Come il fallimento di alcune spedizioni polari portò al rinvenimento di uno dei più grandi oggetti metallici mai caduti dal cielo.
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Città di Thule – Groelandia
Maggio 1894
Nella prima parte di questo avvincente racconto, abbiamo visto come, barattando pellicce con coltelli e arpioni, Robert Peary riuscì a farsi accompagnare finalmente là dove si trovavano giganteschi meteoriti ferrosi. L’esploratore era infatti venuto a conoscenza che gli arpioni utilizzati dagli indigeni del luogo possedevano una punta metallica, ottenuta martellando a freddo frammenti di un enorme meteorite.
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Nel 1894 Peary si era imbarcato con l’obiettivo di vincere la corsa senza precedenti che spingeva alcuni temerari a raggiungere per primi il Polo Nord.
Dovendo sostenere costi di spedizione ingenti, l’esploratore non si era dimenticato dell’offerta ricevuta dal banchiere Morris Jesup, filantropo e presidente dell’American Museum of Natural History, in merito alla generosa ricompensa promessa in cambio di interessanti reperti naturalistici da esporre al pubblico.
Falliti i tentativi di raggiungere il Polo Nord, pertanto, l’esploratore trovò il tempo per convincere un nativo a condurlo dalla “montagna di ferro” in cambio di un fucile.
Insieme a Hugh Lee, un membro della spedizione, partì il 16 maggio di quell’anno con slitta e cani verso Capo York, ma dopo un paio di giorni in mezzo alla tormenta l’accompagnatore decise di tornare indietro.
Perry e Lee avanzarono sino a un villaggio e qui reclutarono una nuova guida, un nativo di nome Tallakoteah, che raccontò loro dell’esistenza di due macigni metallici, che si trovavano nello stesso luogo, e di un altro molto più grande chiamato Ahnighito, ossia la Tenda, situato in una isola distante circa una decina di chilometri.
Partiti per la spedizione e raggiunte le rive della Melville Bay, parzialmente sepolti dalla neve i tre trovarono un meteorite da 3 tonnellate, battezzato dai nativi la “Donna“, e uno da 400 kg chiamato il “Cane“.
Entrambi i meteoriti erano ricoperti da una crosta di colore bruno segnata in più parti dalle martellate a opera degli Eschimesi: un utilizzo confermato anche dagli innumerevoli massi di basalto, presenti nelle immediate vicinanze, usati per strapparne dei frammenti.
Preoccupato di assicurarsi la priorità del ritrovamento, Peary descrisse nei seguenti termini le azioni intraprese prima di ritornare indietro alla base:
Ho inciso una grossolana P sulla superficie del metallo, come indiscutibile prova di avere trovato il meteorite nel caso non fossi riuscito più tardi a raggiungerlo con la mia nave.
Oltre a ciò ritenne opportuno lasciare sul posto un biglietto con il seguente messaggio: Questo documento è depositato per dimostrare che nella sopra riportata data [domenica 27 maggio 1894] R. E. Peary della U.S.Navy e Hugh J. Lee della North-Greenland Expedition con Tallakoteah, una guida eschimese, scoprirono la famosa “montagna di ferro” menzionata per primo dal Capitano Ross.
Presa nota con cura della località, il gruppo tornò indietro e, durante il mese di agosto, tentò di avvicinarsi per caricare a bordo della nave Falcon i due meteoriti più piccoli, ma un freddo eccezionale impedì il completo scioglimento del mare ghiacciato lungo la costa e fu necessario rinviare il recupero all’estate seguente.
Il resto della spedizione rientrò negli Stati Uniti e qui la moglie, Josephine, iniziò subito a cercare nuovi finanziamenti per recuperare il marito e gli altri esploratori rimasti in Groenlandia.
Partecipò alla missione dell’estate seguente anche Rollin Salisbury, professore di geologia all’Università di Chicago, che dopo il sopralluogo eliminò ogni dubbio sulla vera natura delle grandi masse metalliche di Capo York scrivendo nel suo rapporto:
“La topografia della superficie, studiata in dettaglio, ha tutte le caratteristiche che individuano i meteoriti metallici, caratteristiche mai trovate in altre masse rocciose o metalliche della Terra […] la superficie dopo attacco acido mostra in diversi punti le figure di Widmanstätten che sono uno dei marchi distintivi di questi corpi. Un foro profondo diversi pollici consentì di stabilire il carattere metallico. Come molti altri meteoriti composti principalmente di ferro, l’ossidazione ha interessato solo un sottile strato superficiale. Queste e altre considerazioni meno facili da riassumere conducono alla sicura conclusione che le masse metalliche sono meteoriche”.
Sostenuto anche dalla perizia dell’esperto geologo, Peary decise di portare a New York la Donna e il Cane, ma movimentare oggetti tanto pesanti rese necessario mettere in atto una insolita strategia.
Il trasferimento in America
Le imbarcazioni potevano navigare nella Melville Bay solo un paio di settimane durante l’estate e proprio alcuni grandi blocchi di ghiaccio galleggianti servirono a traghettare i meteoriti sino alle fiancate della nave.
Potenti argani sistemarono nella stiva dell’imbarcazione Kite il prezioso carico, capace di rendere inutilizzabili le bussole, per poi salpare verso il porto di New York.
Il tentativo di recuperare anche Ahnighito l’estate seguente, nonostante la molta manodopera assoldata e la potente gru messa in campo, fallì a causa delle avverse condizioni meteorologiche.
Accompagnato da moglie e figlia piccola, battezzata Marie Ahnighito come il meteorite più grande, solo nel 1897 Peary terminò il recupero, segnato da difficoltà ambientali e ingegneristiche senza precedenti, caricando a bordo della nave Hope anche la “montagna di ferro”.
Le analisi condotte all’arrivo in America rivelarono modeste differenze, a conferma che provenivano tutti dalla frantumazione dello stesso oggetto.
Ahnighito rimase in deposito sino a quando, nel 1904, raggiunse l’American Museum of Natural History sopra un robusto carro trainato da 28 cavalli e l’accompagnamento della fanfara.
Josephine si adoperò a lungo per definire la vendita dei meteoriti, ricevuti in dono da Peary, e riuscì infine a chiudere la trattativa in cambio di 40.000 dollari: somma destinata al mantenimento dei figli nel futuro reso incerto dalla ferma volontà del marito di raggiungere il Polo Nord.
La donna giustificava l’importanza di quella ingente somma nella lettera indirizzata a Henry Osborn, diventato presidente del Museo nel 1908, scrivendo quanto segue:
Penso sia giusto affermare che i meteoriti sono di mia proprietà e che il denaro ottenuto in cambio non sarà speso nelle esplorazioni artiche. È tutto ciò che ho per educare i miei bambini, nel caso in cui qualcosa accada a mio marito.
La transazione giunse a conclusione dopo le polemiche sollevate da alcuni giornali, diffondendo il sospetto che la sua vera natura fosse terrestre. Ogni dubbio residuo sulla provenienza, però, fu rimosso dalla loro singolare struttura cristallina: derivante da un processo di raffreddamento lentissimo – pochi gradi per milione di anni – compatibile solo con quanto può avvenire nel nucleo di un grande asteroide.
I meteoriti di Capo York, oggi tra le principali attrazioni del Museo Americano di Storia naturale di New York, meritano in conclusione di essere rammentati perché, oltre al grande valore scientifico, favorirono per diversi secoli la sopravvivenza a una piccola comunità di Inuit.