM sta per Cold Dark Matter, Materia Oscura Fredda), le galassie si formano per accrescimento e fusione di proto-frammenti, in un processo iniziato poche centinaia di milioni di anni dopo il Big Bang, e che osserviamo ancora oggi, sotto i nostri occhi. Certo, si può discutere se il modello Λ-CDM sia “vero” ma, allo stato attuale delle nostre conoscenze, è certamente quello che mette d’accordo più osservabili possibili, nei contesti astrofisici più diversi e in maniera sufficientemente coerente. Le predizioni della Λ-CDM, in realtà erano già state in qualche modo anticipate da un lavoro pioneristico del 1978, a cura di Leonard Searle & Robert Zinn, in maniera del tutto indipendente rispetto al modello Λ-CDM, al tempo non ancora nato. Nella ricerca i due astronomi, dalla attenta analisi degli spettri di 177 stelle giganti appartenenti a 19 ammassi globulari Galattici, dedussero che l’alone della Via Lattea non poteva essersi formato in un unico episodio, ma era piuttosto il risultato dell’accrescimento successivo di vari frammenti proto-galattici.

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Nuove scoperte sulle comete oscure: tra asteroidi e comete

Questa rappresentazione artistica mostra l'oggetto interstellare 1I/2017 U1 ('Oumuamua) dopo la sua scoperta nel 2017. Pur non essendo una cometa oscura, il suo movimento attraverso il sistema solare ha contribuito a far luce sulla natura delle 14 comete oscure identificate finora. Crediti: European Southern Observatory / M. Kornmesser.

Gli oggetti celesti noti come comete oscure sembrano asteroidi ma si comportano come comete, e ora si suddividono in due tipologie distinte.

La prima cometa oscura è stata identificata meno di due anni fa. Da allora, il numero di questi oggetti è cresciuto rapidamente: prima sei nuove scoperte e, di recente, altre sette, portando il totale a 14. Uno studio pubblicato il 9 dicembre sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences descrive queste nuove comete oscure, identificando due popolazioni principali: una composta da oggetti più grandi situati nel sistema solare esterno e un’altra formata da oggetti più piccoli, confinati nel sistema solare interno. Queste due categorie si distinguono anche per caratteristiche orbitali e di riflettività.

La nascita del mistero

Il primo indizio dell’esistenza delle comete oscure risale al 2016, quando gli astronomi notarono che l’asteroide 2003 RM aveva deviato leggermente dalla sua orbita prevista. La deviazione non era spiegabile dai fenomeni noti, come l’effetto Yarkovsky, e suggeriva una spinta dovuta a emissioni di materiale volatile, tipica delle comete. Tuttavia, l’oggetto non mostrava alcuna coda, apparendo indistinguibile da un comune asteroide.

“È stato un mistero intrigante”, ha dichiarato Davide Farnocchia del Jet Propulsion Laboratory (NASA). “Non avevamo mai visto un comportamento simile senza segni visibili di attività cometaria”.

Oumuamua e le comete oscure

Un altro tassello del puzzle è arrivato nel 2017 con la scoperta di 1I/2017 U1, meglio noto come ‘Oumuamua, il primo oggetto interstellare mai osservato. Anche ‘Oumuamua mostrava caratteristiche simili a quelle di 2003 RM: un comportamento tipico delle comete, ma senza alcuna evidenza visibile di degassamento. Questo ha reso il caso di 2003 RM ancora più affascinante, spingendo i ricercatori a indagare ulteriormente.

Una nuova classe di oggetti celesti

Entro il 2023, gli scienziati avevano catalogato sette oggetti con caratteristiche simili, abbastanza da definire una nuova categoria: le comete oscure. Con la recente scoperta di altri sette esempi, i ricercatori hanno potuto individuare due tipi distinti di comete oscure:

  1. Comete oscure esterne: situate nel sistema solare esterno, hanno orbite altamente ellittiche e dimensioni significative, spesso superiori ai 100 metri.
  2. Comete oscure interne: più piccole, con diametri inferiori ai 50 metri, si trovano nel sistema solare interno e seguono orbite quasi circolari.

Nuove domande, nuovi orizzonti

Queste scoperte aprono la strada a ulteriori indagini: da dove provengono le comete oscure? Qual è l’origine della loro accelerazione anomala? Potrebbero contenere ghiaccio o materiali volatili?

“Le comete oscure potrebbero rappresentare una fonte cruciale per lo studio dell’origine della vita sulla Terra”, ha commentato Darryl Seligman della Michigan State University, primo autore dello studio. “Comprendere il loro comportamento potrebbe rivelare nuovi indizi sul ruolo che questi oggetti hanno avuto nella formazione del nostro pianeta e nella consegna dei materiali necessari per lo sviluppo della vita”.

La ricerca, come spesso accade in astronomia, non fornisce solo risposte, ma solleva nuove e affascinanti domande.

Fonti: NASA

Hubble celebra un decennio di monitoraggio dei pianeti esterni

This is a montage of NASA/ESA Hubble Space Telescope views of our solar system's four giant outer planets: Jupiter, Saturn, Uranus, and Neptune, each shown in enhanced color. The images were taken over nearly 10 years, from 2014 to 2024. This long baseline allows astronomers to track seasonal changes in each planet's turbulent atmosphere, with the sharpness of the NASA planetary flyby probes of the 1980s. These images were taken under a program called OPAL (Outer Planet Atmospheres Legacy). From upper-left toward center, the hazy white polar cap on the three teal-colored Uranus images appears more face-on as the planet approaches northern summer. From center-right to far-center right, three images of the blue planet Neptune show the coming and going of clouds as the Sun's radiation level changes. Several of Neptune's mysterious dark spots have come and gone sequentially over OPAL's decade of observations. Seven views of yellow-brown Saturn stretch across the center of the mosaic in a triangle—one for each year of OPAL observations—showing the tilt of the angle of the ring plane relative to the view from Earth. Approximately every 15 years the relatively paper-thin rings (about one mile thick) can be seen edge-on. In 2018 they were near their maximum tilt toward Earth. Colorful changes in Saturn's bands of clouds can be followed as the weather changes. At bottom center, three images of Jupiter spanning nearly a decade, form a triangle. There are notable changes in Jupiter's banded cloud structure of zones and belts. OPAL measured shrinking of the legendary Great Red Spot, while its rotation period speeds up. [Image description: A montage of Hubble Space Telescope images of our solar system’s four giant outer planets: Jupiter, Saturn, Uranus, and Neptune, taken under the OPAL (Outer Planet Atmospheres Legacy) program over a duration of 10 years, from 2014 to 2024.]

Dal 2014 al 2024, il telescopio spaziale Hubble della NASA/ESA ha condotto uno studio approfondito dei pianeti esterni del nostro Sistema Solare attraverso il programma OPAL (Outer Planet Atmospheres Legacy). L’obiettivo principale del programma è stato quello di ottenere osservazioni di lungo termine su Giove, Saturno, Urano e Nettuno, per comprendere le dinamiche e l’evoluzione atmosferica di questi giganti gassosi. Hubble si distingue come unico strumento in grado di fornire immagini con elevata risoluzione spaziale e stabilità, permettendo di monitorare su base regolare e coerente fenomeni atmosferici come il colore delle nubi, l’attività meteorologica e i movimenti atmosferici.

Caratteristiche comuni dei giganti gassosi

Tutti e quattro i pianeti esterni sono caratterizzati da atmosfere profonde e prive di una superficie solida. I loro sistemi meteorologici sono unici, con tempeste giganti, fasce di nubi multicolori e fenomeni atmosferici di lunga durata. Le stagioni su questi pianeti durano molti anni, data la loro distanza dal Sole e le caratteristiche delle loro orbite. Studiare i loro climi è cruciale non solo per comprendere il meteo dinamico della Terra ma anche per fornire un modello per pianeti extrasolari simili.

Metodologia del programma OPAL

OPAL ha garantito osservazioni annuali di ciascun pianeta quando erano più vicini alla Terra, durante l’opposizione. Questa metodologia ha prodotto un vasto archivio di dati utili agli astronomi di tutto il mondo e ha permesso scoperte straordinarie. Di seguito, una sintesi delle principali scoperte per ciascun pianeta.

This is a montage of NASA/ESA Hubble Space Telescope views of our solar system’s four giant outer planets: Jupiter, Saturn, Uranus, and Neptune, each shown in enhanced color. The images were taken over nearly 10 years, from 2014 to 2024. This long baseline allows astronomers to track seasonal changes in each planet’s turbulent atmosphere, with the sharpness of the NASA planetary flyby probes of the 1980s. These images were taken under a program called OPAL (Outer Planet Atmospheres Legacy). From upper-left toward center, the hazy white polar cap on the three teal-colored Uranus images appears more face-on as the planet approaches northern summer. From center-right to far-center right, three images of the blue planet Neptune show the coming and going of clouds as the Sun’s radiation level changes. Several of Neptune’s mysterious dark spots have come and gone sequentially over OPAL’s decade of observations. Seven views of yellow-brown Saturn stretch across the center of the mosaic in a triangle—one for each year of OPAL observations—showing the tilt of the angle of the ring plane relative to the view from Earth. Approximately every 15 years the relatively paper-thin rings (about one mile thick) can be seen edge-on. In 2018 they were near their maximum tilt toward Earth. Colorful changes in Saturn’s bands of clouds can be followed as the weather changes. At bottom center, three images of Jupiter spanning nearly a decade, form a triangle. There are notable changes in Jupiter’s banded cloud structure of zones and belts. OPAL measured shrinking of the legendary Great Red Spot, while its rotation period speeds up. [Image description: A montage of Hubble Space Telescope images of our solar system’s four giant outer planets: Jupiter, Saturn, Uranus, and Neptune, taken under the OPAL (Outer Planet Atmospheres Legacy) program over a duration of 10 years, from 2014 to 2024.]

Giove

Le osservazioni di Hubble hanno documentato i continui cambiamenti nelle fasce di nubi di Giove, caratterizzate da colori vivaci e un meteo estremamente attivo. La Grande Macchia Rossa (GRS), la più grande tempesta del Sistema Solare, è stata monitorata con precisione, rivelando una riduzione progressiva delle sue dimensioni, pur rimanendo abbastanza grande da inglobare la Terra. Hubble ha inoltre individuato misteriosi ovali scuri nelle cappe polari visibili solo in ultravioletto.

Grazie alle capacità di osservazione continuativa di Hubble, impossibili per telescopi terrestri, il programma ha anche registrato variazioni stagionali legate alla distanza di Giove dal Sole lungo la sua orbita di 12 anni. Inoltre, le osservazioni di OPAL potrebbero supportare future missioni come il Jupiter Icy Moons Explorer (Juice) dell’ESA, lanciato nel 2023, che esplorerà le lune di Giove come possibili habitat.


Saturno

Saturno, con un periodo orbitale di oltre 29 anni, presenta stagioni lunghe sette anni, influenzate dalla sua inclinazione di 26,7 gradi. OPAL ha ripreso i cambiamenti nei colori delle sue nubi e l’apparizione di raggi scuri transitori nei suoi anelli, fenomeni stagionali documentati dal programma a partire dal 2021.

Hubble ha osservato anche variazioni annuali sottili nei colori atmosferici, probabilmente legate a cambiamenti nei venti e all’altezza delle nubi. Questi cambiamenti sono più evidenti con il passaggio da una stagione all’altra, rendendo le osservazioni a lungo termine di OPAL fondamentali per comprendere il clima del pianeta.

Una serie di immagini di Saturno mostra dati reali raccolti attraverso diversi filtri, mappati sui colori RGB percepibili dall’occhio umano. Ogni combinazione di filtri evidenzia differenze sottili nell’altitudine o nella composizione delle nubi. Gli spettri a infrarossi della missione Cassini hanno suggerito che le particelle di aerosol di Saturno possano avere una diversità chimica ancora più complessa rispetto a Giove. Il programma OPAL (Outer Planet Atmospheres Legacy) continua l’eredità di Cassini monitorando le variazioni nel tempo dei pattern nelle nubi di Saturno. Credit:
NASA, ESA, A. Simon (NASA/GSFC), M. Wong (UC Berkeley), J. DePasquale (STScI)

Urano

Urano è particolarmente interessante per la sua estrema inclinazione assiale di quasi 98 gradi, che causa stagioni drammatiche lungo la sua orbita di 84 anni. Durante il decennio di osservazioni OPAL, Hubble ha seguito il polo nord di Urano inclinato verso il Sole, documentando un’intensificazione della foschia polare e la comparsa di tempeste di cristalli di metano nelle latitudini medio-settentrionali.

Con l’avvicinarsi del solstizio estivo nel 2028, si prevede che la calotta polare settentrionale di Urano diventerà ancora più luminosa, offrendo un’opportunità unica per osservare il pianeta e il suo sistema di anelli.


Nettuno

Le osservazioni di Nettuno hanno permesso di seguire il ciclo di vita di grandi macchie scure, tempeste transitorie che appaiono e scompaiono nel giro di due-sei anni. Hubble ha documentato il declino di una di queste macchie e l’intero ciclo vitale di un’altra, dimostrando la dinamicità atmosferica del pianeta.

Sorprendentemente, i dati OPAL hanno evidenziato una correlazione tra l’abbondanza di nubi di Nettuno e il ciclo solare di 11 anni, suggerendo che l’attività solare potrebbe influenzare il meteo del pianeta, nonostante Nettuno riceva solo lo 0,1% della luce solare percepita dalla Terra.


Conclusioni

Il programma OPAL rappresenta una pietra miliare per l’astronomia planetaria, fornendo una base di dati essenziale per comprendere i giganti gassosi del Sistema Solare e, per estensione, i pianeti extrasolari. Con il progredire delle osservazioni, le scoperte continuano a offrire nuove prospettive sul meteo, il clima e le dinamiche atmosferiche, alimentando il nostro desiderio di esplorare l’universo.

Fonte: https://esahubble.org/news/heic2416/

Controller Automatico per Fasce Anticondensa

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di Federico Zarini

Una delle esperienze che si affrontano da astrofili itineranti scegliendo un posto nuovo, magari remoto e in aperta campagna, è arrivare a metà sessione fotografica o osservativa e non vedere più nulla, al massimo una nebbiolina sfocata che rende tutto opaco: è la rugiada. In realtà è semplice umidità che si liquefà su tutti gli oggetti presenti, prato, sedie, computer e ottiche, con un determinato rapporto di saturazione dell’aria e della temperatura ambientale.

 

Se si verificano le condizioni giuste tutto diventa bagnato e le nostre ottiche si appannano. L’importante è capire che asciugare le lenti o gli specchi non risolve il problema perché la rugiada ricompare in pochi secondi.
Per comprendere il fenomeno alcuni studiosi compilarono delle tabelle annotando i dati di temperatura e umidità relativa in cui gli oggetti si appannavano. Dal successivo studio ne emerse una relazione matematica chiamata punto di rugiada o Dew-Point in inglese. Con tale espressione è possibile prevedere la presenza delle condizioni perché si formi la “condensa”.
Scendendo nella pratica per evitare il fastidioso inconveniente sarebbe sufficiente mantenere la temperatura della strumentazione leggermente sopra al valore previsto, grazie all’uso della relazione di rugiada. Si tratta perciò di scaldare in qualche maniera i nostri telescopi, le ottiche e le astrocamere. Per assolvere a una simile funzione sono state inventate ad esempio delle fasce, di lunghezza variabile e alimentate con i classici 12 volt delle batterie, che si scaldano fino a 35°C. e che vanno avvolte sul tubo in maniera da riscaldare l’ottica quel tanto da superare la soglia di formazione della condensa, ma la soluzione non è ottimale. Se è vero infatti che da un lato la condensa non si formerà più, dall’altro si manifesteranno complicazioni come il consumo di energia e le stesse temperature eccessive delle ottiche. Se facciamo uscite lunghe, anche di 3 o 4 ore, il consumo extra finirà per esaurire presto la nostra batteria, preziosa alla vera attività astronomica, mentre se le ottiche restano per molte ore riscaldate, oltre a varie dilatazioni che possono compromettere la resa degli strumenti, anche l’aria che sta attorno si riscalderà causando turbolenze sempre fastidiose. È noto a tutti gli astrofili osservatori e astrofotografi che il tubo deve acclimatarsi quanto più possibile proprio per evitare che eventuali turbolenze generino fenomeni ottici apparenti, causarlo di proposito sarebbe assolutamente controproducente.
Oggi le fasce sono vendute con un piccolo accessorio che ne consente la regolazione della potenza tuttavia esse restano difficili da gestire in maniera intuitiva. Si rende necessario un supporto automatizzato in grado di analizzare l’ambiente e decidere se attivare o meno il riscaldamento del telescopio.


In commercio oggi si trovano molti controller per fasce anticondensa o Dewpoint controller di marchi noti come la stessa Celestron che ha sviluppato un modello che per esigenze particolari può essere un ottimo prodotto con innumerevoli features, le quali però spesso risultano eccessive o costose per chi dell’astronomia fa un hobby o effettua singole sessioni portandosi dietro un singolo tubo.
La soluzione tecnica che segue è dedicata proprio a coloro che si identificano in tali modalità di approccio alla passione.

Passiamo quindi a descrivere i passaggi per realizzare fai-da-te un controller per fasce anticondensa.
Il progetto è basato su Arduino, microcontroller ben voluto dagli astrofili sia per il basso costo che per la semplicità di programmazione. I sensori associabili inoltre sono facilmente reperibili in formato a modulo già saldati e con le connessioni disponibili anche per il montaggio rapido e per fare qualche test a banco.

Il progetto si presenta abbastanza completo e funzionale, esso è composto da un microprocessore che analizza e governa due sensori di temperatura e uno di umidità, calcola il dew-point e regola il segnale PWM in uscita sulla fascia. L’alimentazione è a 12 volt. Può essere collegato ad un pc (opzionale) e ricevere i dati direttamente via seriale. L’aggiunta di uno schermo Oled a 4 righe consente di seguire le operazioni.

COMPOSIZIONE DEL CORE

Il core è composto da:
• ATmega32u4 (Arduino Leonardo)
• Step-down 12v->5V
• Sensore 18b20
• Sensore HTU21
• Modulo optoisolato Mosfet D4184
• Oled 0,91” 128×32 pixel SSD1306

Le scelte sono ricadute sulle schede in elenco perché sono semplici da controllare ma soprattutto offrono dimensioni minime indispensabili allo scopo.

Come accessori extra potremo optare per:
• Connettore jack RCA per la fascia
• Connettore alimentazione Femmina 5,5 mm x 2,1 mm ingresso 12V
• Cavi e piattine a necessità
• 1 scatolina 80x40x15 mm (minimo)
• Nastro Kapton
• Guaina termo-restringente
I COMPONENTI IN DETTAGLIO

fig1-arduino ATMEGA32u4

Il microprocessore è un Arduino Leonardo nella declinazione ATMEGA32u4, ce ne sono davvero molte anche Mini o Micro e in generale vanno tutte bene essendo il programma universale, tuttavia la versione ATMEGA32u4 offre le dimensioni minime di soli 2x2cm (fig.1).

Il sensore ibrido di temperatura e umidità relativa HTU21, che lavora in I2C, richiede solo 2 fili per lo scambio dati mentre possiede un intervallo notevole di funzionamento: da -40°C a +125°C e 0-100% RH Relative Humidity (fig. 2).

fig2-sensore di Temperatura e Umidità relativa HTU21

Il secondo sensore è di sola temperatura, il 18b20, ma è digitale e di precisione. È usato praticamente ovunque, anche nei termostati casalinghi, e dialoga con un solo filo (fig.3).

Fig3-sensore di temperatura Dallas 18b20
fig4-display OLED
Fig5-convertitore step-down
Fig6-modulo mosfet PWM
Fig7-connettori RCA ed alimentazione

Il display è di tipo oled in bianco e nero, il più usato ed economico sul mercato, consente di creare contemporaneamente 4 righe di testo comandandolo con soli 2 fili sempre in I2C (fig.4).
Resta il problema di fornire la corretta alimentazione ad Arduino e ai sensori dato che tutti lavorano a 5 volt come standard. Per trasformare l’alimentazione astronomica standard di 12 volt in 5 volt abbiamo introdotto la piccola scheda step-down di 2x1cm, tra le più piccole sul mercato (fig.5).
Infine, per il corpo centrale non ci resta altro che aggiungere un componente per controllare la potenza della nostra fascia con una piccola scheda a Mosfet obbligatoria se si vuole comandare un carico con il segnale PWM (fig.6).
Sono inoltre necessari due connettori adatti a ricevere la tensione 12 volt in ingresso ed a cederla alla fascia in uscita (fig.7).

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Programmazione del Controller Automatico

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Arduino viene programmato attraverso un ambiente di sviluppo IDE, sul sito web all’indirizzo https://www.arduino.cc/en/software troverete la versione per il vostro sistema operativo, io uso windows ed ho scaricato la versione Legacy IDE 1.8.19 (Fig.14)

Fig.14

Il listato “DewPoint_controller_2024.ino” è scritto in C e contiene tutti i riferimenti necessari al funzionamento immediato; tuttavia, se non avete mai avuto a che fare con Arduino, il vostro IDE risulterà vuoto e con le sole informazioni sulle schede Arduino esistenti in commercio. Non saprà dell’esistenza di ulteriori aggiunte come i sensori e il display.

Per risolvere il problema è presente un apposito menù con cui aggiungere ciò che manca. Le librerie necessarie sono disponibili nella Gestione librerie dell’IDE come in Fig.15 o con la scorciatoia da tastiera Ctrl+Maiusc+I.

Fig15-librerie

Si presenterà una finestra dove scrivere la libreria che occorre installare(Fig.16a)

In particolare dovrete aggiungere le seguenti librerie (Fig.16b e 16c)

Fig16a-librerie
Fig16b
Fig16c

Qui analizziamo solo delle parti esplicative non essendo un trattato di informatica per Arduino

Listato inizializzazione

Questa parte prevede di richiamare le librerie specifiche per far funzionare i sensori.

Listato: variabili

Occorrono poche variabili.

Listato: setup

Nel Setup vanno inizializzati tutti i servizi cosìsarà possibile ricevere e leggere i dati dai sensori e scrivere sul display.

Listato: Loop

La parte “LOOP” è una parte del programma che viene ripetuta continuamente e come impostato nelle variabili effettua questo ciclo ogni 5 secondi (Tsec).

Verranno richiamate in sequenza delle Routine per leggere i sensori, calcolare il valore di Dew-point e calcolare la potenza della fascia riscaldata.

Listato: scrive sul display

La direttiva “.print” invia il testo al display

Listato: calcola PWM

Il calcolo del PWM prevede, dopo molte prove, di mettere un range di funzionamento di 7°C tra minima e massima potenza della fascia.

Questo consente di partire in anticipo rispetto al punto di rugiada che, per vento e tempi di adeguamento del tubo alla temperatura, formerebbe la condensa prima dell’intervento reale della fascia.
analogWrite attiva il segnale PWM: altro non è che una percentuale da 0 a 100 della potenza della fascia.

Listato: calcola il Dew-point

Qui viene attivato il calcolo vero e proprio del punto di rugiada che richiede l’uso della formula approssimativa di Magnus-Tetens, essa prevede la relazione dell’andamento temperature/umidità che
potete approfondire su molti siti web. Nel link seguente è disponibile anche un calcolatore on line http://glossariometeo.altervista.org/Punto_di_rugiada.php. Programmare Arduino è un attimo, basta collegare ad usb la scheda e viene riconosciuta dal pc (i drivers sono installati insieme con l’IDE). Unica accortezza è dire all’IDE quale scheda Arduino dobbiamo programmare visto che lui ne conosce moltissime e quale porta usare di quelle disponibili sul vostro computer. (fig.17a e 17b)

Fig17a
Fig17b

La buona notizia è che lo potete programmare anche prima di saldare tutti i fili.

Io non userò la presa usb per leggere i dati ma voi potete provare ed otterrete le stesse informazioni presenti sul display.

Si rimanda al link genrato dal QR Code per le istruzioni necessarie alla programmazione di Arduino.

A Caccia di Diamanti e Carbonio Extraterrestri

Alla fine degli anni quaranta del secolo scorso una nota campagna pubblicitaria coniò lo slogan molto accattivante “Un diamante è per sempre” che entrò nel linguaggio comune connotando tale minerale come un oggetto che sancisce un legame eterno e indistruttibile. Lo slogan si basava sul fatto che il diamante è il minerale più resistente al mondo (nessun altro materiale può scalfirlo), ma noi oggi sappiamo che in realtà quel famoso slogan involontariamente sottolineava anche un’altra caratteristica eccezionale del cristallo: l’età, che in alcuni casi può raggiungere persino i 3,5 miliardi di anni.

Diamanti e carbonio: esplorando le tracce extraterrestri che raccontano l’origine della vita e la formazione del Sistema Solare.

a cura di Carli Cristian, Nestola Fabrizio, Alvaro Matteo

Volendo poi, partendo dal famoso slogan, potremmo forgiarne addirittura un secondo non meno impattante: “Un diamante è per la vita”. I diamanti infatti sono minerali composti da carbonio puro e, da studi isotopici di tale carbonio, risulta evidente come molti diamanti si siano formati a partire da carbonio generato da sostanza organica. Una combinazione, quella fra carbonio e sostanze organiche che, in ambito delle scienze planetarie, induce a pensare alla presenza di segni di vita anche su altri pianeti.
Un diamante, perciò può formarsi solo sul nostro pianeta o esistono diamanti extraterrestri? E possono i diamanti fornirci informazioni sulla vita nel Sistema Solare?
Un recente lavoro ad esempio ha evidenziato la possibilità di trovare diamanti su Mercurio ma per rendere la ricerca sistematica e individuare altri campioni di diamanti extraterrestri è fondamentale definire quali sono i fattori che ne possono rivelare la presenza.
Proviamo in questo articolo a presentare le modalità attraverso cui la ricerca prova a rispondere alle precedenti domande partendo da ciò che si è scoperto sino ad oggi sul carbonio extraterrestre.

Carbonio extraterrestre

Lo studio del carbonio è di fondamentale importanza in quanto ci fornisce informazioni cruciali sull’origine della vita e sui processi che hanno avuto luogo miliardi di anni fa nel Sistema Solare, risalendo poi a ritroso sino all’origine del “tutto” al momento del Big Bang.
Sempre più studiosi negli ultimi decenni hanno cercato di approfondire la conoscenza di questo elemento chimico, e sui minerali che può contribuire a formare, operando sia in modo diretto, investigando ad esempio i campioni di roccia nei quali può essere rinvenuto, sia in maniera indiretta, dall’analisi di dati acquisiti da remoto o tramite modelli ed esperimenti.
Ma dove possiamo trovare il carbonio non proveniente dalla Terra?
La risposta è nelle circa 60 tonnellate di particelle di polvere cosmica/interplanetaria (IDP) di dimensioni comprese tra 1 e 50 µm che cadono sulla superficie terrestre ogni anno, a cui aggiungiamo sia le circa 17.600 meteoriti con una massa superiore a 50 grammi sia le micrometeoriti di dimensioni inferiori al millimetro.
A tali quantità possiamo sommare i campioni extraterrestri raccolti direttamente in situ, come avvenuto grazie alle missioni Apollo della Nasa e le missioni LUNA promosse dall’Unione Sovietica o, più recentemente, a missioni con target come comete (Stardust, NASA) o asteroidi (Hayabusa e Hayabusa2, JAXA o OSIRIS-Rex , NASA). C’è da dire che i campioni raccolti nelle missioni hanno di sicuro il vantaggio di essere ben localizzati ma giocano a sfavore sia le quantità esigue e spesso proprio il limite di essere riferite a pochi siti di campionamento (figura 1).

dall’alto
Corpo: Bennu & 81P/Wild2
Missione: Osiris Rex 2023 &Stardust 2008
Corpo: Luna
Missione: Apollo (11,12,14, 17) NASA 1970s – Luna (15,20,25) Roscosmos 1970s – Change’e5 CNSA 2020
Corpo: Itokawa & Ryugu
Missione: Hayabusa 2010 & Hayabusa2 2020
Meteoriti
Polvere Cosmica

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GASP Gas Stripping Fenomena in Galaxies

Il progetto di ricerca GASP ha come scopo principale quello di comprendere come le galassie vicine a noi possano evolvere a seconda
dell’ambiente in cui vivono e, in particolare, quali siano i meccanismi fisici che riescono
a strappare il gas delle galassie, influenzando la loro forma.

Dal Gas Strappato alle Galassie Medusa: Come l’Ambiente Modella l’Evoluzione Galattica

di Benedetta Vulcani, Bianca Maria Poggianti, Alessia Moretti, Marco Gullieuszik

Introduzione

Lo studio dell’evoluzione delle galassie è uno dei settori più attivi dell’astrofisica moderna. Studiare l’evoluzione delle galassie è fondamentale per comprendere l’universo e il nostro posto al suo interno. Le galassie sono i mattoni dell’universo; analizzare come si formano, evolvono e interagiscono ci aiuta a svelare i processi che hanno portato alla formazione delle strutture cosmiche su larga scala ovvero dell’Universo stesso. Inoltre, capire l’evoluzione delle galassie può offrire indizi sull’origine e sulla distribuzione della materia oscura, sull’espansione dell’universo e sulle condizioni che hanno permesso la formazione di stelle, pianeti e, in ultima istanza, la vita.
Le principali domande che gli astronomi si pongono sulle galassie riguardano la loro formazione, evoluzione e composizione. Ad esempio, ancora non sappiamo quali siano i processi che hanno portato alla nascita delle prime galassie nell’universo primordiale, quali fattori influenzino la loro evoluzione (come ad esempio le interazioni tra galassie o le attività del buco nero supermassiccio centrale), quali siano i meccanismi che regolano la formazione di nuove stelle al loro interno, cosa determini la loro forma e struttura e quale sia il loro destino finale. Queste domande guidano molte delle ricerche attuali in cosmologia e astrofisica, e la loro comprensione può offrire una visione più completa.

Fig. 1 – Osservatorio di Padova


Il progetto di ricerca GASP ha come scopo principale quello di comprendere come le galassie vicine a noi possano evolvere a seconda dell’ambiente in cui vivono e, in particolare, quali siano i meccanismi fisici che riescono a strappare il gas delle galassie, influenzando la loro forma. GASP è l’acronimo di “Gas Stripping Phenomena in Galaxies”, che vuol letteralmente dire “fenomeni fisici che riescono a strappare il gas alle galassie”. Il progetto è guidato dalla dott.ssa Bianca Maria Poggianti, direttrice dell’Osservatorio astronomico di Padova (Fig.1), una delle sedici sedi in Italia dell’Istituto Nazionale di Astrofisica ente di ricerca nazionale dedicato all’astrofisica.
Il progetto GASP è stato finanziato dal Consiglio per la ricerca europeo con un ERC Advanced Grant di 2 milioni e mezzo di euro per cinque anni. L’importo è stato sfruttato principalmente per finanziare giovani ricercatrici e ricercatori a collaborare a questo progetto e a disseminare i risultati in conferenze di carattere nazionale e internazionale. Negli ultimi anni, all’Osservatorio di Padova una quindicina di persone tra personale a tempo indeterminato, PostDoc e dottorande/i, ha afferito al gruppo GASP. Al corposo gruppo si sono aggiunti circa venti altri ricercatori di istanza in altri istituti, sia sul suolo italiano che internazionale. La complessità degli studi affrontati infatti ha richiesto la collaborazione di scienziati con esperienze professionali complementari.


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Fig. 9. Esempi di galassie che risentono della cosiddetta ram pressure stripping. Scie di materiale perso dalla galassia nel suo moto attraverso l’ammasso sono evidenti. GASP ha scoperto come in queste code si possano formare nuove stelle. (Credit: ESA/Hubble & NASA, M. Gullieuszik and the GASP team).

MESSIER 19 – Ammasso Globulare

Messier 19 - © NASA, ESA, and C. Johnson; Image Processing: Gladys Kobe

Indice dei contenuti

ABSTRACT

Si ritorna agli ammassi globulari con Messier 19. Per ricordare, a chi approccia la rubrica per la prima volta, gli ammassi globulari celesti sono insiemi di stelle a volte molto appariscenti che orbitano come satelliti intorno al centro di una galassia. Tali affascinanti strutture, ai confini delle galassie, riescono a mantenere al loro centro una densità di stelle molto elevata, assumendo una forma perlopiù sferica.

Storia delle osservazioni

Messier 19 è stato scoperto da Charles Messier il 5 Giugno 1764, solo due giorni dopo la scoperta di M18 (vedi Coelum Astronomia n°270). Lo descriveva così: “Nella notte tra il 5 ed il 6 Giugno, 1764, ho scoperto una nebulosa situata parallela ad Antares, tra lo Scorpione ed il piede sinistro dell’Ofiuco: la nebulosa è rotonda e non contiene alcuna stella; l’ho esaminata con un telescopio Gregoriano [un tipo di telescopio riflettore ideato dal matematico ed astronomo scozzese James Gregory, antecedente al telescopio Newtoniano, nda] calcolando il suo diametro in circa 3 minuti d’arco.”

Nel 1783, l’astronomo e fisico tedesco naturalizzato inglese William Herschel fu il primo a risolvere le componenti stellari della “nebulosa” vista da Messier, riclassificandola quindi in un ammasso, usando un telescopio da 10 piedi (circa tre metri) ed annotò: “A 250 ingrandimenti posso vedere cinque o sei stelle, mentre le altre appaiono come chiazze indistinte.”

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Cortina sotto le Stelle: Fotografie e Racconti di Cristian Bigontina tra Dolomiti e Astronomia

Foto 9: La Luna sorge sopra il Sorapis al tramonto mentre e in atto l’enrosadira.

Cristian Bigontina, fotografo paesaggista di Cortina d’Ampezzo, racconta la sua passione per la fotografia nata 13 anni fa grazie a corsi di astronomia. Specializzato in scatti notturni, unisce la bellezza del cielo stellato a quella delle Dolomiti, catturando eventi straordinari come l’aurora boreale, la cometa 12P Pons Brooks e la nebulosa di Orione. Con attrezzatura avanzata e tanta dedizione, Cristian trasforma ogni scatto in un’esperienza unica, cercando di trasmettere emozioni autentiche. Le sue opere celebrano la magia della natura, offrendo un viaggio visivo tra luci, silenzi e paesaggi mozzafiato.

Mi chiamo Cristian Bigontina, ho 38 anni, vivo a Cortina d’Ampezzo e sono appassionato di fotografie paesaggistiche. La mia passione per la fotografia è nata 13 anni fa grazie a dei corsi di astronomia che si svolgevano al planetario di Cortina. In questi corsi oltre a spiegare la volta celeste, mostravano come si potevano realizzare fotografie notturne.

Poi si sa che la fortuna ci vede benissimo e siccome mi facevano comodo ho vinto al gratta e vinci la somma necessaria per comprarmi una reflex (Canon 500d), la vita è davvero fatta di molte coincidenze! Nell’arco degli anni ho avuto la fortuna di confrontarmi con molti altri fotografi non solo di Cortina e grazie alla perseveranza nel cercare e testare differenti tecniche sono riuscito ad arrivare a quelli che considero, pur senza vanto, dei buoni risultati.

La fotografia per me non è mai stata la cattura dello scatto perfetto ma si tratta bensì di un’avventura. A partire dalla fase di studio passando per le nottate in bianco nei posti scelti, il vivere nel momento; vedere i cambiamenti di luce, l’aria che accarezza il viso, sentire il morbido prato o la dura roccia sotto ai piedi, ascoltare il rumore del silenzio appena cala la notte, cercare di creare scatti complessi, abbinare la bellezza della terra con quella del cielo. Confesso di non amare troppo la post produzione, preferisco l’impegno nel settare tutto al meglio sul campo così da ridurre al minimo ogni intervento successivo.

Attualmente mi sono minuto di un set completo composto da: una Canon 6D Mark II, 14mm samyang f 3.1, Canon serie L 16-35mm f2.8, Canon serie L 24-105mm f4, canon 70-300mm f 5.6, astroinseguitore Skywacher Star Adventurer. Un kit con il quale punto a realizzare fotografie capaci di creare un’emozione, forte quasi tangibile, quasi che l’osservatore sia poiin grado di immaginarsi in piedi li di fianco a me, in un magico e preciso momento. Naturalmente non sottostimo un’ennesima vivendo in luoghi che oltre alle bellissime montagne possono offrire un cielo notturno in tutta la sua magnificenza grazie all’esiguo inquinamento luminoso.

Se non bastasse nell’ultimo anno il cielo ci ha donato rari e affascinanti spettacoli. Fra essi l’aurora boreale (Sar) che sono riuscito ad immortalare in due occasioni. La prima è stata il 5 Novembre 2023 (foto 1).

Foto 1: Cortina d’Ampezzo e l’Aurora il 5 Novembre 2023

Ero a cena con mia moglie a San Vito di Cadore, nell’attesa in quella abitudine oramai consolidata di scrollare i social apprendo che era in atto un’aurora visibile sin dalle Dolomiti. Cena ovviamente saltata e con la comprensione di mia moglie rimasta comunque al ristorante, in poco ero a casa a prendere tutta l’attrezzatura necessari. Non avevo avuto tempo di progettare lo scatto e scegliere il posto più adatto perciò ho optato per il paese in cui abito, il belvedere di Pocol che si trova comunque lungo la strada per andare ai passi Giau e Falzarego. La foto è stata catturata con il 16-35mm, primo piano f 8, iso 1600 tempi da 2 secondi a 1 minuto e mezzo, i frame sono stati poi uniti in hdr in post produzione. Il cielo è uno scatto singolo di 10 secondi f8 8000 iso. Per il primo piano invece ho dovuto sfruttare più scatti per gestire le luci del paese.

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APOD DEL 13 OTTOBRE 2024

Il video dell’aurora boreale realizzato dall’autore è stato riconosciuto come Astronomical Picture Of the Day del 13 ottobre 2024.
Setup e tecnica: zona delle Cinque Torri, Cortina d’Ampezzo. Scatto composto da 163 fotografie F 4.5, 13 secondi, iso 8000, focale 16mm. Canon 6D Mark II, 16-35mm Canon serie L F 2.8. Montaggio a cura di Diego Zardini.

Le immagini sono di proprietà di @Cristian Bigotina, vietata la riproduzione

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VI Simposio Ottico Meccanici Italiani

VI Simposio Ottico Meccanici Italiani

07 dicembre 2024

Castel Gandolfo presso la Sede della Specola Vaticana – Albano Laziale

Il VI Simposio Nazionale degli Ottico-Meccanici Italiani rappresenta un appuntamento unico dedicato agli appassionati e professionisti del settore ottico e meccanico. Questo prestigioso evento si terrà nella suggestiva cornice della Specola Vaticana a Castel Gandolfo, un luogo iconico per l’astronomia e la scienza.

La giornata sarà ricca di attività, tra cui visite guidate al Museo degli Uffici della Specola e ai telescopi storici, come il celebre Carte du Ciel. Il programma prevede anche momenti di approfondimento scientifico con interventi di esperti, che presenteranno temi di grande rilevanza nel panorama ottico-meccanico, oltre a sessioni di osservazione astronomica serale con strumenti storici.

Un evento che celebra la tradizione e l’innovazione in un settore che guarda alle stelle, offrendo un’occasione per il confronto, la condivisione di esperienze e l’esplorazione di nuove frontiere tecnologiche.

Nel mese di agosto 2016, Gianfranco Coppola, storico ottico, e Adriano Lolli hanno dato vita a un progetto nato con l’obiettivo di riunire i vari operatori del settore. Con il prezioso contributo del compianto Paolo Campaner e di Antonello Satta, la prima edizione dell’evento si è tenuta a dicembre dello stesso anno a Musile di Piave, immortalata in un video disponibile su YouTube: Link al video.

Da quel momento, l’iniziativa è diventata un appuntamento annuale, con l’unica eccezione del periodo segnato dalla pandemia. Nel corso degli anni, l’evento è cresciuto progressivamente, come testimoniato in un video riassuntivo delle prime quattro edizioni, disponibile qui: Link al video.

La sesta edizione si terrà sabato 7 dicembre 2024 presso la prestigiosa sede della Specola Vaticana, a Castel Gandolfo – Albano Laziale. L’organizzazione di questa edizione è curata da Adriano Lolli, con il supporto di Claudio Costa e Antonello Satta.

Programma della Giornata

Programma del VI Simposio Nazionale Ottico Meccanici Italiani

Programma della giornata:

  • Ore 10-10:59: Arrivo e presentazioni presso la Specola Vaticana, Piazza Sabatini 5.
  • Ore 11: Visita al Museo degli Uffici della Specola Vaticana, con focus su storia, meteoriti, strumenti e libri antichi.
  • Ore 12: Visita ai Giardini Vaticani e pranzo al sacco.
  • Ore 15: Visita alle specole dei telescopi Carte du Ciel e Schmidt e all’attiguo Museo Astronomico.
  • Ore 17: Sala Conferenze Buffetti: apertura lavori con i saluti delle autorità ecclesiastiche.
  • Ore 20: Cena al ristorante Sor Capanna, Corso della Repubblica 12, Castel Gandolfo.
  • Ore 22: Osservazioni astronomiche (Luna, Saturno e Giove) con il telescopio storico Carte du Ciel del 1891.

 

Interventi e relatori al VI Simposio Ottico Meccanici Italiani

Relatori e tematiche principali

Adriano Lolli (Moderatore): L’ottica di Leonardo e il suo scopritore.

Richard A. D’Souza S.J.: Il telescopio Vaticano a tecnologia avanzata (VATT).

Claudio Costa: Dieci anni di restauro dei telescopi storici della Specola Vaticana.

Roberto Ciabattoni: Uso di filtri e camere multispettrali per la diagnostica su opere d’arte.

Roberto Ragazzoni: Campo grande, grandioso, grandissimo: i limiti dei telescopi.

Fabrizio Tamburini: Luce strutturata: dall’astronomia al computer ottico quantistico.

Massimo D’Apice: Compensatore di Dispersione Atmosferica basato su lamina ottica.

Antonello Satta: H-alpha solare: esperienze di autocostruzione.

Giove in opposizione: Uno spettacolo imperdibile del cielo di dicembre 2024

Condizioni favorevoli in dicembre per il gigante gassoso. Il 6 dicembre, Giove raggiungerà il perigeo, ossia il punto della sua orbita più vicino alla Terra. Il giorno successivo, il 7 dicembre, Giove sarà in opposizione al Sole esattamente dalla parte opposta rispetto al Sole nel cielo terrestre, sorgendo al tramonto e tramontando all’alba. La configurazione sommata alla precedente contribuirà a far apparire Giove come luminoso e visibile per tutta la notte, ideale per chi desidera osservarne i dettagli, come le sue bande di nubi e i principali satelliti. Infine, il 14 dicembre, Giove avrà una suggestiva congiunzione con la Luna, che passerà a circa 5°28′ a nord del pianeta.

Schema della posizione di Giove in opposizione rispetto al Sole. Orbite e pianeti non sono in scala.

Giove nella costellazione del Toro

Durante l’opposizione, mag -2.8 e diametro apparente 47,1”, Giove si troverà nella costellazione del Toro, una posizione che rende il pianeta facilmente individuabile. Dall’Italia, sarà visibile dalle prime ore della sera fino all’alba, raggiungendo il punto più alto nel cielo meridionale intorno alle 23:53. Sarà sufficiente guardare verso est subito dopo il tramonto per ammirare Giove come un punto estremamente luminoso.

Grazie alla coincidenza con il perigeo, ovvero il punto della sua orbita più vicino alla Terra, Giove apparirà più brillante e con un disco più grande del solito. Non va dimenticato tuttavia che essendo Giove un pianeta esterno la dimensione apparente del disco non subisce particolari variazioni fra la posizione in opposizione e quella in congiunzione con il Sole. Le condizioni saranno quindi ideali per l’osservazione astronomica, sia ad occhio nudo che con l’ausilio di telescopi.

Posizione di Giove in opposizione il 07 dicembre 2024. Crediti https://theskylive.com/

Un invito all’osservazione e alla condivisione

Per osservare Giove al meglio, consigliamo di utilizzare un telescopio, che permetterà di apprezzare dettagli straordinari come le sue bande atmosferiche colorate e i quattro satelliti galileiani: Io, Europa, Ganimede e Callisto. Non meno spettacolare sarà il 14 dicembre, quando la Luna quasi piena sarà in congiunzione con Giove, creando un suggestivo duetto celeste nella costellazione del Toro.

La redazione di Coelum Astronomia, attraverso la sua rubrica mensile Il cielo del mese, dedica ampio spazio a questi eventi astronomici, con consigli pratici per l’osservazione e approfondimenti sulle caratteristiche dei pianeti. Vi invitiamo a consultare la nostra guida per non perdere nessun dettaglio di questo affascinante fenomeno.

Condividete le vostre immagini su PhotoCoelum

Se avete la passione per la fotografia astronomica, approfittate di queste notti per catturare lo spettacolo di Giove in opposizione. Caricate le vostre immagini su PhotoCoelum, la nostra piattaforma dedicata alla condivisione delle più belle foto astronomiche. Le migliori immagini saranno selezionate e pubblicate nelle nostre future edizioni, contribuendo a diffondere la meraviglia del cielo notturno.

Non dimenticate di condividere con noi le vostre impressioni e osservazioni: il cielo di dicembre ci offre opportunità straordinarie per apprezzare la bellezza e la vastità dell’universo.


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Infinity2 – Il Liceo di Montegiorgio Vola nello Spazio

Le possibili applicazioni dell’anidride carbonica nello spazio e l’alga spirulina futuro cibo degli astronauti.

Dopo Infinity I pubblicato in Coelum Astronomia n°262 arrivano nuove sonde nello spazio per il Liceo Scientifico di Montegiorgio (FM): il progetto “Infinity 2”.

a cura di Antolini Ettore, Braschi Matteo, Staderini Alessandro, Vitali Chiara.

Introduzione

Dopo “Infinity 1” nuove sonde spaziali realizzate presso il Liceo Scientifico “E.Medi” di Montegiorgio – IISS “ C.Urbani” (FM) – e lanciate nello spazio dall’Islanda.

Un progetto straordinario quello che è stato portato avanti dagli studenti e dalle studentesse del Liceo che, divisi in due team di lavoro, gruppo “base” e gruppo di “missione”, hanno ideato e realizzato i lanci delle sonde, cariche di esperimenti scientifici, nel nord Europa dal 3 al 12 aprile 2024 insieme ai loro docenti. Il Ministero dell’Istruzione e del Merito ha attenzionato fin da subito la rilevanza di questo Progetto presentandolo a Roma.
Infinity2” ha fatto seguito ad un primo esperimento condotto tra il 2022 ed il 2023, consistente nel lancio in Italia di una sonda con pallone aerostatico per studiare i gas serra e per fare riprese video concernenti la curvatura terrestre. Il credito acquisito da questa esperienza didattica, premiata dall’ASI a Milano durante il Contest 2023 “Verso lo spazio con Samantha” direttamente dall’astronauta Samanta Cristoforetti, ha incoraggiato i docenti del team di ricerca e sperimentazione didattica Antolini Ettore,Vallorani Andrea e Vitali Chiara nella prosecuzione dell’applicazione delle discipline STEM alla innovativa “didattica aerospaziale” . Questa volta i ragazzi dello Scientifico “E.Medi”, supportati anche dai docenti Braschi Matteo e Staderini Alessandro, hanno predisposto due nuovi esperimenti scientifici rispetto all’esperienza precedente (Infinity1): la sonda “Ísland”, che ha portato a bordo un esperimento per misurare l’incidenza dei raggi UVB e UVC su tratti genomici della spirulina, e la sonda “Helianthus”, che è stata equipaggiata con due speciali capsule contenenti CO2 per sperimentare la possibilità di trasformare l’anidride carbonica in ossigeno in seguito all’urto delle particelle, accelerate dall’energia d’impatto proveniente dai raggi cosmici. Anche il progetto “Infinity 2”, come il suo precursore “Infinity1”, è nato come attività didattica per alunni di scuola superiore: gli obiettivi pertanto sono stati calibrati in modo da favorire la buona riuscita sia dell’attività scientifico-sperimentale che dell’attività formativa e di crescita personale dei discenti, con l’ambizione di far vivere loro un sogno e l’emozione fantastica di vederlo realizzato tra le loro mani. “Infinity2” è stato condotto grazie al sostegno integrato più fondi diversi riservati alla scuola e qui di seguito elencati:
– Monitor ex 440 Transizione ecologica e digitale
– Pon Avviso 22550 del 12/04/2022 – FESR REAC EU – Laboratori green, sostenibili e innovativi per le scuole
– PNRR Piano Scuola 4.0 – Azione 1 – Next generation class – Ambienti di apprendimento innovativi
– PNRR Piano Scuola 4.0 – Azione 2 – Next generation labs – Laboratori per le professioni digitali del futuro
– PNRR Riduzione dei divari territoriali – Azioni di prevenzione e contrasto alla dispersione scolastica
– PNRR Formazione docenti Progetti nazionali per lo sviluppo di modelli innovativi di didattica digitale integrata
La capacità innovativa gestionale con il conseguente impiego creativo delle risorse è stata attenzionata dall’INDIRE (Istituto Nazionale di Documentazione Innovazione e Ricerca) e condivisa nella biblioteca nazionale.
Inoltre è risultata fondamentale la collaborazione di Giovanni Fuggetta e il sostegno della Leonardo s.p.a., attiva nei settori della difesa, dell’aerospazio e della sicurezza, e il patrocinio dell’ASI (Agenzia Spaziale Italiana).

I 36 ragazzi del Liceo Scientifico “Medi” di Montegiorgio hanno lavorato nei laboratori della scuola opportunamente attrezzati con l’acquisto di strumenti e materiali specifici per la preparazione delle sonde: dieci di loro hanno raggiunto l’Islanda per i lanci mentre gli altri hanno continuato a coordinare le attività dalla sede scolastica. “Infinity 2” è stata un’esperienza sperimentale altamente formativa, che ha collocato l’Istituto Scolastico all’avanguardia nel settore nuovissimo della didattica aerospaziale, addirittura: “prima scuola superiore al mondo” secondo le parole dell’astronauta Samantha Cristoforetti pronunciate durante la restituzione dei dati degli esperimenti in ASI durante la notte dei ricercatori il 27 settembre 2024.

Il documento pubblicato nella Biblioteca Nazionale INDIRE è disponibile https://biblioteca.indire.it/content/994/show

Infinity II il saluto di Samantha Cristoforetti 

Affrontiamo le questioni

Infinity2 è stata una missione che ha visto impegnati alcuni studenti e i loro docenti ed ha avuto come obiettivo il lancio di palloni aerostatici in Islanda. A ciascun pallone aerostatico è stata agganciata una sonda costruita dagli stessi studenti e dai loro insegnanti, ognuna con un diverso esperimento.
Uno dei lanci ha riguardato l’invio nella stratosfera di una sonda (denominata Ìsland) con agganciate due capsule contenenti alga spirulina (Arthrospira platensis). L’intento è stato quello di misurare, tramite analisi del DNA eseguita prima e dopo il lancio, l’incidenza dei raggi UVB, UVC e cosmici su tratti genomici della spirulina. Nella stessa esperienza, inoltre, si è confrontata anche la capacità di isolamento termico dell’acqua e della CO2.

Una delegazione di ragazzi del team Infinity2: Miconi Chiara, Finucci Sofia, Monini Matilde, Santucci Nicola, Romagnoli Alessio, Tiburzi Alessandro, Santoni Tommaso, Vittori Matteo, Espinosa Valentino, Nori Nicola.

Un altro lancio ha previsto invece di far salire fino alla stratosfera una sonda (denominata Helianthus) con agganciate due capsule in vetro contenenti CO2. L’esperimento mirava a verificare la possibilità di trasformare l’anidride carbonica in ossigeno molecolare a seguito dell’urto delle particelle della stessa CO2 accelerate dall’energia d’impatto proveniente dai raggi cosmici su un catalizzatore in oro.

Sonda Island

Il meccanismo d’azione ipotizzato consiste nel far sì che i raggi cosmici colpiscano la molecola di anidride carbonica. L’urto con conseguente trasferimento di energia dal raggio cosmico alla molecola di CO2 dovrebbe accelerare la molecola fino a farla urtare contro il catalizzatore in oro con un’energia tale da provocare la separazione del carbonio dall’ossigeno. Tale processo innescherebbe una reazione a catena che dovrebbe portare ad una trasformazione della CO2 in ossigeno molecolare.

Partendo dai risultati dell’esperimento degli scienziati Giapis e Yao del California Institute of Technology (Caltech) in cui sono riusciti a convertire l’anidride carbonica in ossigeno molecolare, si è pensato di utilizzare i raggi cosmici per accelerare la CO2. L’energia necessaria a far acquisire sufficiente energia cinetica da spezzare la molecola di anidride carbonica ed avere la ricombinazione molecolare dell’ossigeno a seguito dell’urto con la lamina d’oro è di almeno 80 eV. L’energia dei raggi cosmici è tra i 108 eV e 1020 eV quindi enormemente superiore.

Sonda Helianthus

Oltre ai dati in letteratura emersi, la nostra analisi statistica ha confermato la possibilità di intercettare raggi cosmici con un’energia sufficiente ad innescare la reazione di scissione con una probabilità prossima al 100% non appena al di sopra dei 15 Km di quota.

Da letteratura specializzata risulta che il numero di particelle di alta energia almeno 1 GeV che colpisce la superficie di 1 metro quadrato in un secondo è circa 1000 (tra i 15 ed i 40 km di altezza). Nel nostro caso la superficie interessata (lamina d’oro) era di circa 20 cm2.

La sonda è rimasta esposta ai raggi per circa 115 minuti (6900 s) e la probabilità considerando una distribuzione Poissoniana che venisse colpita da almeno un raggio era praticamente del 100%:

Ad essere colpite dai raggi cosmici sono state delle ampolle in vetro (sistemi di reazione) con all’interno una lamina in oro con la funzione di catalizzatore. Nelle ampolle, provviste di apposito rubinetto di carica/scarica, è stato dapprima fatto il vuoto parziale, e successivamente sono state caricate di anidride carbonica
I vettori di lancio utilizzati nei due esperimenti sono stati due sonde completamente progettate e realizzate nei laboratori della scuola. Le sonde sono state abbinate ciascuna ad un vettore di trazione, un pallone aerostatico P2000 con punto di esplosione tra i 39000 e i 41000 m.

Gonfiaggio e lancio sonda

ANALISI DEI DATI

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Scoprire le Onde Gravitazionali a Frequenze Nanohertz: il Ruolo di MeerKAT Pulsar Timing Array MPTA

Rappresentazione artistica delle onde gravitazionali e del cielo sopra una delle antenne del radiotelescopio sudafricano MeerKAT, gestito dall’Osservatorio SARAO. Crediti: Carl Knox, OzGrav, Swinburne University of Technology and South African Radio Astronomy Observatory (SARAO)

La ricerca sulle onde gravitazionali continua a rivelare nuovi orizzonti nell’astronomia moderna. Uno dei protagonisti di questa rivoluzione è il MeerKAT Pulsar Timing Array (MPTA), un progetto che sfrutta le straordinarie capacità del radiotelescopio MeerKAT per esplorare fenomeni cosmici a frequenze nanohertz. Questo approccio unico offre una finestra su eventi che si svolgono su scale temporali e spaziali vastissime, come la fusione di buchi neri supermassicci.

La sfida di osservare l’universo con i pulsar

I pulsar millisecondari sono al centro di questo straordinario esperimento. Questi oggetti, che emettono impulsi radio con regolarità estrema, funzionano come orologi cosmici incredibilmente precisi. Misurando con accuratezza i tempi di arrivo di questi impulsi sulla Terra, gli scienziati possono individuare lievi variazioni attribuibili alla distorsione dello spazio-tempo causata dalle onde gravitazionali.

Il MPTA ha registrato osservazioni di 83 pulsar in un periodo di 4,5 anni, accumulando un’enorme quantità di dati ad alta precisione. Con un errore mediano di soli 3,1 microsecondi, questi dati rappresentano uno dei dataset più completi e dettagliati mai raccolti in questo campo. Secondo il team, questa precisione consente di esplorare il fondo stocastico di onde gravitazionali, una sorta di “rumore cosmico” generato dall’incoerente sovrapposizione di onde gravitazionali provenienti da sorgenti come binarie di buchi neri supermassicci e fenomeni esotici dell’universo primordiale.

Prime evidenze di un fondo gravitazionale

Le osservazioni del MPTA hanno fornito indizi incoraggianti sulla presenza di un fondo gravitazionale a frequenze nanohertz. Questo segnale si manifesta come una correlazione temporale nei residui di tempo misurati tra i pulsar. Tali correlazioni, modellate attraverso la funzione Hellings-Downs, indicano che il segnale potrebbe effettivamente derivare da onde gravitazionali e non da processi casuali o da rumori strumentali.

Uno degli aspetti più affascinanti di questa ricerca è la rilevazione di un potenziale “hotspot” anisotropico nella mappa delle onde gravitazionali a 7 nHz. Sebbene sia necessario approfondire per confermare la natura astrofisica di questo segnale, questa scoperta potrebbe suggerire che alcune sorgenti di onde gravitazionali siano distribuite in modo non uniforme nel cielo.

Il video mostra una rappresentazione artistica di coppie di buchi neri supermassicci e del tessuto spazio-temporale distorto dal loro impatto. Crediti: Carl Knox, OzGrav, Swinburne University of Technology

Collaborazione e confronto globale

I risultati del MPTA si inseriscono in un contesto internazionale di ricerca, in cui altre collaborazioni, come il North American Nanohertz Observatory for Gravitational Waves (NANOGrav) e l’European Pulsar Timing Array (EPTA), hanno riportato evidenze simili. La loro significatività statistica varia tra 3 e 4𝜎, ma un consenso definitivo sulla scoperta di un fondo gravitazionale richiede ulteriori verifiche.

La precisione unica di MeerKAT permette però al MPTA di emergere come un contributore fondamentale. I dati mostrano un’ampiezza del segnale gravitazionale leggermente superiore rispetto a quella registrata da altre collaborazioni, un risultato che potrebbe derivare dalla maggiore sensibilità del radiotelescopio MeerKAT e dalla qualità del suo set di dati.

Una finestra su fenomeni straordinari

La ricerca del MPTA non si limita a confermare l’esistenza di onde gravitazionali, ma punta anche a caratterizzarne la distribuzione e l’origine. Se confermata, l’anisotropia del segnale potrebbe fornire indizi fondamentali sull’evoluzione dei buchi neri supermassicci e sulla loro distribuzione nell’universo. Allo stesso modo, un fondo gravitazionale isotropo potrebbe supportare teorie legate ai fenomeni dell’universo primordiale, come la formazione di stringhe cosmiche o le transizioni di fase.

Il futuro della ricerca con MeerKAT

Con un dataset che continua a crescere, il futuro della ricerca del MPTA appare promettente. Nuove osservazioni e aggiornamenti tecnologici miglioreranno ulteriormente la sensibilità, permettendo di distinguere con maggiore precisione i segnali astrofisici dai rumori di fondo. Questo lavoro non solo aiuterà a confermare l’esistenza del fondo gravitazionale, ma aprirà anche la strada a una nuova comprensione dei processi che hanno plasmato il nostro universo.

Mentre gli scienziati continuano a esplorare le onde gravitazionali con il MPTA, una cosa è certa: siamo testimoni di una nuova era dell’astronomia, in cui la comprensione dell’universo si espande ben oltre i limiti della luce visibile, raggiungendo le pieghe più sottili dello spazio-tempo stesso.

Le antenne che formano il radiotelescopio sudafricano MeerKAT. Crediti: Enrico Sacchetti / Inaf

Il MeerKAT Pulsar Timing Array è un esperimento internazionale che utilizza il sensibilissimo radiotelescopio MeerKAT (gestito dal South African Radio Astronomy Observatory) proprio per osservare, circa ogni due settimane, decine e decine di pulsar e misurare il tempo di arrivo degli impulsi radio con una precisione che può raggiungere le decine di nanosecondi. “Grazie a queste caratteristiche, MPTA costituisce il più potente rivelatore di onde gravitazionali di frequenza ultra bassa nell’intero emisfero australe”, sottolinea Federico Abbate, ricercatore dell’INAF di Cagliari e tra gli autori di tutti e tre gli articoli pubblicati oggi. 

A 18 mesi di distanza dalla prima serie di pubblicazioni da parte di altri tre esperimenti internazionali (tra cui l’European Pulsar Timing Array, EPTA, in cui sono è coinvolto INAF, l’Università di Milano Bicocca e il Gran Sasso Science Institute), i risultati pubblicati oggi offrono nuove prospettive per la comprensione dei buchi neri più massicci dell’Universo, sul loro ruolo nella formazione del cosmo e sull’architettura cosmica che hanno lasciato dietro di sé. 

Caterina Tiburzi, ricercatrice dell’INAF di Cagliari coinvolta nella collaborazione EPTA, spiega: “Comprendere e modellare il rumore di fondo che affligge il segnale delle pulsar, causato dagli effetti del gas ionizzato interposto tra le stelle, la Terra e il Sole, è l’elemento chiave per confermare definitivamente i risultati di MPTA, così come quelli di EPTA e degli altri esperimenti precedenti. I nuovi ricevitori a bassa frequenza di MeerKAT saranno strumenti straordinari per questo scopo”. 

“Oltre all’entusiasmo per i nuovi esiti osservativi – conclude infine Andrea Possenti, dell’INAF Cagliari, e membro della collaborazione MPTA fin dalla sua fondazione nel 2018 – questo è un momento cruciale, che dimostra come la collaborazione internazionale negli esperimenti di tipo Pulsar Timing Array, nei quali INAF è coinvolto da oltre 20 anni, spalancherà infine le porte dell’astronomia delle onde gravitazionali di frequenza ultra bassa”. Interviste a cura di Media INAF.

Fonti: Oxford Accademy

Il 2025 l’Anno dei Lunistizi Maggiori

Fig. 2 - Variazione della declinazione apparente della Luna nel biennio 2024-2025: periodo lunistiziale. Dati: JPL’s Horizons system NASA (DE441), coordinate topocentriche, intervallo un’ora. Monte Mario, Roma (Lat. 41°55′21″N; Long. 12°27′09″E).

La Luna è protagonista di diversi movimenti apparenti, alcuni dei quali danno vita a fenomeni affascinanti e spesso rari. Un esempio significativo sono i lunistizi, che si verificano con un ciclo di circa 18,6 anni e che possono essere osservati solo poche volte nel corso della vita di una persona.

Nel 2025 avremo l’opportunità di assistere ai lunistizi maggiori e sarà possibile ammirare la Luna sorgere e tramontare nei suoi punti di declinazione massima e minima.

Il prof. Salvatore Marinucci ci guida attraverso una spiegazione dettagliata del fenomeno, offrendo utili consigli per prepararsi al meglio e non perdere questi eventi straordinari.

I lunistizi maggiori sono fenomeni astronomici complessi che offrono preziose opportunità per comprendere l’influenza delle forze gravitazionali sulla Luna. Per le antiche civiltà questi eventi probabilmente rappresentavano momenti di connessione con il cielo e forse erano inclusi nei loro calendari rituali. Oggi, grazie agli strumenti moderni e ai progressi dell’astronomia, possiamo documentare questi inconsueti fenomeni. Il 2025 offrirà interessanti occasioni per appassionati e osservatori del cielo, che potranno catturare immagini e video indimenticabili del nostro affascinante satellite naturale.

Generalità sui lunistizi

I lunistizi sono fenomeni astronomici che si verificano ciclicamente. Durante il periodo dei lunistizi maggiori, la Luna sorge e tramonta progressivamente più a nord e più a sud fino a raggiungere posizioni limite ogni 18,6 anni circa. Quando la Luna sorge al suo estremo settentrionale descrive un ampio arco nel cielo, apparendo molto alta. Invece, quando sorge al suo estremo meridionale percorre un arco più breve, apparendo molto bassa all’osservatore: questo percorso della Luna è particolarmente evidente durante il plenilunio. Si hanno i lunistizi maggiori, in generale, quando la Luna raggiunge posizioni limite, ovvero i punti più estremi a settentrione e a meridione (Fig. 1).

Fig. 1 – Le posizioni assunte dalla Luna (L) al suo sorgere sull’orizzonte durante i lunistizi minori e maggiori
(periodo 18,6 anni circa). Confronto con le posizioni estreme raggiunte dal Sole (S) in un anno.
A ovest, la situazione risulta essere sostanzialmente simmetrica.

Nel corso del biennio 2024-2025 si può notare che la Luna sorge e tramonta alternativamente più a nord e più a sud del solito con un periodo di circa due settimane, raggiungendo declinazioni massime e minime quasi mensilmente (Fig.2). La Luna sorge e tramonta sull’orizzonte locale in posizioni più distanti rispetto a quelle raggiunte dal Sole, che si arresta ai solstizi d’estate e d’inverno.

Fig. 2 – Variazione della declinazione apparente della Luna nel biennio 2024-2025: periodo lunistiziale.
Dati: JPL’s Horizons system NASA (DE441), coordinate topocentriche, intervallo un’ora. Monte Mario, Roma (Lat. 41°55′21″N; Long. 12°27′09″E).

Le antiche popolazioni, che osservavano la Luna per scopi pratici e rituali, potrebbero aver preso in considerazione questi fenomeni, anche se accadono poco frequentemente nel corso della vita di un individuo. Diversi studi suggeriscono che numerosi siti archeologici siano allineati ai lunistizi. Sebbene non ci siano prove definitive sulla consapevolezza degli osservatori dell’epoca, è plausibile che questi eventi suggestivi abbiano avuto un qualche ruolo nelle antiche culture.


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Coelum Astronomia: Un Natale di Solidarietà e Formazione 

 

Quest’anno, Coelum Astronomia sceglie di celebrare il Natale con un gesto concreto di solidarietà e supporto alla formazione scolastica. Dal 1° dicembre 2024 al 6 gennaio 2025, per ogni abbonamento sottoscritto o rinnovato, Coelum attiverà due abbonamenti gratuiti a favore di istituti scolastici di secondo grado.

Perché lo facciamo?

Crediamo che la divulgazione scientifica debba raggiungere anche i più giovani e che le scuole siano il terreno fertile per seminare curiosità, passione e conoscenza. Con questa iniziativa, vogliamo contribuire a portare più scienza nelle aule, arricchendo il percorso educativo degli studenti.


Come funziona l’iniziativa?

1️⃣ Ogni abbonamento, due omaggi scolastici
Per ogni abbonamento sottoscritto o rinnovato durante il periodo natalizio, due istituti scolastici di secondo grado riceveranno un abbonamento gratuito a Coelum Astronomia, valido per un anno.

2️⃣ Una lettera speciale nel primo numero
Gli istituti selezionati riceveranno il primo numero dell’abbonamento accompagnato da una lettera che presenterà l’iniziativa e il valore educativo della rivista.

3️⃣ Il tuo contributo conta!
Gli abbonati potranno segnalare le scuole che desiderano includere nell’iniziativa. Inoltre, sarà possibile scegliere se essere citati nella lettera inviata all’istituto oppure mantenere l’anonimato. Se non ci sono segnalazioni, Coelum sceglierà le scuole beneficiarie in base a criteri di necessità e interesse.


Un impegno a lungo termine per le scuole

Questa iniziativa si inserisce in un programma più ampio che Coelum dedicherà agli istituti scolastici per tutto il 2025. Con la nostra rubrica didattica già esistente e nuovi servizi in arrivo, puntiamo a supportare sempre di più gli insegnanti di materie scientifiche (STEM) e a promuovere l’astronomia e l’aerospazio come strumenti per ispirare gli studenti.


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La Luna del Mese – Anno 2024

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Coelum Astronomia 271 VI/2024 Digitale

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La Galassia Sombrero brilla in una nuova immagine del telescopio JWST

L'immagine mostra una galassia su uno sfondo nero dello spazio. La galassia appare come un disco molto oblongo di colore blu, inclinato da sinistra a destra (circa dalle ore 10 alle ore 5). Al centro spicca un piccolo nucleo luminoso. Un disco interno più definito presenta una dispersione di stelle punteggiate, mentre il disco esterno, di tonalità bianco-azzurro, ha una struttura irregolare e simile a nuvole. Sullo sfondo nero dello spazio si notano puntini colorati, rappresentanti galassie lontane, disseminati intorno alla galassia principale. Credit: NASA, ESA, CSA, STScI

Il telescopio spaziale James Webb JWST ci regala un nuovo spettacolare sguardo alla Galassia Sombrero, una delle strutture cosmiche più affascinanti del nostro universo. Grazie alla sua straordinaria capacità di osservare l’infrarosso, Webb ha catturato dettagli mai visti prima, offrendo agli astronomi informazioni preziose sulla composizione, la storia e i segreti di questa galassia. Scopriamo insieme le ultime rivelazioni di questa icona cosmica, immersa tra polveri stellari e luce antica.

L’immagine mostra una galassia su uno sfondo nero dello spazio. La galassia appare come un disco molto oblongo di colore blu, inclinato da sinistra a destra (circa dalle ore 10 alle ore 5). Al centro spicca un piccolo nucleo luminoso. Un disco interno più definito presenta una dispersione di stelle punteggiate, mentre il disco esterno, di tonalità bianco-azzurro, ha una struttura irregolare e simile a nuvole. Sullo sfondo nero dello spazio si notano puntini colorati, rappresentanti galassie lontane, disseminati intorno alla galassia principale. Credit: NASA, ESA, CSA, STScI

Il telescopio spaziale James Webb della NASA/ESA/CSA continua a stupire il mondo scientifico e il pubblico con le sue straordinarie immagini del cosmo. Stavolta, il protagonista è la Galassia Sombrero (M104), che si presenta in tutta la sua maestosità in una nuova immagine catturata dall’osservatorio spaziale.

La Galassia Sombrero, nota per la sua iconica forma a cappello con un nucleo brillante circondato da un disco scuro di polvere, si trova a circa 31 milioni di anni luce dalla Terra nella costellazione della Vergine. Grazie alle capacità all’infrarosso di Webb, i dettagli precedentemente nascosti di questa galassia sono ora visibili con una chiarezza senza precedenti.

I ricercatori affermano che la natura grumosa della polvere, dove MIRI rileva molecole contenenti carbonio chiamate idrocarburi aromatici policiclici, può indicare la presenza di giovani regioni di formazione stellare. Tuttavia, a differenza di alcune galassie studiate con Webb, tra cui Messier 82 , dove nascono 10 volte più stelle rispetto alla Via Lattea, la galassia Sombrero non è un focolaio particolare di formazione stellare. Gli anelli della galassia Sombrero producono meno di una massa solare di stelle all’anno, rispetto alle circa due masse solari all’anno della Via Lattea.

Il buco nero supermassiccio al centro della galassia Sombrero, noto anche come nucleo galattico attivo (AGN), è piuttosto docile, persino con una massa di ben 9 miliardi di masse solari. È classificato come un AGN a bassa luminosità, che fa lentamente uno spuntino con il materiale in caduta dalla galassia, mentre emette un getto luminoso, relativamente piccolo.

Sempre all’interno della galassia Sombrero risiedono circa 2000 ammassi globulari, una raccolta di centinaia di migliaia di vecchie stelle tenute insieme dalla gravità. Questo tipo di sistema funge da pseudo laboratorio per gli astronomi per studiare le stelle: migliaia di stelle all’interno di un sistema con la stessa età, ma masse e altre proprietà variabili rappresentano un’intrigante opportunità per studi comparativi.

Un’immagine a due pannelli.
Vista Webb (in alto): La galassia appare come un disco molto oblongo, blu, che si estende diagonalmente (dalle 10 alle 5). Il nucleo è piccolo e brillante al centro, circondato da un disco interno chiaro punteggiato di stelle. Il disco esterno, bianco-azzurro, ha una struttura irregolare, simile a nuvole.
Vista Hubble (in basso): La galassia si presenta come un disco oblongo di colore bianco pallido, con un nucleo brillante che domina il disco interno. Il disco esterno è più scuro e presenta una struttura irregolare. Credit:
NASA, ESA, CSA, STScI, Hubble Heritage Team (STScI/AURA)

L’immagine rivela un disco interno luminoso, punteggiato di stelle, che sembra emergere dal nucleo brillante. Intorno, un disco esterno bianco-azzurro mostra strutture irregolari, simili a nuvole, che sembrano catturare la luce delle stelle in formazione. Sullo sfondo, lo spazio nero è punteggiato di galassie lontane che testimoniano l’immensità del cosmo.

Questa osservazione offre agli scienziati un’opportunità unica per studiare la struttura e la composizione della Galassia Sombrero. I dati raccolti da Webb potranno aiutare a rispondere a domande fondamentali sulla formazione e l’evoluzione delle galassie a spirale con bulbi prominenti.

Il telescopio JWST, lanciato nel 2021, continua a dimostrare la sua capacità di spingersi oltre i limiti dell’esplorazione cosmica, aprendo nuove finestre sul nostro universo. Con questa immagine, Webb non solo ci mostra un capolavoro galattico, ma stimola anche l’immaginazione e il desiderio di comprendere meglio l’universo che ci circonda.

Fonte: https://esawebb.org/news/weic2427/

La Nebulosa Chitarra: quando una stella rock lascia la sua scia nel cosmo

Raggi X: NASA/CXC/Stanford Univ./M. de Vries et al.; Ottico: (Hubble) NASA/ESA/STScI e (Palomar) Hale Telescope/Palomar/CalTech; Elaborazione delle immagini: NASA/CXC/SAO/L. Frattare

Gli astronomi hanno recentemente osservato un oggetto cosmico straordinario, soprannominato Nebulosa Chitarra, utilizzando i telescopi spaziali Chandra e Hubble della NASA. Questa struttura, associata alla pulsar PSR B2224+65, deve il suo nome alla somiglianza con una chitarra, visibile nella luce dell’idrogeno incandescente. La forma caratteristica deriva da bolle create dalle particelle espulse dalla pulsar PSR B2224+65 attraverso un vento costante.

Al vertice della “chitarra” si trova la pulsar, una stella di neutroni in rapida rotazione, residuo del collasso di una stella massiccia. Mentre si muove nello spazio, la pulsar emette un filamento di particelle e luce X, catturato da Chandra, che si estende per circa due anni luce. Questo filamento ha mostrato variazioni nel corso di due decenni, come evidenziato dalle osservazioni di Chandra nel 2000, 2006, 2012 e 2021.

La combinazione di rotazione rapida e campi magnetici intensi nella pulsar porta all’accelerazione delle particelle e alla produzione di radiazioni ad alta energia, generando coppie di elettroni e positroni. Queste particelle, spiraleggiando lungo le linee del campo magnetico, emettono raggi X rilevati da Chandra. Quando la pulsar e la sua nebulosa circostante attraversano regioni di gas più denso, le particelle più energetiche riescono a sfuggire, formando il filamento osservato.

Raggi X: NASA/CXC/Stanford Univ./M. de Vries et al.; Ottico: (Hubble) NASA/ESA/STScI e (Palomar) Hale Telescope/Palomar/CalTech; Elaborazione delle immagini: NASA/CXC/SAO/L. Frattare

Le osservazioni suggeriscono che le variazioni nella densità del mezzo interstellare influenzano sia la formazione delle bolle nella nebulosa a idrogeno sia le fluttuazioni nel filamento di raggi X, simile a una fiamma che si accende e si spegne. Questo fenomeno offre agli astronomi l’opportunità di studiare come elettroni e positroni si muovono attraverso il mezzo interstellare e come questi processi contribuiscono all’iniezione di particelle nel cosmo.

Il programma Chandra è gestito dal Marshall Space Flight Center della NASA, mentre lo Smithsonian Astrophysical Observatory controlla le operazioni scientifiche e di volo.

Fonti: NASA

La prima immagine dettagliata di una stella morente fuori dalla Via Lattea: WOH G64

La stella WOH G64, catturata dallo strumento GRAVITY sul Very Large Telescope Interferometer (VLTI) dell’Osservatorio Europeo Australe (ESO). Si tratta della prima immagine ravvicinata di una stella al di fuori della nostra galassia, la Via Lattea. La stella si trova nella Grande Nube di Magellano, a oltre 160.000 anni luce di distanza. Al centro dell’immagine si nota un bozzolo luminoso di polvere che avvolge la stella. Un anello ellittico più debole intorno ad esso potrebbe rappresentare il bordo interno di un toro di polvere, ma saranno necessarie ulteriori osservazioni per confermare questa ipotesi. Credit: ESO/K. Ohnaka et al.

Un passo significativo nell’astronomia è stato compiuto con l’acquisizione della prima immagine ravvicinata di una stella morente in una galassia oltre la Via Lattea.

Grazie alla precisione del Very Large Telescope Interferometer (VLTI) dell’ESO, gli astronomi hanno immortalato WOH G64, una supergigante rossa situata nella Grande Nube di Magellano, a 160.000 anni luce da noi. Questo traguardo, guidato dall’astrofisico Keiichi Ohnaka dell’Universidad Andrés Bello, rappresenta un punto di svolta per lo studio delle stelle extragalattiche, finora estremamente difficili da osservare.

La stella WOH G64, catturata dallo strumento GRAVITY sul Very Large Telescope Interferometer (VLTI) dell’Osservatorio Europeo Australe (ESO). Si tratta della prima immagine ravvicinata di una stella al di fuori della nostra galassia, la Via Lattea. La stella si trova nella Grande Nube di Magellano, a oltre 160.000 anni luce di distanza. Al centro dell’immagine si nota un bozzolo luminoso di polvere che avvolge la stella. Un anello ellittico più debole intorno ad esso potrebbe rappresentare il bordo interno di un toro di polvere, ma saranno necessarie ulteriori osservazioni per confermare questa ipotesi. Credit:
ESO/K. Ohnaka et al.

Una stella gigante in trasformazione
Con una massa circa 2000 volte superiore a quella del Sole, WOH G64 è nota per essere una delle stelle più grandi della sua categoria. L’immagine, ottenuta con lo strumento di seconda generazione GRAVITY, mostra un bozzolo di polvere e gas che circonda la stella in una forma inaspettata e allungata, simile a un uovo. Secondo Ohnaka, questo bozzolo potrebbe essere il risultato della massiccia espulsione di materiale prima dell’inevitabile esplosione in supernova.

Le osservazioni hanno rivelato che la stella si è notevolmente affievolita nell’ultimo decennio, un segno di cambiamenti significativi nelle sue fasi finali. Gli scienziati ritengono che il bozzolo e il suo oscuramento possano essere influenzati da materiali espulsi o dalla presenza di una stella compagna, ancora ipotetica.

Un’opportunità unica di studio in tempo reale
Osservare l’evoluzione di una stella di questa portata è una rara opportunità per gli astronomi. Secondo Gerd Weigelt del Max Planck Institute for Radio Astronomy, questi cambiamenti offrono la possibilità di studiare in diretta gli ultimi istanti di vita di una supergigante rossa. Jacco van Loon, direttore dell’Osservatorio Keele, ha sottolineato l’importanza di WOH G64 come caso estremo di perdita di massa e oscuramento, un fenomeno che potrebbe precedere una catastrofica esplosione.

WOH G64, situata nella Grande Nube di Magellano a oltre 160.000 anni luce di distanza, è una stella morente con una dimensione circa 2000 volte quella del Sole. Questa immagine rappresenta la prima foto ravvicinata di una stella al di fuori della nostra galassia, resa possibile dal Very Large Telescope Interferometer (VLTI) dell’ESO, in Cile.
La foto, ottenuta con lo strumento GRAVITY del VLTI, mostra la stella avvolta in un grande bozzolo di polvere a forma di uovo. Accanto all’immagine reale, un’illustrazione artistica ricostruisce la geometria delle strutture attorno alla stella, tra cui l’involucro luminoso e un torus polveroso più debole. La conferma della presenza e della forma di questo torus richiederà ulteriori osservazioni. Credit:
ESO/K. Ohnaka et al., L. Calçada

Strumentazione e futuro delle osservazioni
Le difficoltà di osservazione aumentano man mano che la stella si affievolisce. Tuttavia, futuri aggiornamenti come GRAVITY+ promettono di migliorare la capacità del VLTI, consentendo ulteriori studi di follow-up. Le nuove osservazioni aiuteranno a comprendere meglio i meccanismi delle fasi finali delle stelle giganti e a verificare modelli teorici.

Questo progresso segna una pietra miliare nell’osservazione delle stelle extragalattiche e prepara il terreno per scoperte future, aumentando la comprensione della vita e della morte stellare su scala cosmica.

Fonti: ESO

DESI d’altro canto è a favore del modello standard

The sparkling band of the Milky Way Galaxy backdrops the Nicholas U. Mayall 4-meter Telescope, located at Kitt Peak National Observatory (KPNO) near Tucson, Arizona.

Dopo le osservazioni del telescopio spaziale James Webb (JWST) pubblicate qualche giorno fa in grado di sollevare dubbi fondamentali sul modello standard Lambda-Cdm a favore della sempre più nota gravità modificata Mond (Modified Newtonian Dynamics), il progetto DESI del NOIRLab interviene per ristabilire gli equilibri.

 

I ricercatori hanno utilizzato il Dark Energy Spectroscopic Instrument (DESI) per mappare quasi sei milioni di galassie in 11 miliardi di anni di storia cosmica, consentendo loro di studiare come le galassie si sono raggruppate nel tempo e di indagare la crescita della struttura cosmica. Questa complessa analisi dei dati del primo anno del DESI fornisce uno dei test più rigorosi finora della teoria generale della relatività di Einstein.

La gravità ha modellato il nostro cosmo. La sua forza attrattiva ha trasformato le piccole variazioni nella distribuzione della materia nell’Universo primordiale nei filamenti tentacolari di galassie che osserviamo oggi. Un nuovo studio, basato sul primo anno di dati raccolti dal Dark Energy Spectroscopic Instrument (DESI), ha tracciato la crescita di questa struttura cosmica negli ultimi 11 miliardi di anni, fornendo il test più preciso mai realizzato sul comportamento della gravità su scala cosmica.

Il Dark Energy Spectroscopic Instrument (DESI) in azione sotto il cielo notturno sul telescopio Nicholas U. Mayall 4-meter Telescope at Kitt Peak National Observatory in Arizona.
Credit: KPNO/NOIRLab/NSF/AURA/T. Slovinský

DESI, un avanzato strumento scientifico, è in grado di catturare la luce di 5000 galassie simultaneamente. Progettato e gestito grazie ai finanziamenti del DOE Office of Science, DESI è installato sul telescopio Nicholas U. Mayall da 4 metri presso il Kitt Peak National Observatory, parte del programma NSF NOIRLab. L’indagine del cielo, giunta al quarto anno dei cinque previsti, si propone di osservare circa 40 milioni di galassie e quasar entro la fine del progetto.

Il progetto DESI coinvolge una collaborazione internazionale di oltre 900 ricercatori provenienti da più di 70 istituzioni in tutto il mondo, sotto la guida del Lawrence Berkeley National Laboratory (Berkeley Lab) del Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti.

Nel nuovo studio, i ricercatori DESI hanno confermato che la gravità si comporta come previsto dalla teoria generale della relatività di Einstein. Questo risultato consolida il modello attuale dell’Universo e restringe il campo delle possibili teorie di gravità modificata, proposte per spiegare fenomeni come l’espansione accelerata dell’Universo, solitamente attribuita all’energia oscura.

La collaborazione ha pubblicato i risultati in diversi articoli disponibili oggi su arXiv, basandosi sull’analisi di quasi sei milioni di galassie e quasar. Grazie a questi dati, i ricercatori sono riusciti a risalire fino a 11 miliardi di anni nel passato, realizzando la misurazione più precisa mai ottenuta sulla crescita della struttura cosmica, superando gli sforzi precedenti che hanno richiesto decenni.

Risultati significativi 

I dati odierni offrono un’analisi estesa del primo anno di osservazioni DESI, che ad aprile ha prodotto la più grande mappa 3D dell’Universo fino a oggi, suggerendo che l’energia oscura potrebbe evolversi nel tempo. Mentre i risultati di aprile si concentravano su un aspetto specifico del raggruppamento galattico, noto come oscillazioni acustiche barioniche (BAO), questa nuova analisi si spinge oltre, studiando la distribuzione di galassie e materia su diverse scale spaziali. Inoltre, ha fornito vincoli più stringenti sulla massa dei neutrini, le uniche particelle fondamentali la cui massa non è ancora stata misurata con precisione.

L’accuratezza dei dati DESI ha permesso di ottenere i limiti più rigorosi mai registrati sui neutrini, complementari a quelli derivati da esperimenti di laboratorio. Questi risultati sono stati ottenuti grazie a mesi di verifiche incrociate e all’impiego di tecniche per mitigare pregiudizi inconsci, mantenendo i risultati nascosti agli scienziati fino alla fase finale.

Secondo Stephanie Juneau, astronoma del NSF NOIRLab e membro della collaborazione DESI:
“Questa ricerca fa parte di uno degli obiettivi principali dell’esperimento: comprendere le caratteristiche fondamentali del nostro Universo su larga scala, come la distribuzione della materia e il comportamento dell’energia oscura, oltre a studiare aspetti fondamentali delle particelle. Confrontando l’evoluzione della materia con le previsioni attuali, tra cui la relatività generale di Einstein, stiamo restringendo sempre più i modelli di gravità.”

La collaborazione sta attualmente analizzando i dati raccolti nei primi tre anni e prevede di pubblicare misurazioni aggiornate sull’energia oscura e sulla storia di espansione dell’Universo nel prossimo anno. I risultati odierni, coerenti con le precedenti analisi, rafforzano l’ipotesi di un’energia oscura in evoluzione, aumentando le aspettative per le prossime scoperte.

Uno sguardo verso il futuro

Mark Maus, dottorando presso il Berkeley Lab e l’UC Berkeley, ha sottolineato:
“La materia oscura costituisce circa un quarto dell’Universo e l’energia oscura un altro 70%, ma non sappiamo ancora cosa siano realmente. Poter osservare l’Universo e affrontare queste domande fondamentali è straordinario.”

Sebbene i dati DESI del primo anno non siano ancora accessibili al pubblico, i ricercatori possono già consultarli in anteprima. Questi dati sono disponibili sotto forma di file tramite la collaborazione DESI e come database ricercabili di cataloghi e spettri tramite l’Astro Data Lab e SPARCL del Community Science and Data Center, un programma del NSF NOIRLab.

Se hai bisogno di ulteriori miglioramenti o adattamenti, fammi sapere!

Fonti: https://noirlab.edu/public/news/noirlab2428/

Terzo Congresso della Space Weather Italian Community (SWICo)

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27, 28 e 29 NOVEMBRE P.V.
AGENZIA SPAZIALE ITALIANA
VIA DEL POLITECNICO, ROMA

(Roma) L’ASI – Agenzia Spaziale Italiana ospita, dal 27 al 29 novembre p.v., SWICo2024, terzo congresso della Space Weather Italian Community. Tre giorni di interventi e dibattiti: occasione per mettere a confronto e rendere disponibili le competenze del Gruppo Nazionale “Space Weather Italian Community” (SWICo) che sono presenti in varie università, in Enti di Ricerca (INAF, INGV, INFN, CNR), in diverse realtà industriali e presso l’Agenzia Spaziale Italiana.


Con il progressivo sviluppo di sistemi tecnologici sempre più avanzati, le più significative manifestazioni dell’attività solare (emissioni di massa coronale, brillamenti,…) avranno un crescente impatto sulla nostra quotidianità – spiega il Prof. Umberto Villante, Presidente SWICo – Dipartimento Scienze Fisiche e Chimiche, Università degli Studi di L’Aquila – determinando ulteriori problemi per i satelliti, per le
comunicazioni, per il controllo del traffico aereo, blackout nella distribuzione di energia elettrica, etc., con conseguenze economiche assai rilevanti. E’ quindi indispensabile sviluppare le attività e gli studi in questo campo di ricerca che va, appunto, sotto il nome di Space Weather”.
Focus dei lavori di SWICo2024 e degli interventi in programma, gli studi sulle tempeste spaziali di elevata intensità che hanno il potenziale di minacciare le attività spaziali e i voli aerei lungo le rotte polari e che possono, inoltre, disturbare le comunicazioni radio, deteriorare la localizzazione GNSS ed essere la causa di blackout. Ne segue che, oggigiorno, lo studio e l’osservazione dello Space Weather rappresentano un aspetto chiave per le attività spaziali e per le possibili ricadute sulla società. Per questo motivo le grandi organizzazioni scientifiche internazionali, come ad esempio il COSPAR (Committee on Space Research) e la WMO (World Meteorological Organisation), e le agenzie spaziali come NASA (USA), ESA (EU), CNSA (PRC), JAXA (JP), DLR (D), e quella italiana (ASI) contribuiscono attivamente a programmi internazionali di Space Situational Awareness/Space Weather. Il Gruppo Nazionale “Space Weather Italian Community” (SWICo), costituito il 31 ottobre 2014, vede la partecipazione di personale delle Università, degli Enti di Ricerca e del settore privato con competenze scientifico-tecnologica nei settori di interesse del Gruppo. I relativi hanno lo scopo di comprendere e prevedere lo stato del Sole, degli ambienti interplanetari e planetari, e le perturbazioni solari e non solari che li influenzano, nonché di prevedere e fornire previsioni utili relative agli impatti potenziali su sistemi biologici e tecnologici.


Come in occasione dei precedenti Congressi, anche il Terzo Congresso SWICo intende essere un momento di incontro e confronto dell’intera comunità italiana impegnata nelle discipline in questione. Il Congresso è pertanto aperto anche ai non appartenenti a SWICo. E’ inoltre particolarmente incoraggiata la partecipazione attiva di studenti, dottorandi e giovani ricercatori. L’appuntamento dell’ASI offre, inoltre, l’opportunità del conferimento del Premio “Franco Mariani”, istituito per onorare la memoria di una personalità scientifica di statura internazionale, promuovendo il coinvolgimento di giovani ricercatori nelle discipline inerenti lo Space Weather.


Per ulteriori info e per il programma completo: https://swico2024.it/

SKA Square Kilometer Array: la futura rivoluzione arriverà dalle onde radio

SKA-Mid - wide angle artistimpression.jpg Una rappresentazione artistica di SKA-Mid, in Sud Africa: le antenne esistenti del progetto MeerKAT (a destra nell’immagine, ripresa reale) saranno incorporate nella struttura completa di SKA-Mid. La parte a sinistra nell’immagine è una rappresentazione artistica (Credits SKAO)

La ricerca astronomica si prepara a una svolta epocale grazie all’introduzione di tecnologie sempre più avanzate che aprono nuov frontiere nella comprensione dell’Universo. Tra queste, il progetto Square Kilometer Array (SKA) si distingue come una delle iniziative più ambiziose del prossimo decennio, promettendo di rivoluzionare la radioastronomia con una sensibilità e una precisione senza precedenti. Distribuito tra Sudafrica e Australia, SKA permetterà di esplorare con dettaglio fenomeni cosmici complessi, dall’origine delle prime galassie fino alla possibile rilevazione di segnali di vita extraterrestre. Il testo che segue approfondisce la struttura, gli obiettivi scientifici e il significativo contributo italiano a questo straordinario progetto.

Indice dei contenuti

Introduzione

Il prossimo decennio sarà sicuramente un periodo di rivoluzioni nella comprensione dell’Universo, grazie ad una nuova generazione di strumenti osservativi che operano in diverse frequenze. Ha inaugurato il nuovo corso il James Webb Space Telescope, che in un anno di osservazioni ci ha mostrato per esempio come l’Universo primordiale non sia popolato da galassie irregolari come si ipotizzava, ma da più placide galassie a disco. O ancora ci sta permettendo di studiare con dettagli impressionanti le atmosfere dei pianeti extrasolari. Ci proponiamo di capire il mistero della materia e dell’energia oscura con il telescopio Euclid, una missione che vanta una numerosa partecipazione italiana. L’Extremely Large Telescope, che con i suoi 39m di specchio principale sarà il più grande telescopio ottico terrestre, entrerà presumibilmente in funzione entro il 2028, permettendoci per esempio di studiare in dettaglio la complessità chimica dei sistemi protoplanetari. E allargando l’orizzonte all’astrofisica multimessaggera, nei prossimi due anni si arriverà alla decisione definitiva sul design tecnico e sulla posizione geografica del nuovissimo interferometro di terza generazione per le onde gravitazionali, l’Einstein Telescope, che vede la forte candidatura dell’Italia con il sito sardo di SosEnattos.

E sul fronte della radio astronomia? Il futuro si chiama SKA, acronimo di Square Kilometer Array, un progetto ambizioso di una vasta schiera di antenne radio e antenne suddivisi tra due continenti, l’Africa e l’Australia. Un progetto che, una volta completato, presumibilmente entro il 2028-29, rivoluzionerà il nostro modo di osservare l’Universo, con la sua gamma senza precedenti di applicazioni scientifiche, dalla cosmologia all’astrobiologia alla scienza dei dati.

Cos’è SKA?

Dopo oltre 30 anni di ideazione, progettazione e test, il progetto Square Kilometer  Array (SKA) sta per diventare una realtà. SI tratta di una struttura radio interferometrica di ultima generazione che promette di rivoluzionare la nostra conoscenza dell’Universo e delle leggi fondamentali della fisica. In breve, il progetto SKA prevede la costruzione di un sistema interferometrico costituito da 197 grandi antenne paraboliche orientabili che opereranno a media frequenza (SKA-Mid, operante tra 350 MHz e 15.4 GHz) e da 131.072 antenne log periodiche a bassa frequenza (SKA-Low, operante nell’intervallo di frequenze 50-350 MHz).

Il nome SKA deriva dal progetto originale, che prevedeva che tutte le sue antenne e parabole avessero un’area effettiva combinata di circa un chilometro quadrato. Il piano è stato in seguito ridimensionato a causa dei costi, anche se rimane la speranza di completarlo nella sua configurazione originale in una seconda fase.

L’area di raccolta rappresenta una componente fondamentale per capire le capacità osservative di SKA: se infatti la linea di base dell’array ne determina il potere risolutivo, cioè la capacità di apprezzare il più piccolo dettaglio della sorgente cosmica osservata, l’area di raccolta ne determina invece la sensibilità, con la conseguente possibilità di rilevare oggetti più deboli. Ci aspettiamo infatti di produrre immagini con una sensibilità 10-100 volte superiore a quella delle attuali infrastrutture radio, e di rilevare oggetti molto più deboli e lontani di quanto possano essere visti dai telescopi esistenti.

La sede principale del progetto si trova presso l’Osservatorio Jodrell Bank nel Cheshire, nel Regno Unito, anche se fisicamente è posizionato nell’emisfero australe, così da osservare la Via Lattea nella sua interezza, e ugualmente accedere allo spazio intergalattico. Nell’emisfero boreale come è noto, il nucleo della nostra galassia sfiora a malapena l’orizzonte durante i mesi estivi.


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SNHUNT133: UN ENIGMATICO TRANSIENTE IN UN NUCLEO GALATTICO

Fig. 3 - Incremento di luminosità del transiente SNhunt133 rilevato dall'Osservatorio di Montarrenti in due distinte epoche

Un evento astronomico transiente è un fenomeno tipicamente violento, improvviso e molto energetico del cielo profondo, che compare e scompare in tempi relativamente brevi, non paragonabili alla scala temporale di milioni o miliardi di anni durante i quali i componenti del nostro Universo si sono evoluti. I transienti infatti, si sviluppano su tempi scala di giorni, mesi o anni, facilmente apprezzabili nel corso della vita umana. L’autore ci accompagna nello studio di un transiente specifico SNHUNT133.

di Simone Leonini

Cenni Storici e Concetti Base

Sin dall’antichità, la comparsa di “stelle nove” ha destato stupore e turbato il senso di immutabilità dei cieli, fondamento della visione aristotelica dell’Universo. L’illusione di un cielo immobile ed incorruttibile ha quindi resistito per secoli. Successivamente, quando si iniziò a mettere in discussione l’idea delle “stelle fisse” correlata al sistema geocentrico, si comprese che le “stelle visitatrici” non potevano appartenere alla sfera sublunare ma rappresentavano dei cambiamenti delle stelle incastonate nella sfera celeste, suscitando l’interesse degli astronomi che si impegnarono in rigorose osservazioni. Solo agli inizi del secolo scorso però, si comprese l’origine della straordinaria luminosità degli astri che apparivano improvvisamente in cielo per poi scomparire. Si intuì che non tutte le stelle che osserviamo nella volta celeste si trovano alla stessa distanza e che esistevano altre galassie oltre alla Via Lattea. Si distinsero quindi le supernovae dalle novae, fenomeni eruttivi meno energetici originati all’interno di un sistema stellare binario.Una nana bianca cattura materiale dalla compagna, principalmente idrogeno, generando un’esplosione dello stato superficiale della stella che non coinvolge la struttura del sistema, tanto che potranno ripetersi altri episodi deflagranti.

Se la ricerca e lo studio di questi eventi ha appassionato gli astronomi sin dai secoli scorsi, lo studio sistematico dei transienti ospitati nei nuclei galattici invece si è sviluppato solo negli ultimi vent’anni, forse anche a causa della loro bassa luminosità intrinseca rispetto al nucleo della galassia e delle difficoltà di scoperta.

I nuclei delle galassie possono mostrare principalmente tre diversi tipi di transienti: nuclei galattici attivi, supernovae o eventi di distruzione mareale.

I nuclei galattici attivi sono oggetti celesti che emettono una enorme quantità di energia non riconducibile ad ordinari processi stellari. Il motore che li alimenta infatti è un buco nero di massa compresa fra un milione e qualche miliardo di volte quella del Sole. In rotazione vorticosa nelle regioni centrali della galassia, ingurgitano enormi quantità di gas residuo di formazione stellare o rilasciato successivamente da stelle in evoluzione. Circondati dal cosiddetto disco di accrescimento in cui la materia in caduta spiraleggia verso il centro, si nascondono dentro una “ciambella” (più propriamente un “toro”) di polvere molecolare coplanare al disco di accrescimento.

Le supernovae sono invece eventi esplosivi stellari. Le supernovae “termonucleari” vengono generate dall’esplosione di un sistema binario stretto, di cui almeno una delle due componenti è una nana bianca. Le due stelle lentamente si attraggono fino a fondersi, oppure può avvenire un trasferimento di materia dalla stella compagna alla nana bianca. Se la massa risultante dalla fusione o dalla cattura di materia è superiore al limite di Chandrasekar (1.44 Masse Solari), la nana bianca non sarà più in grado di sorreggere il proprio peso e, dopo un rapido collasso, si innescherà una reazione termonucleare che disgregherà la stella in una violenta esplosione, espellendo materiale nel mezzo interstellare senza lasciare alcun resto compatto.


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Desidero ringraziare Irene Salmaso (Università degli Studi di Padova) per la lettura critica e gli utili suggerimenti.

Simone Leonini: Agente di viaggio, sposato e papà di Matilde, è astrofilo sin da bambino, quando si dedicava con passione all’osservazione planetaria e delle stelle variabili. Già direttore dell’Osservatorio Astronomico di Montarredi e presidente dell’Unione Astrofili Senesi, ha condotto per anni attività di divulgazione delle scienze astronomiche

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Panorama Mosaico: APP per foto panoramiche

Fig. 06

Dopo diverse ore di esperienza sul campo, l’autore dell’articolo Gabriele Iocco, ha ideato e realizzato l’app Panorama Mosaico per facilitare il lavoro degli appassionati di Astrofotografia Paesaggistica.

 

Benché esistano in commercio teste panoramiche che applicate su un treppiedi sono progettate proprio per  la realizzazione di foto panoramiche e che fanno egregiamente il loro lavoro, l’applicazione che ho voluto sviluppare è un’alternativa gratuita e anche molto comoda dato che oramai abbiamo il nostro smartphone sempre con noi.

Ho iniziato a fare foto panoramiche circa due anno fa e man mano che prendevo confidenza con la tecnica è sorto in me il desiderio di creare panoramiche anche notturne includendo le stelle. Di notte però le condizioni di scarsa luminosità contribuiscono ad aumentare la difficoltà, poiché non siamo in grado di vedere cosa sta inquadrando effettivamente la nostra macchina fotografica. L’idea quindi è stata creare un’app che aiuti ad orientare la macchina fotografica di volta in volta nella giusta direzione catturando i fotogrammi che andranno a comporre il nostro mosaico.

Una volta scaricata dal playstore e avviata, l’app ci mostra le info sul suo funzionamento, dopodiché entriamo nella schermata d’inizio dove dobbiamo inserire tre informazioni che riguardano: il tipo di sensore utilizzato dalla nostra macchina fotografica, la lunghezza focale dell’obbiettivo e la percentuale di sovrapposizione che dovranno avere le nostre immagini [fig.1].

Fig.01 Anteprima Schermata APP “Panorama Mosaico”

 

Cliccando su tasto “Calcola” l’app calcolerà il FOV (angolo di campo inquadrato dall’accoppiata sensore/lunghezza focale) sia orizzontale che verticale, ad esempio se il sensore è FullFrame e la lunghezza focale 135mm, il FOV orizzontale sarà di 15.28°. Interpretare un simile dato è abbastanza semplice, avere un FOV di 15.28° significa che ogni scatto che andremo a catturare comprenderà una porzione di paesaggio relativa ad un angolo di 15.28°. Proseguendo, se si è optato per una percentuale di sovrapposizione pari al 50% vuol dire che ogni nuova immagine acquisita dovrà avere il margine sinistro coincidente con il centro dell’immagine precedente [fig.2].

Fig. 02

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Panoramica Blockhaus Majella startrail
Numero scatti del mosaico: 27
Tempo esposizione per ogni scatto: 420 sec a 100 ISO f4.
Macchina fotografica Canon 6D non modificata
Filtro anti inquinamento luminoso: No
Obiettivo: Samyang 135 mm.
CREDITI: Gabriele Iocco
“Panoramica Blockhaus Majella stelle”
Numero scatti del mosaico: 12
Tempo esposizione per ogni scatto: 5 sec a 4000 ISO f4 per evitare di avere le stelle “allungate”.
Macchina fotografica: Canon 6D modificata fullspectrum
Filtro anti inquinamento luminoso: Optolong Lpro
Obiettivo: Samyang 135 mm.

 

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Gli astronomi amatoriali scoprono due pianeti intorno alla stella TIC 393818343

La scoperta di mondi oltre il nostro Sistema Solare è un nuovo e affascinate campo di ricerca i cui protagonisti sono sia astronomi che astrofili cacciatori di pianeti. Alcuni di loro hanno scovato di recente due pianeti attorno a una stella simile al Sole: si tratta di un team con diversi italiani, coordinati da Giuseppe Conzo. La stella madre, TIC 393818343 di classe G, si trova nella costellazione del Delfino a circa 307 anni luce di distanza dal Sole. Ha una magnitudine di 8,98 ed è circa il 9% più grande del Sole. Oggi, alla luce delle recenti scoperte effettuate dagli astrofili, possiamo dire che TIC 393818343 è il centro di un sistema multi-planetario.

A maggio del 2024 Giuseppe Conzo e Mara Moriconi hanno scoperto il primo esopianeta orbitante attorno a questa stella: TIC 393818343 b – un gigante gassoso, quattro volte più massiccio di Giove, classificato come un Gioviano caldo e confermato dal Team del SETI guidato da Lauen Sgro, con un periodo orbitale di circa 16 giorni. Il pianeta orbita attorno alla stella madre su un’orbita altamente eccentrica (eccentricità pari a 0,6). È vicino alla sua stella molto più di quanto la Terra lo sia al Sole.

Light Curve TIC 393818343 b

Il secondo pianeta è TIC 393818343 c, scoperto in un secondo momento grazie alla collaborazione tra Conzo, Moriconi e altri astronomi dilettanti che hanno lavorato insieme utilizzando tecniche come la fotometria dei transiti e osservazioni da terra.

Il pianeta, nel sistema, ha un periodo orbitale di solo 7,8 giorni e orbita due volte più vicino alla sua stella madre. La sua temperatura di equilibrio dovrebbe essere intorno a 1027 K. Sulla base dei dati ottenuti, gli astrofili hanno classificato TIC 393818343 c come un gigante gassoso super nettuniano, escludendo la possibilità che possa essere un mondo terrestre. Pianeti come TIC 393818343 c sono generalmente poco comuni attorno alle stelle di tipo solare.

Light curve di TIC 393818343 c

Giuseppe Conzo ci spiega:

 “Stavamo osservando il pianeta TIC 393818343 b appena scoperto, perché volevamo monitorare eventuali ritardi o anticipi sul periodo. E’ una prassi che si utilizza normalmente sui pianeti recentemente trovati. Ci siamo accorti da queste osservazioni di un ritardo di circa 1 ora sul periodo in letteratura, dunque ci eravamo prefissati ulteriori osservazioni. Caso ha voluto che sbagliassimo involontariamente data della successiva osservazione, accorgendoci solo al mattino seguente che avessimo ripreso in una data errata. Non volendo buttare i dati ottenuti, abbiamo fatto a cuor leggero la fotometria, convinti di attenderci una magnitudine costante della stella in esame. Così non è stato ed abbiamo rilevato un primo transito molto diverso da quello osservato per il pianeta b. Chiaramente sono proseguite le osservazioni che hanno mostrato lo stesso evento nel tempo.”

A questo studio e alla scoperta sono coinvolti oltre a Giuseppe Conzo e Mara Moriconi (del Gruppo Astrofili Palidoro a Fiumicino), Nello Ruocco (Osservatorio Nastro Verde a Sorrento), Toni Scarmato (Toni’s Scarmato Observatory a Briatico) e gli americani Kyle Lynch e Nicolas Leiner.

È stato un affascinante lavoro di gruppo:

*Giuseppe Conzo* ha individuato per primo un transito sospetto ed ha condotto il team per le osservazioni necessarie e coordinato la stesura dell’articolo scientifico;

*Mara Moriconi* ha effettuato calcoli analitici sui principali parametri fisici del pianeta;

*Nello Ruocco* ha effettuato le osservazioni;

*Toni Scarmato* ha effettuato le osservazioni, ha condotto stime per le effemeridi preliminari ed ha analiticamente verificato la bontà del segnale ricevuto;

*Kyle Lynch* ha studiato l’aspetto genuino della sorgente e valutato la natura planetaria dell’oggetto;

*Nicolas Leiner* ha condotto un’analisi analitico-statistica per la stima della massa del pianeta.

Riguardo alla scoperta abbiamo chiesto un parere scientifico al Prof. Giovanni Covone, astrofisico della Federico II di Napoli:

“si tratta di una scoperta interessante per diversi motivi. Innanzitutto, è uno dei pochi sistemi planetari multipli intorno a stelle molto simili al Sole. Inoltre, dimostra che i dati raccolti dal telescopio TESS sono ancora ricchi di sorprese e il ruolo degli astrofili in questo campo è fondamentale.”

Il JWST sfida il modello standard: nuove prospettive sull’universo primordiale

JADES-GS-z14-0 (mostrata nell'estrazione), è stata determinata a un redshift di 14,32 (+0,08/-0,20), il che la rende l'attuale detentrice del record per la galassia più distante conosciuta. Ciò corrisponde a un periodo inferiore a 300 milioni di anni dopo il big bang. Credito: NASA, ESA, CSA, STScI, B. Robertson (UC Santa Cruz), B. Johnson (CfA), S. Tacchella (Cambridge), P. Cargile (CfA).
JADES-GS-z14-0 (mostrata nell'estrazione), è stata determinata a un redshift di 14,32 (+0,08/-0,20), il che la rende l'attuale detentrice del record per la galassia più distante conosciuta. Ciò corrisponde a un periodo inferiore a 300 milioni di anni dopo il big bang. Credito: NASA, ESA, CSA, STScI, B. Robertson (UC Santa Cruz), B. Johnson (CfA), S. Tacchella (Cambridge), P. Cargile (CfA).

Le osservazioni del telescopio spaziale James Webb (JWST) stanno sollevando interrogativi fondamentali sulla comprensione dell’universo primordiale. I dati ottenuti non sembrano confermare il modello standard Lambda-Cdm, che prevede che la formazione delle galassie sia agevolata dalla presenza di materia oscura, ma trovano maggiore coerenza con la teoria alternativa della gravità modificata Mond (Modified Newtonian Dynamics), che elimina la necessità della materia oscura.

Galassie luminose e massicce nell’universo primordiale

Secondo il modello Lambda-Cdm, le galassie nell’universo primordiale si sarebbero dovute formare attraverso un processo graduale: piccoli aloni di materia oscura avrebbero attirato materia ordinaria, portando alla formazione di galassie di massa crescente. Il James Webb, tuttavia, ha rivelato galassie antiche che appaiono già grandi e luminose, contraddicendo le aspettative del modello standard.

Come spiega Federico Lelli, ricercatore dell’INAF di Arcetri e coautore dello studio pubblicato su The Astrophysical Journal, il modello Lambda-Cdm prevede che galassie massicce come quelle ellittiche si formino in epoche più tarde della storia cosmica. Tuttavia, osservazioni precedenti di telescopi come Hubble, Spitzer e Alma avevano già suggerito che le galassie massicce esistessero sorprendentemente presto. Ora, il JWST ha fornito prove ancora più solide in questa direzione.

Teoria Mond: una sfida alla materia oscura

La teoria Mond, proposta da Mordehai Milgrom oltre 40 anni fa, introduce modifiche alle leggi di Newton ed Einstein per spiegare i fenomeni gravitazionali senza ricorrere alla materia oscura. Secondo Mond, le galassie massive si formano rapidamente nei primi centinaia di milioni di anni dopo il Big Bang, come confermato dai dati di JWST. Questa teoria è stata inizialmente ignorata dalla comunità scientifica, ma le recenti scoperte stanno spingendo gli esperti a riconsiderarla.

Il primo autore dello studio, Stacy McGaugh della Case Western Reserve University, sottolinea che le predizioni del modello standard non corrispondono a ciò che il JWST ha effettivamente osservato. «Gli astronomi hanno ipotizzato la materia oscura per spiegare la formazione delle strutture cosmiche, ma ciò che vediamo ora è più coerente con Mond», afferma.

Nuove prospettive dall’universo primordiale

Le osservazioni del JWST hanno mostrato che le galassie massive non solo si formano velocemente, ma alcune diventano “passive” (cessano di formare stelle) molto prima di quanto previsto dal modello standard. Inoltre, il telescopio ha individuato ammassi di galassie a epoche cosmiche più antiche di quelle compatibili con Lambda-Cdm, una scoperta che potrebbe riscrivere la nostra comprensione del tempo cosmico.

Un telescopio per nuove domande

Il JWST è stato progettato per rispondere a domande fondamentali sull’universo, ma i suoi dati stanno aprendo scenari inaspettati. A soli tre anni dal suo lancio, il telescopio sta già contribuendo a rivedere teorie consolidate, come dimostra questo studio che coinvolge anche ricercatori italiani come Federico Lelli.

Molte delle osservazioni necessitano di ulteriori conferme, ma la promessa di JWST di ridefinire l’astrofisica sembra più viva che mai. Se i dati continueranno a supportare la teoria Mond, potremmo trovarci a un passo dal superare uno dei pilastri della cosmologia moderna: l’idea della materia oscura.

Fonti: Media Inaf  Global Science   Arvix.org

Gestione delle crisi e rischi da disastro ambientale

LA VIA DELLA COMPLESSITA’ PER GLI STRUMENTI DI GESTIONE DELLE CRISI E DEI RISCHI DI DISASTRO

a cura di Alfonso Mangione Dip. FIBIOTEC –Fisica e Biotecnologie applicate allo Spazio, alla Geologia e all’ Ambiente, Istituto Euro-Maditerraneo di Scienza e Tecnologia

ABSTRACT

I recenti disastri che hanno colpito la zona di Valencia hanno messo in luce la vulnerabilità del territorio e la complessità delle risposte necessarie per gestire le crisi. Senza voler entrare nello specifico delle cause di tali eventi, l’obiettivo di questo articolo è offrire una prospettiva sul giusto approccio alla gestione dei rischi e delle emergenze. La gestione efficace delle crisi non può infatti limitarsi a un approccio tradizionale, ma deve abbracciare la complessità intrinseca degli scenari, integrando discipline diverse e sfruttando strumenti innovativi come le tecnologie virtuali e immersive. Questo articolo esplora come tale approccio multidisciplinare possa fornire nuove opportunità per migliorare la consapevolezza, la preparazione e l’operatività di soccorritori e cittadini di fronte a eventi disastrosi.

INTRODUZIONE

Uno scenario di rischio o di crisi coinvolge una serie di attività che possono essere pensate come parti di sistema tipicamente complesso, in cui ogni elemento mostra connessioni, anche multiple e spesso non lineari, con gli altri. Senza addentrarsi nel dettaglio delle definizioni risulta intuitivo collegare ad una situazione di rischio alcune idee che accompagnano la nozione della complessità quali quella del sistema a molte componenti, fuori dall’equilibrio, adattivo, la non-linearità, il caos, l’auto-organizzazione, i comportamenti emergenti, e molti altri, inclusa la multidisciplinarità. Quest’ultima vede affiancare alla fisica discipline che vanno dalla psicologia all’antropologia, alla sociologia, alla storia ed oltre. Un segno dell’interesse crescente nei confronti degli aspetti psicologici, sociologici, e storici collegati alle crisi e ai disastri, in aggiunta e in connessione con le discipline tecniche è dato dall’attenzione specifica a loro dedicata nei programmi di finanziamento EU degli ultimi anni (un esempio indicativo in Ref [1] ).

Esaminare gli scenari di crisi sotto la luce della loro complessità, e quindi, innanzitutto, delle connessioni multiple tra un congruo numero di parti componenti (geografiche, gestionali, operative, culturali, economiche, etc.) potrebbe apparire un esercizio dispersivo, non esattamente a vantaggio della pronta operatività e in generale della promozione della resilienza di un territorio colpito. In prima analisi, infatti, risulta evidente la numerosità degli ambiti da tenere in considerazione, la loro vastità e articolazione, e la difficoltà di individuare le cause che conducono a determinati effetti risultanti, all’interno di un sistema (ovvero l’“ecosistema” a rischio) che si auto-organizza in molte componenti dialoganti.

Tuttavia, l’approfondimento di (almeno) una parte significativa delle componenti del sistema in crisi (il territorio, le comunicazioni, le relazioni trans-nazionali, la multiculturalità sociale, il rapporto con i media, la storia e l’evoluzione locale della percezione, etc.), permette di “pesare” il contributo di ognuna delle parti sul risultante scenario di rischio che si è presentato o che si potrebbe presentare. A questo scopo, appare chiaro il ruolo fondamentale dell’aspetto simulativo (numerico e virtuale/immersivo). Si aggiunga inoltre che l’approccio “per parti concorrenti” nell’analisi di uno scenario di rischio non deve necessariamente riguardare tutti gli ambiti dialoganti e le scale di analisi più ampie, ma può essere ridotto a territori circoscritti, a singoli tipi di rischio (incendio, terremoto, inondazione, crisi sanitaria o altro), può riguardare solo porzioni di popolazione (ad es. gruppi considerati “vulnerabili” per quel rischio in particolare), o soltanto alcune categorie di soccorritori, o un settore economico in particolare. Gli ambiti e la scala dell’analisi possono quindi essere ridotti ad esempio ad un singolo evento o territorio o gruppo di popolazione etc.. Operativamente, tale approccio può portare ad un contributo innovativo nell’analisi degli scenari da disastro che si presentano al singolo soccorritore che opera sul terreno, quando supportato dalle tecniche di realtà virtuale/immersiva. Molte ricerche e progetti, basati sulla realtà virtuale sono stati sviluppati in anni recenti per supportare i piani di intervento (coordinamento e attività operative sul terreno) [2,3]. Gli scenari possono essere costruiti aggiungendo gradualmente le diverse cause concorrenti, per consentire di testare direttamente l’influenza sull’operatività sul campo.

 

Complessità negli scenari da disastro

Il presentarsi di un evento di grande impatto generalmente modifica lo scenario reale nel quale i soccorritori sono chiamati ad operare, e nel quale le vittime devono muoversi, rispetto alla sua forma consueta. In generale, un gap sostanziale esiste tra ciò che la popolazione potrebbe comunemente attendere dal verificarsi dell’evento impattante e quello che ne risulta nel caso reale, a causa delle diverse variabili concorrenti. In termini estremamente semplici ed esemplificativi, è possibile considerare il caso di un evento off-shore quale un terremoto (o lo scorrimento della lava da un vulcano nel mare), che causa le conseguenti onde di maremoto. Sulla base delle esperienze comuni, si può immaginare la semplice situazione di una goccia d’acqua che, una volta lasciata cadere in un contenitore riempito di liquido, genera una serie di onde che si propagano fino ad infrangersi contro le pareti del contenitore. Similmente, se si agisce con una ferma spinta data sul fondo del contenitore, se non troppo rigido. Si potrebbe traslare tale idea di base sulla scala di un oceano, come situazione di partenza, per poi aggiungere gradualmente gli elementi (le parti) che concorrono successivamente alla costruzione dello scenario. In termini di simulazione dell’evoluzione, questo implica la descrizione fisica di alcune fasi salienti: l’evento “t0”, tipicamente un distacco che accade sul fondo del mare; le risultanti onde, che solitamente si propagano in un regime per il quale è almeno soddisfatta l’eguaglianza D:λ=1:20, dove D è la profondità delle acque, e λ è la lunghezza d’ onda, con una velocità v=(gD)1/2 (dove g è l’accelerazione di gravità), non dipendente da λ, che consente loro di procedere quasi inalterate (si consideri inoltre che le variazioni significative del fondo avvengono su scale molto maggiori rispetto alle lunghezze d’onda in questione, quando lontano dalla costa); infine, l’infrangimento sulla costa, dove ci si aspetta una riduzione della lunghezza d’onda e un aumento dell’ampiezza (i meccanismi sono descritti nei testi di base, e in alcuni studi, esperimenti e simulazioni specifici, ad es. Ref [4,5]). Lo schema di base restituisce quindi la possibilità di calcolare i tempi di arrivo, conoscendo la distanza dall’epicentro. Quello che accade nel caso reale può risultare non esattamente sovrapponibile alla sola descrizione di base sopra riportata, a causa di una serie di effetti locali (elementi concorrenti allo scenario) che influenzano l’effettiva propagazione dell’evento. Un livello ulteriore di dettaglio andrebbe oltre gli scopi del presente lavoro, tuttavia è possibile riassumere almeno alcuni degli elementi che possono influenzare la rappresentazione finale dello scenario, quali: (i) la velocità di rottura, il tempo di risalita e la modifica del fondo marino durante l’evento-origine, che forniscono il profilo iniziale delle onde [4,6-7]; (ii) la correzione per le maree [6]; (iii) gli eventuali effetti locali dovuti all’interazione con le coste, il terreno e le isole, così come gli effetti di amplificazione delle baie chiuse, gli effetti di diffrazione e riflessione [4,6-7]. Tali elementi concorrono ad aumentare il livello di complessità del fenomeno, così come delle simulazioni collegate e quindi la sua rappresentazione virtuale/immersiva (ad esempio quando implicano la necessità di utilizzare modelli di evoluzione non lineari o quando i termini descrittivi dell’amplificazione delle onde a partire dalla costa differiscono da funzioni polinomiali [6]) ma allo stesso tempo ne restituiscono una rappresentazione più adeguata.

Quindi, la “sfida” per una conoscenza accurata dei fenomeni e delle caratteristiche locali che contribuiscono ad accrescere il grado di complessità degli scenari, la loro catalogazione e la possibilità di inserirli gradualmente all’interno delle simulazioni e delle conseguenti riproduzioni virtuali, può rappresentare uno strumento considerevole sia nell’addestramento mirato dei soccorritori, che per i gestori delle crisi, oltre ad avere un ruolo nell’incrementare la consapevolezza del rischio da parte della popolazione.

NB: al momento della stesura e pubblicazione dell’articolo i recenti fatti di Valencia non erano ancora accaduti, perciò per accompagnare visivamente lo scenario di intervento la redazione e l’autore hanno optato per un’immagine di fantasia. Quella a seguire. Alla luce però dei nuovi fatti e riproponendo la lettura digitale dello studio del dott. Mangione una recente immagine tratta proprio dall’emergenza spagnola si presenta come più che opportuna. Vedi immagine a destra.

Generata con AI

Proposte metodologiche

La possibilità di incrementare la cognizione spaziale (intesa quale la capacità di avere contezza della posizione del proprio corpo all’interno di un ambiente, e di muoversi in questo senza perdersi) all’ interno di scenari complessi può contribuire in tutte le fasi collegate ad eventi impattanti. Una combinazione tra metodi utilizzati in ambiti differenti (quali la psicologia e le neuroscienze), le simulazioni numeriche (e la fisica in queste inclusa) e la realtà virtuale/immersiva può essere proposta quale schema per sviluppare strumenti utili allo scopo. In Ref [8] viene fatto uso di ambienti di realtà virtuale per indagare la qualità del trasferimento dell’apprendimento da un ambiente virtuale ad uno reale per indagare la cognizione spaziale, sulla base di tre fasi di conoscenza (Landmark, Route, e Survey), e secondo indicatori quali gli errori di percorso o le esitazioni.  Nel caso di uno scenario da disastro, questa attività, sia essa inglobata nelle sessioni di addestramento o anche quale strumento digitale autoconsistente, risulterebbe di supporto per i soccorritori, i gestori delle crisi e anche per le popolazioni. I soggetti coinvolti, in una prima fase, aumenterebbero la loro capacità di fissare nell’immediatezza un numero sufficiente di punti di riferimento caratteristici individuati nei diversi scenari ipotizzati. In una fase successiva, i soggetti sarebbero allenati ad acquisire le vie più brevi tra i punti di riferimento individuati, al fine di stimare distanze e scorciatoie. Le task sarebbero presentate con livelli di complessità crescente. A tale scopo, sarebbero simulati scenari di disastri differenti, gradualmente implementati, sulla base dei diversi elementi che possono influire sulla reale evoluzione del fenomeno. Oltre che per i soccorritori, l’attività risulterebbe utile alle vittime dei disastri (si pensi ad esempio ai casi di persone con disabilità). In questo caso, lo scopo finale sarebbe di muoversi con rapidità e in sicurezza al’ interno dello scenario proposto, e possibilmente allontanarsi da esso (a differenza del caso dei soccorritori, che necessitano invece di raggiungerlo). Inoltre, risulterebbe interessante introdurre la distinzione tra task presentate in un riferimento esocentrico ed egocentrico rispettivamente [8]. Nel caso dei disastri, il primo punto di vista si riferirebbe ai gestori della crisi, mentre il secondo sarebbe più appropriato per i soccorritori e le vittime.

Conclusioni

L’utilizzo degli scenari virtuali da disastro con crescente livello di complessità dovuto a variabili di contesto, è stato preso in considerazione al fine di migliorare la capacità di cognizione spaziale di gestori della crisi, soccorritori, e vittime. All’interno di un approccio multidisciplinare, è stato proposto uno schema che coinvolge specifiche task per aumentare l’individuazione dei punti di riferimento e dei percorsi più rapidi e più sicuri per muoversi all’interno di uno scenario da disastro, al fine di raggiungere le aree di crisi, o di abbandonarle.

Reference

[1] https://tinyurl.com/2p86725b

[2] Bernardini, G. et al., A Non-Immersive VirtualReality Serious Game Application for FloodSafety Training, SSRN Electronic Journal,2022. DOI:10.2139/ssrn.4110990, 2022

[3] Lovreglio, R., Proceedings, Fire andEvacuation Modeling Technical Conference(FEMTC) 2020. https://www.researchgate.net/publication/3438091011961, 2020

[4] Stevenson, D., Physics Today 58, 6, 10 (2005).doi: 10.1063/1.1996451, 2005

[5] Uy, A., The Physics of Tzunami, TheUniversity of British Columbia

[6] Mori, N., CEJ, 2012, 54:1,1250001-1-1250001-27, DOI:10.1142/S0578563412500015, 2012

[7] Shigihara, Y., CEJ, 2021, https://doi.org/10.1080/21664250.2021.1991730,2021

[8] Wallet, G., Journal of Virtual Realityand Broadcasting, Volume 6, no. 4urn:nbn:de:0009-6-17577, ISSN1860-2037, 2009

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L’articolo è pubblicato in COELUM 270 VERSIONE CARTACEA

Stelle Giganti Sparse nel Blu – RCW 7

ESA/Hubble & NASA, J. Tan (Chalmers University & University of Virginia), R. Fedriani (Institute for Astrophysics of Andalusia)

ABSTRACT

La regione di formazione stellare RCW 7 rappresenta un’affascinante finestra sul complesso processo di nascita delle stelle massicce. Situata nella costellazione della Poppa a circa 5.300 anni luce di distanza, RCW 7 è una vasta nebulosa in cui gas e polveri interstellari si aggregano e collassano, dando origine a giovani e potenti astri. La radiazione ultravioletta e i forti venti stellari emessi da queste stelle in formazione non solo illuminano, ma anche plasmano il materiale circostante, generando una regione HII dal caratteristico bagliore rosato. Lo studio di RCW 7, e in particolare del sistema binario IRAS 07299-1651, permette di comprendere meglio le dinamiche che regolano i primi stadi della vita stellare, offrendo nuove prospettive sui processi che plasmano le galassie e influenzano l’evoluzione delle nubi molecolari.


RCW 7 o NGC 2409 Regione di Formazione stellare


Luci stellari come brillantini sparsi in un cielo azzurro in cui si addensano a tratti nubi tempestose: è la turbolenta regione di formazione stellare RCW 7, soggetto di questa straordinaria ripresa del telescopio Hubble. RCW 7 è una vasta nebulosa ricca di gas e polveri interstellari. Ospita stelle in formazione particolarmente massicce, capaci di emettere forti radiazioni ultraviolette e impetuosi venti stellari, che illuminano e modellano il materiale circostante, trasformando questo insieme di nubi cosmiche in una variopinta regione HII.

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L’articolo è pubblicato in COELUM 270 VERSIONE CARTACEA

 

È nata una Stella di Neutroni

Introduzione

Come tutti sappiamo, la materia che ci circonda è formata da atomi, costituiti a loro volta da un nucleo centrale fatto da protoni e neutroni, e dagli elettroni che gli gravitano vorticosamente intorno.

Un po’ meno noto è forse il fatto che un atomo è quasi completamente vuoto; il nucleo, infatti, ha un diametro che è circa un centomillesimo di quello dell’atomo che lo ospita, mentre gli elettroni sono addirittura considerati puntiformi. Quasi completamente vuoto, quindi, allora perché non si può schiacciare un po’?

Normalmente, stando alle nostre esperienze quotidiane, un gas (che è fatto da atomi o da molecole libere tra loro) può essere compresso facilmente in un volume un po’ più piccolo aumentandone semplicemente la pressione, esattamente come quando gonfiamo una ruota di una bicicletta, con il risultato che gli atomi del gas si avvicinano un po’ tra di loro, di pari passo cresce anche la densità.

Un’operazione però che non si può eseguire ad oltranza; succederà infatti prima o poi che, come in un liquido o in un solido, gli atomi saranno vicini a tal punto che i loro orbitali atomici arriveranno a toccarsi, inutile continuare a “pressare”, non si andrà oltre. O quasi.

Al centro del nucleo terrestre che è composto quasi esclusivamente di ferro e dove vigono pressioni elevatissime che arrivano a 360 GPa (circa 3,5 milioni di atmosfere), la densità sale a circa 13 g/cm3 contro il classico 7,8 g/cm3 in condizioni normali; ancora più estremo è il centro del nostro Sole, dove, grazie ad una pressione di oltre 230 miliardi di atmosfere, la densità tocca picchi di circa 150 g/cm3, ovvero circa 20 volte la densità dell’acciaio.

Nane Bianche

Ma questo è solo l’inizio.

Una volta che il nostro Sole avrà terminato il suo combustibile nucleare, la materia che lo compone, non più sorretta dall’energia prodotta dalle reazioni nucleari, collasserà su se stessa, aumentando sempre di più la sua densità.

In condizioni normali la pressione di un gas ideale è proporzionale alla sua temperatura e alla sua densità; superando però una densità di 105 g/cm3, le distanze interatomiche sono tali che le nubi elettroniche dei vari atomi sono portate a compenetrarsi a vicenda e, viste le temperature in gioco (circa cento milioni di gradi Kelvin) sono completamente ionizzati, formando così un gas di nuclei ed elettroni; raggiunto il milione di gr/cm3 (1.000 kg/cm3), la pressione del gas è a un livello tale che essa risulta indipendente dalla temperatura e non segue più le leggi classiche, bensì viene regolato in base alla fisica della materia condensata, in cui il maggior contributo alla pressione è dato dal principio di esclusione di Pauli (vedi Coelum Astronomia n°258 pag.92).

Questa sostanza che abbiamo ottenuto, un gas di Fermi relativistico, è chiamata ‘gas degenere di elettroni’, si comporta non differentemente da un gas di elettroni allo zero assoluto e la sua densità media è dell’ordine delle tonnellate per centimetro cubo (un elefante adulto pesa tre tonnellate, pensate a condensarlo in una zolletta di zucchero).

Ma questo gas degenere è ancora relativamente comprimibile: aumentando la pressione, se la massa della stella di partenza è sufficiente, gli elettroni acquisteranno sempre maggiore velocità e la densità salirà di conseguenza; ne deriva che una nana bianca, dalle dimensioni tipicamente paragonabili a quelle della Terra, sarà stranamente più piccola nelle stelle con maggiore massa, grazie alla pressione finale più elevata.

Questo però vale fino a che la massa della stella rientra entro un certo valore, chiamato “limite di Chandrasekhar”; per i più arditi, questo valore si ottiene applicando la formula

dove ħ è la Costante di Planck ridotta, c è la velocità della luce nel vuoto, G è la Costante Gravitazionale, μe è la massa molecolare media per elettrone che dipende dalla composizione chimica della stella, mH è la massa dell’atomo di idrogeno e ω03 (≈ 2.0182) è una costante connessa alla soluzione dell’equazione di Lane-Emden (fonte: Wikipedia), e vale 1,44 masse solari.

Un’immagine ad alta definizione di Cassiopea A, che contiene
una stella di neutroni vicino al suo centro (Autore: Space Telescope
Science Institute Office of Public Outreach; Ringraziamenti:
NASA, ESA, CSA, STScI, D. Milisavljevic (Purdue University), T.
Temim (Princeton University), I. De Looze (University of Gent).

Stelle di Neutroni

Superato questo valore, la densità cresce sempre più e con essa la velocità degli elettroni, che giunge ad essere vicina a quella della luce; a questo punto, gli elettroni urtano così violentemente i protoni dei nuclei da fondersi con essi, dando origine ai neutroni.

È nata una stella di neutroni.

In realtà il processo è più complesso e comunque non omogeneo; un neutrone, nel vuoto e in quiete, ha una vita media di circa 15 minuti, e decade in un protone, un elettrone e un antineutrino:

 

l’energia rilasciata da questa reazione, distribuita come energia cinetica nelle tre particelle ottenute, è di 0,782±0,013 MeV, e questo significa che, per mantenere stabile un neutrone indefinitamente, è necessario rendere questo decadimento non più conveniente dal punto di vista energetico.

Ora, un aumento della densità del gas degenere comporta un innalzamento del livello di Fermi e quindi un corrispondente aumento dell’energia cinetica di ogni singola particella del gas, fino a che questo raggiunge la soglia necessaria a impedire quanto sopra e addirittura a ottenere il processo inverso, ovvero il processo chiamato neutronizzazione:

 

dove alcuni elettroni liberi vengono catturati dai protoni presenti nei nuclei, rilasciando neutrini che sfuggono dalla stella e formando neutroni, rendendone così i nuclei sempre più ricchi a spese dei protoni originari; la conseguenza è che il rapporto neutroni/protoni aumenta, creando nuclei che in condizioni normali sarebbero altamente instabili e decadrebbero quasi istantaneamente, ma che ora risultano stabili visto l’alto livello di Fermi degli elettroni e al gas degenere; contemporaneamente, grazie alla cattura elettronica, la pressione del gas cala e le forze gravitazionali possono continuare il loro lavoro di compressione.

Scendendo verso le profondità della stella, al crescere della densità i nuclei tenderanno ad avere un numero di massa sempre maggiore: fino a un ρ<1011 g/cm3 (ρ è rho, o ro: la diciassettesima lettera dell’alfabeto greco, e indica la densità) prevarranno quelli con numero di massa attorno agli 80, mentre arrivati a ρ=2×1011 g/cm3 predomineranno quelli vicini a 120.

Arrivati ad una densità critica di 4,3×1011 g/cm3, inizia quello che viene chiamato il ‘gocciolamento di neutroni’, ovvero un fenomeno in cui questi ultimi iniziano a fuoriuscire dai nuclei, dato che la forza di coesione nucleare n-n è inferiore a quella p-p e non è più sufficiente a mantenerli coesi; questo processo continua scendendo sempre più in profondità fino alla dissoluzione totale dei nuclei, o, meglio, fino al punto in cui questi tendono ad avere una distribuzione della densità nello spazio sempre meno localizzata nei loro centri, arrivando a sovrapporsi attorno a un ρ=2×1014 g/cm3; il risultato è così un gas degenere di neutroni liberi, con la presenza di un 2 o 3% di elettroni e protoni a un ρ=3×1014 g/cm3.

A pressioni più elevate, andando verso il centro, neppure i neutroni riusciranno a sopravvivere, come vedremo.

Mosaico tratto da 24 immagini effettuate dall’Hubble Space
Telescope tra il 1999 e il 2000 della Nebulosa del Granchio, al
cui centro troviamo una stella di neutroni. Crediti:NASA/JWST

Struttura di una Stella di Neutroni

Una volta terminata l’implosione della stella, otterremo un oggetto di una ventina di chilometri di diametro e fatto a strati, un po’ come una cipolla: 

Atmosfera

All’esterno troviamo una sottile atmosfera di carbonio spessa solo 10 centimetri, con una temperatura di circa 2 milioni di gradi Kelvin e una densità simile a quella del diamante vista l’enorme gravità presente sulla superficie, ovvero circa 100 miliardi di volte a quella a cui siamo normalmente abituati (analisi ottenuta dalle recenti osservazioni da parte di Chandra sulla Pulsar presente in Cassiopea A).

Per confronto, la nostra atmosfera si innalza per circa 100 km e ha una densità al livello del mare di 0,001 g/cm3.

Crosta Esterna

Subito sotto troviamo la crosta esterna, profonda circa 200 metri con un ρ che va da ≃ 1×109 g/cm3 a ≃ 4×1011, costituita da nuclei che partono dal 56Fe negli strati superiori ma che aumentano di massa e soprattutto di neutroni a mano a mano che si scende, fino a quando non inizia il fenomeno del gocciolamento dei neutroni; si presume che il fenomeno grazie al quale un nucleo di 56Fe possa aumentare di massa fino a divenire ad esempio 122Rb, fenomeno tutt’altro che banale, sia dovuto alla fotodisintegrazione di alcuni nuclei in particelle α e alla ricombinazione di queste ultime.

Grazie all’estrema gravità, le eventuali ‘montagne’ presenti sulla superficie sarebbero alte non più di qualche frazione di millimetro

Crosta Interna

C’è poi la crosta interna, spessa circa un chilometro e che arriva ad un ρ ≃ 2×1014g/cm3, pari alla densità nucleare, e che è composta da un reticolo cristallino di nuclei, elettroni relativistici e un superfluido di neutroni.

Questa zona finisce quando i nuclei iniziano a dissolversi

Nucleo Esterno

Il nucleo esterno invece è essenzialmente costituito da neutroni superfluidi, con una piccola percentuale di protoni superconduttivi ed un’identica quantità di elettroni degeneri relativistici, necessari per mantenere un equilibrio nelle cariche elettriche e che poi scompaiono completamente nella parte più interna (si arriva fino a un ρ circa doppio alla normale densità nucleare).

A queste densità inizia la creazione di particelle che normalmente non sono stabili in condizioni normali: attorno a un ρ di 2×1014g/cm3, il livello di Fermi degli elettroni raggiunge quello della massa di un muone (particella che come simbolo μ, che a riposo ha una massa di 105 MeV), e a questo punto diviene più conveniente introdurre un muone negativo con energia cinetica nulla piuttosto che creare un elettrone con un’alta energia cinetica.

Nucleo Interno

Il nucleo interno è ancora più interessante: viste le estreme densità ed energie raggiunte, vengono a crearsi le condizioni per cui è più conveniente creare degli iperoni ‘pesanti’ piuttosto che mantenere dei semplici neutroni, che hanno una massa a riposo minore; iniziano così ad essere create particelle come Σ⁻, Λ⁰ e altre ancora, con masse sempre più elevate a mano a mano che la pressione aumenta.

Altre teorie poi prevedono l’esistenza al centro di questi corpi celesti di un plasma di quark in stato superconduttivo e di gluoni, e altre ancora che ipotizzano la formazione in tali condizioni di quella che viene chiamata ‘materia strana’, formata da quark strani e che si presume possa addirittura rimanere stabile al di fuori di quelle immense pressioni; capire quali di queste teorie corrisponda al vero è tutt’ora una questione molto delicata e ben lungi dall’essere completamente chiarita, anche perché non è neppure sicuro che si riescano a raggiungere tali densità senza che la stella collassi definitivamente in un buco nero.

Tuttavia osservazioni recenti effettuate con l’osservatorio a raggi X Chandra hanno trovato due candidate precedentemente considerate stelle di neutroni ‘normali’, dove una risulta molto più piccola e l’altra molto più fredda di quello che dovrebbero essere secondo le leggi fisiche oggi conosciute, suggerendo l’ipotesi che esse siano composte da materia più densa del neutronio; queste deduzioni sono comunque messe in dubbio da parecchi ricercatori, e non sono conclusive.

Stelle da record

Con queste premesse, arrivare a stracciare dei record è molto facile, vediamoli insieme:

Campo Magnetico

Alcune stelle di neutroni hanno dei campi magnetici miliardi di volte di quello terrestre (che è di circa 50 μTesla), e in questi casi prendono il nome di Magnetar (contrazione di ‘Magnetic Star’).

Attualmente se ne conoscono meno di 30, e quella che ha la palma per il campo magnetico più potente sembra essere la SGR 1806−20, una stella sita a 42.000 anni luce da noi il cui campo, secondo il McGill Online Magnetar Catalog, arriva alla bellezza di 2×1011 Tesla.

Tenete presente che una simile intensità ucciderebbe qualunque essere umano lacerandone i tessuti a una distanza di oltre 1000 km per via del diamagnetismo dell’acqua, e che arriverebbe a smagnetizzare una carta di credito a una distanza corrispondente a quella dalla Terra alla Luna; inoltre questi campi deformano le strutture orbitali degli atomi facendo loro assumere la forma di un sigaro, così che, sottoponendo un atomo di idrogeno a un campo di 1010 Tesla, questo si allunga di 200 volte il proprio diametro originario.

Velocità di Rotazione

Tutti sappiamo che il periodo di rotazione terrestre è di 24 ore (un giorno), mentre il Sole ruota attorno al proprio asse in 27 giorni circa; quando però una stella collassa su se stessa, a causa della legge di conservazione del momento angolare (così come una pattinatrice che accelera la sua rotazione chiudendo le braccia), la stella è costretta ad accelerare in maniera vertiginosa la propria rotazione.

Tipicamente, le stelle di neutroni ruotano su se stesse con periodi che vanno da 1 a 30 secondi, ma uno studio del 2007 ha rilevato che la pulsar chiamata XTE J1739-285 ha un periodo di poco superiore ai 0,8 millisecondi (anche se in tempi successivi altri astronomi non sono riusciti ad ottenere lo stesso risultato), quindi la palma andrebbe a PSR J1748-2446ad, con una velocità di rotazione di 716 giri al secondo.

C’è comunque un limite alla velocità di rotazione raggiungibile: se questa superasse infatti i 1.500 giri al secondo, nonostante l’intensissima attrazione gravitazionale le pulsar potrebbero andare in pezzi; inoltre, oltre i 1.000 giri al secondo le stelle perderebbero più velocemente energia di quanto il processo di accrescimento possa renderle veloci grazie alla produzione di onde gravitazionali.

Gravità

Le stelle di neutroni sono gli oggetti ‘solidi’ (quindi buchi neri esclusi) con il campo gravitazionale più intenso sulla loro superficie, che arriva ad essere cento miliardi di volte (1011) quello terrestre, e quindi una monetina da un euro peserebbe lì come 200.000 (duecentomila) elefanti sulla Terra; questo comporta anche una velocità di fuga elevatissima, che è circa un terzo della velocità della luce nel vuoto (100.000 km/s).

Sono valori enormi: se un malcapitato astronauta volesse avventurarsi sulla sua superficie, nell’improbabile caso che riuscisse ad atterrare sano e salvo (dovrebbe sopportare enormi forze mareali mentre si avvicina, proprio come succede avvicinandosi ad un buco nero), verrebbe stritolato, schiacciato e infine annichilito dal calore presente e da quello generato dai suoi atomi leggeri, che subirebbero una fusione nucleare.

Densità

Beh, che dire, ci piace vincere facile 🙂

La densità nel nucleo interno, secondo quanto teorizzato, sarebbe dell’ordine dei 1015gr/cm3, ovvero l’equivalente di oltre 2.000.000.000 (due miliardi!) di elefanti per ogni cucchiaino da tè di detta sostanza (10 ml), oppure 1.400 (millequattrocento!) piramidi di Cheope, se preferite!

Da tenere presente che la densità all’interno di un nucleo atomico in condizioni normali è dell’ordine dei 1014g/cm3

Pressione

Qua è più difficile fare mente locale, visto che non abbiamo nessuna pietra di paragone a noi familiare che si possa facilmente usare.

Come stima dell’ordine di grandezza, diverse fonti riportano una pressione all’interno del nucleo di una stella di neutroni un valore di circa 1035 Pa (Pascal); ora, tenuto conto che 105 Pa equivalgono circa alla pressione dell’aria sulla superficie terrestre, avremo che la pressione al centro di una stella di neutroni è in una prima approssimazione equivalente a:

  • 1030 volte la pressione dell’aria al livello del mare (P = 105 Pa)
  • 1027 volte la pressione nella Fossa delle Marianne (P = 108 Pa)
  • 2,5×1023 volte la pressione al centro della Terra (P = 4×1011 Pa)
  • 3×1018 volte la pressione esistente nel centro del Sole (P = 3×1016 Pa)

Numeri a cui è difficile dare un senso; diciamo quindi solo che, nel centro di una stella di neutroni, la pressione è circa tre miliardi di miliardi di volte più forte che nel centro del Sole.

E ho detto tutto.

Riferimenti

  1. Bernardini, C. Guaraldo: Fisica del Nucleo
  2. Gittins, N. Andersson: Modelling neutron star mountains in relativity

Craig Heinke:Chandra X-Ray Observatory -Chandra Peers into Neutron Stars

Andrew W. Steiner: neutronstars.utk.edu

NASA’s HEASARC: Education& Public Information (per dimensioni e spessori degli strati)

Chandra X-Ray Observatory: press_110409

L’articolo è pubblicato in COELUM 266 VERSIONE CARTACEA

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