Immagine a colori dell'ammasso di galassie MACS1149+2223. La sua enorme forza di attrazione gravitazionale agisce come una 'lente cosmica' che ingrandisce la galassia estremamente distante posta dietro di esso (evidenziata nel riquadro in alto a destra). Crediti: The CLASH team / The Space Telescope Science Institute

La sua luce ha fatto un viaggio lungo quasi quanto l’età del nostro universo. E probabilmente non saremmo riusciti a captarla se a frapporsi tra lei e i nostri telescopi non ci fosse stato un ammasso di galassie, denominato MACS1149+2223. L’antichissima galassia, distante 13,2 miliardi di anni luce è stata scoperta da un team di ricercatori che collaborano al progetto di ricerca CLASH (Cluster Lensing And Supernova survey with Hubble) e a cui partecipano astronomi INAF attraverso due programmi PRIN coordinati da Massimo Meneghetti (INAF – Osservatorio Astronomico di Bologna) e da Mario Nonino (INAF – Osservatorio Astronomico di Trieste). Le riprese combinate dei telescopi spaziali Hubble e Spitzer l’hanno stanata, sfruttando anche il fenomeno della lente gravitazionale forte. Un effetto predetto dalla Teoria della Relatività Generale di Einstein, secondo cui la materia contenuta nelle strutture cosmiche è in grado di curvare la traiettoria di fotoni provenienti da sorgenti più lontane.

L’ammasso MACS1149+2223, che possiede una massa di circa 2,5 milioni di miliardi di volte quella del Sole, si è trasformato così in un vero e proprio telescopio gravitazionale, permettendo di focalizzare la tenue luce proveniente da una galassia molto più distante che si trova lungo la nostra linea di vista, amplificandola di ben 15 volte e permettendo così agli strumenti dei telescopi spaziali Hubble e Spitzer di individuarla.

La scelta di osservare e studiare gli effetti della Relatività Generale in corrispondenza degli ammassi di galassie non è casuale. Tanto più grande è la massa, tanto maggiore è l’effetto di lente gravitazionale. E quando si parla di grande massa, i gruppi di galassie come MACS1149+2223 non temono confronti, visto che possono contenere fino a diversi milioni di miliardi di masse solari. Si tratta quindi delle più potenti lenti gravitazionali osservabili in cielo, che a volte producono delle forti distorsioni nelle immagini di galassie lontane, producendo archi gravitazionali o, in altri casi,  gruppi di immagini multiple.  “Quando vengono osservate queste distorsioni, esse possono essere utilizzate per capire come è distribuita la materia nella lente” sottolinea Massimo Meneghetti. “Tuttavia il lensing gravitazionale è importante anche per un altro motivo: amplifica sorgenti lontane ed intrinsecamente molto deboli, rendendole più facilmente osservabili. Ciò è dovuto al fatto che la lente modifica la forma intrinseca dalla sorgente e l’area che essa occupa in cielo ma mantiene inalterata l’energia ricevuta per unità di superficie e per unità di tempo. Gli ammassi di galassie possono quindi essere usati come efficienti strumenti che la natura ci mette a disposizione per esplorare l’universo lontano”.

Ma la scoperta di questo oggetto celeste così remoto, riportata in un articolo pubblicato nell’ultimo numero della rivista Nature, è di grande utilità anche per ottenere nuove informazioni su una fase nell’evoluzione dell’universo tanto importante quanto ancora poco conosciuta, che prende il nome di Età Oscura (Cosmic Dark Age). Una fase in cui l’universo era avvolto da una nebbia di idrogeno neutro, in grado di assorbire la radiazione luminosa.  L’Età Oscura si concluse quando si formarono le prime stelle e la loro intensa radiazione ultravioletta rese lentamente trasparente la nebbia, tra 150 e 800 milioni di anni dopo il Big Bang, permettendo così alla luce delle stelle di propagarsi nel cosmo e arrivare, dopo un lunghissimo viaggio, fino a noi.

“Quella presentata nel nostro lavoro è la più convincente osservazione di una galassia a distanze così elevate (circa 13,2 miliardi di anni luce) fatta fino ad oggi” commenta Mario Nonino. “La scoperta di una galassia, che sulla base delle nostre osservazioni è stata scorta quando l’universo è verso la fine dalla cosiddetta Cosmic Dark Age, mostra come l’approccio di sfruttare l’amplificazione degli ammassi sia estremamente efficiente per osservare l’universo primordiale. Questo metodo potrà essere ulteriormente sfruttato per ottenere osservazioni più dettagliate sia con telescopi attuali, come ALMA, che con quelli di prossima generazione come l’europeo E-ELT (European Extremely Large Telescope) e il JWST (James Webb Space Telescope), il successore di Hubble”.

Per saperne di più:

Il comunicato stampa INAF