Mosaico di immagini del Mare Orientale prese dal Lunar Reconnaissance Orbiter della NASA. Credits: NASA/GSFC/Arizona State University

Sulla Luna c’è un enorme bacino, formatosi circa 3.8 miliardi di anni fa, caratterizzato da una forma ad anelli concentrici. Si chiama Mare Orientale, e utilizzando i dati provenienti dalla missione Gravity Recovery and Interior Laboratory (GRAIL) della NASA i ricercatori sono riusciti a gettare nuova luce sulla sua formazione. I risultati dei loro studi sono stati pubblicati sulla rivista Science, in due articoli distinti.

Il Mare Orientale ha una forma a bersaglio facilmente riconoscibile, in cui il cratere più esterno misura quasi mille chilometri di diametro. Trovandosi lungo il bordo sud-occidentale della Luna è poco visibile da Terra, ed è stato studiato in dettaglio solo grazie a missioni spaziali dedicate al nostro satellite naturale. Gli scienziati hanno discusso per anni su come potessero essersi formate quelle strutture ad anello, e finalmente, grazie a una serie di passaggi ravvicinati delle sonde gemelle GRAIL, siamo vicini a una risposta.

Sovrapposta all’immagine, una mappa in falsi colori che rileva le differenze gravitazionali all’interno del bacino da impatto noto con il nome di Mare Orientale. In rosso sono evidenziati gli eccessi di massa, e in blu le carenze, rispetto a un valore di riferimento. Questa mappa è ottenuta sulla base di misure raccolte dalla missione GRAIL della NASA. Crediti: Ernest Wright, NASA/GSFC Scientific Visualization Studio

I dati raccolti nel 2012 dalla missione GRAIL hanno mostrato nuovi dettagli sulla struttura interna del bacino e gli scienziati sono stati in grado di ricreare, attraverso simulazioni al computer, il processo di formazione degli anelli.

«I grandi impatti, come quelli che hanno formato il Mare Orientale, sono stati i principali responsabili del cambiamento delle superfici planetarie nel sistema solare», spiega Brandon Johnson, geologo della Brown University, primo autore di uno dei due studi e co-autore dell’altro. «Grazie ai dati forniti da GRAIL abbiamo un’idea molto più chiara di come si formano questi bacini, e siamo in grado di applicare le nostre conoscenze a crateri di dimensioni simili osservati su altri pianeti o lune».

«In passato sapevamo molto poco di questo bacino», dice Jim Head, geologo della Brown Univesity e co-autore della ricerca. «Dovevamo affidarci a ciò che riuscivamo a vedere della sua superficie, senza conoscenze approfondite del sottosuolo. È come cercare di capire come funziona il corpo umano solo studiandone la pelle. La bellezza dei dati GRAIL è che ci ha permesso di mettere il Mare Orientale in una macchina a raggi X, offrendoci uno sguardo dettagliato sia sulle sue caratteristiche superficiali che su quelle del sottosuolo».

Uno dei misteri fondamentali che sono stati risolti riguarda la dimensione e la posizione della “cavità transiente”, ovvero il cratere generato inizialmente dall’impatto. Per impatti di piccola taglia il cratere iniziale rimane visibile, ma per collisioni più grandi il rimbalzo della superficie che avviene dopo l’impatto può cancellare ogni traccia del bacino iniziale. Alcuni ricercatori pensavano che uno degli anelli potesse rappresentare questo cratere primordiale, mentre le osservazioni di GRAIL hanno dimostrato che non è così: i dati gravitazionali rivelano che la cavità transiente si trova tra i due anelli più interni, e ha un diametro pari a circa 300-500 km. La stima sulla dimensione del cratere iniziale ha permesso al team di valutare quanto materiale sia fuoriuscito durante la collisione: oltre un milione di metri cubi di roccia.

Rappresentazione artistica delle sonde gemelle GRAIL sulla superficie lunare. Crediti: NASA/JPL

Nel contesto del secondo lavoro, i ricercatori hanno sviluppato un modello che, a partire dai dati GRAIL, è in grado di fornire informazioni circa l’oggetto che ha impattato sulla Luna per formare il Mare Orientale. La migliore concordanza con i dati è rappresentata da un oggetto con un diametro di circa 60 km, che viaggiava a 15 km al secondo.

La simulazione spiega come si sono formati gli anelli concentrici, e mostra come la crosta sia rimbalzata dopo l’impatto, con rocce calde e fluide del sottosuolo che si muovevano in profondità all’altezza del punto di impatto. Questo flusso di materiale verso l’interno ha causato delle fratture alla crosta, che è poi scivolata in direzione esterna, dando vita ai due anelli più lontani.

L’anello più interno si è formato attraverso un processo differente. In genere, negli impatti di piccola taglia, il rimbalzo della crosta può formare un picco centrale di materiale che si accumula e si raffredda, ma nel caso del Mare Orientale questo picco risultava troppo grande. Il materiale fuoriuscito a seguito dell’impatto si è andato a disporre in forma circolare, dando vita all’anello più piccolo.

«Si tratta di un processo molto intenso», aggiunge Johnson. «Questi rilievi e l’anello centrale si sono formati a pochi minuti dall’impatto, ed è la prima volta che siamo in grado di riprodurre la loro formazione con tale dettaglio. GRAIL ci ha fornito i dati di cui avevamo bisogno per dare una base solida ai modelli».

«Ci sono diversi bacini di questo tipo su Marte», continua Johnson. «Ma, rispetto alla Luna, Marte è un pianeta geologicamente più attivo, e questo fa sì che la storia dei crateri venga cancellata dal tempo. Ora che abbiamo una comprensione migliore di come si possano formare crateri di questo tipo, possiamo ricostruire i processi che sono avvenuto dopo».

«La Luna è una specie di laboratorio», dice Head. «Il fatto che sia così ben conservato ci permette di analizzare con grande precisione una serie di caratteristiche che possono essere osservate in tutto il sistema solare».

Per saperne di più:

  • Leggi su Science l’articolo “Gravity field of the Orientale basin from the Gravity Recovery and Interior Laboratory Mission” di Maria T. Zuber et al.
  • Leggi su Science l’articolo “Formation of the Orientale lunar multiring basin” di Brandon C. Johnson et al.

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