Lunedì 16 luglio 1945, ore 05:29. Per la prima volta nella storia dell’umanità, viene fatto esplodere un ordigno nucleare: una bomba al plutonio, identica a quella che nemmeno un mese più tardi sarà sganciata su Nagasaki. Il luogo è un lembo di deserto noto come Jornada del Muerto, nella contea di Alamogordo, in New Mexico. E il nome in codice del test – scelto personalmente da J. Robert Oppenheimer – è Trinity.
Ora, a distanza di oltre settant’anni dall’alba di quel lunedì, che segnò uno spartiacque tanto di successo per il Progetto Manhattan quanto tragico per la storia dell’uomo, un team di ricercatori guidato da James Day, geochimico alla Ucsd (University of California, San Diego), è tornato sul luogo del delitto per raccogliere indizi utili a chiarire i contorni di un altro evento devastante – questa volta, però, del tutto naturale – avvenuto più o meno 4,5 miliardi di anni fa: il gigantesco impatto fra la proto-Terra e un corpo celeste dalle dimensioni simili a quelle di Marte. Impatto dal quale, stando a una fra le teorie più accreditate, ebbe origine la Luna.
Cos’avrebbero in comune il Giant Impact e il Trinity Test è presto detto: un analogo frazionamento isotopico, vale a dire “firme” simili per quanto riguarda l’abbondanza di alcuni isotopi – per esempio quelli dello zinco. Firme che i ricercatori di Ucsd hanno rinvenuto, da una parte, sui campioni di rocce lunari, e dall’altra, appunto, nei residui vetrosi raccolti a Jornada del Muerto nei dintorni del sito del test, il Trinity site. Come illustrato nello studio pubblicato oggi da Day e colleghi su Science Advances, la composizione del materiale di questi frammenti, noto fra gli esperti come trinitite, varia a seconda della loro distanza dal punto esatto dell’esplosione. Più ci si avvicina a ground zero, più i frammenti vetrosi risultano carenti di elementi volatili, come se fossero stati “asciugati”. Lo zinco, in particolare, mostra anche un’abbondanza isotopica relativamente ai suoi isotopi più pesanti, con un frazionamento che riflette la distanza dal punto in cui esplose quel primo ordigno atomico.
«I risultati mostrano che l’evaporazione a temperature elevate, simili a quelle presenti all’origine della formazione dei pianeti, conduce – nei residui lasciati dall’evento – alla perdita di elementi volatili e all’arricchimento in isotopi pesanti», spiega Day. «Un esito suggerito anche dal senso comune, ma del quale abbiamo ora una prova sperimentale».
Il fatto che un’analoga abbondanza isotopica e l’assenza di liquidi – acqua in testa – caratterizzino anche le rocce lunari suggerisce, dicono i ricercatori, che il materiale della Luna sia stato oggetto di trasformazioni simili. I campioni analizzati mostrano come gli elementi volatili subiscano identiche reazioni chimiche durante eventi nei quali si raggiungono temperature e pressioni estreme, sia che avvengano sulla Terra sia nello spazio esterno. Risultati che depongono, dunque, a favore della teoria dell’impatto gigante.
Per saperne di più:
- Leggi su Science Advances l’articolo “Evaporative fractionation of zinc during the first nuclear detonation“, di James M. D. Day, Frédéric Moynier, Alex P. Meshik, Olga V. Pradivtseva e Donald R. Petit
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