La nebulosa di Orione è una delle grandi meraviglie del cielo notturno. La sua scoperta risale a 400 anni fa, precisamente il 26 novembre 1610, quando, l’astronomo dilettante francese Nicolas-Claude Fabri de Peiresc (1580-1637) la osservò per la prima volta, descrivendola come “una nube composta di due stelle … dall’apparenza luminosa” (vedi l’articolo “Galileo non vide la nebulosa di Orione” su Coelum n. 90 – Dicembre 2005).
La scoperta della nebulosa di Orione e gli studi sulla sua natura e origine sono strettamente correlate allo sviluppo dei telescopi, tanto che solo negli ultimi 60 anni si è arrivati a comprendere la reale importanza da un punto di vista astrofisico di questo oggetto così glamour: la nebulosa, come tanti altri oggetti nella Via Lattea e in altre galassie , è un’importante sede di formazione di nuove stelle. All’interno della nebulosa di Orione, gli astronomi hanno trovato nel corso degli anni una vasta gamma di oggetti stellari giovani e stellar-like, a partire da enormi stelle, decine di volte più massicce del Sole, fino a corpi non abbastanza massicci da bruciare idrogeno, e diventare quindi stelle ,noti come nane brune. Di tutte le nursery presenti nella nostra Galassia, la nebulosa di Orione è la più vicina alla Terra, distante solo 1.500 anni luce. Ciò rende questa regione molto speciale, offrendo agli astronomi la migliore occasione per capire come le leggi della fisica portino alla trasformazione di nubi molecolari di gas molto diffuso in stelle, in oggetti quasi stellari o anche in pianeti.
Non a caso gli astronomi vedono la nebulosa di Orione come un fondamentale punto di riferimento per lo studio della formazione stellare, tanto che la maggior parte dei dati finora acquisiti – come, ad esempio, la distribuzione delle masse di stelle e nane brune alla nascita, la loro età relativa o la loro distribuzione spaziale – sono stati ricavati proprio da questa regione.
Ma, a quanto pare, la realtà è ancora più complessa. Recenti osservazioni condotte dal Canada-France-Hawaii Telescope (CFHT) con la fotocamera 340 Mpx MegaCam abbinate a precedenti indagini degli osservatori Herschel e XMM-Newton (ESA), Spitzer e WISE (NASA), così come 2MASS e Calar Alto, hanno rivelato che l’asterismo noto come NGC 1980 è un ammasso ben distinto e massiccio, formato da stelle un po’ più vecchie situate in primo piano rispetto alla nebulosa. Anche se la presenza di una popolazione stellare distinta era già nota dal 1960, queste nuove osservazioni del CFHT hanno rivelato che si tratta di una popolazione più massiccia di quanto si pensasse e distribuita in modo non uniforme, raggruppata attorno alla stella iota Orionis (la punta meridionale della spada di Orione).
L’importanza di questa scoperta è duplice: in primo luogo, l’ammasso indipendente è solo un fratello leggermente più vecchio di quello del Trapezio, situato al centro della nebulosa di Orione, secondariamente, quello che gli astronomi chiamano Orion Nebula Cluster (ONC ) è in realtà un complesso mix di questi due ammassi stellari.
Hervé Bouy, del Centro Europeo di Astronomia Spaziale di Madrid, uno dei due autori di questo lavoro, spiega che “abbiamo bisogno di perfezionare le nostre conoscenze su quella che pensavamo essere la formazione dell’ammasso.” E continua sottolineando la necessità di un monitoraggio approfondito sulla nebulosa per riuscire a “districare queste due popolazioni miste, stella per stella, se vogliamo comprendere la regione, la formazione stellare negli ammassi e perfino le prime fasi di formazione dei pianeti. “
“Secondo me, il fatto più interessante è la vicinanza dell’ammasso più vecchio, quello che circonda iota Orionis, a quello più giovane, con stelle ancora in formazione, all’interno della nebulosa di Orione”, spiega João Alves dell’Università di Vienna. “E’ difficile capire come queste nuove osservazioni possano rientrare in uno qualsiasi dei modelli teorici esistenti sulla formazione degli ammassi, e questo è il punto, perché suggerisce che ci possa mancare qualcosa di fondamentale. E’ molto probabile che quello dei raggruppamenti sia il modo di formazione stellare più diffuso nell’Universo, ma siamo ancora lontani da capire perché ciò accada.”
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Il Team
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L’articolo pubblicato sulla rivista Astronomy & Astrophysics (edizione novembre 2012).