Nell’immagine piogge coronali in piccoli anelli di plasma che costellano la superficie solare. Crediti: NASA’s Solar Dynamics Observatory/Emily Mason

Sulla Terra, la pioggia è solo una parte del più grande “ciclo dell’acqua“, una lotta senza fine, e senza vincitori, tra la spinta del calore e l’attrazione della gravità. Inizia quando l’acqua liquida, accumulata sulla superficie del pianeta in oceani, laghi o corsi dacqua, viene riscaldata dal Sole. Parte di essa evapora e sale nell’atmosfera, dove si raffredda e si condensa in nuvole. Alla fine, quelle nuvole si condensano tanto da non riuscire più a resistere all’attrazione gravitazionale e l’acqua ricade sulla Terra sotto forma di pioggia, e il processo ricomincia…

Sul Sole tutto questo non può chiaramente esistere, le temperature sono talmente alte che, già qui sulla Terra come abbiamo visto, l’acqua evapora, ma se invece di avere a che fare con acqua liquida parliamo di plasma da un milione di gradi ecco che qualcosa di simile può accadere.

In questa animazione (SDO 2012) vediamo la pioggia coronale che è stata osservata in seguito a eruzioni solari, quando l’intenso riscaldamento associato a un brillamento solare si interrompe bruscamente dopo l’eruzione e il plasma rimanente si raffredda e ricade sulla superficie solare.  Crediti: Osservatorio sulla dinamica solare della NASA / Scientific Visualization Studio / Tom Bridgman, Lead Animator

Qui però iniziano le differenze con il ciclo dell’acqua terrestre. Sulla superficie del Sole, il plasma (che è un gas che ha carica elettrica) non si accumula come l’acqua in nubi, ma traccia dei circuiti magnetici che emergono dalla superficie del Sole sottoforma di archi. Alla base di questi archi, il plasma viene surriscaldato da poche migliaia a oltre 1,8 milioni di gradi Fahrenheit. A quel punto si innalza formando l’arco e si raccoglie al suo apice, lontano dalla fonte di calore (nell’immagine vedete le altezze che può raggiungere durante un’eruzione solare a confronto con le dimensioni della Terra!), dove si raffredda (per quello che questo termine può significare da quelle parti), si condensa e può quindi precipitare, a causa della gravità del Sole, sotto forma di pioggia coronale.

In particolare, piogge coronali sono state talvolta avvistate, come nell’immagine qui a destra, in concomitanza con i grandi brillamenti delle regioni attive, e dovrebbe avvenire molto spesso. Così almeno prevedeva la teoria e mostravano le simulazioni al computer. Un fenomeno che, se compreso a fondo, potrebbe darci la possibilità di svelare perché la corona solare, l’atmosfera esterna del Sole, è molto più calda della sua superficie (un “mistero” che ci portiamo avanti da 70 anni).

Ecco che, per cinque mesi a metà del 2017, Emily Mason ha osservato immagini del Sole, cercando tracce di questa pioggia senza riuscire a individuarla.  Studentessa della Catholic University of America di Washington, D.C., la Mason cercava in particolare giganteschi globuli di plasma che dall’atmosfera esterna “gocciolassero” verso la superficie, anche al di fuori dei brillamenti solari.

Una tra le foto più riuscite dell’eclissi di Sole del 1 agosto 2008, combinando la perfetta resa della corona solare, con i suoi pennacchi, con la tecnica della compositazione della luce cinerea del disco lunare. La ripresa è stata ottenuta dalla località di Altay Sun in Mongolia con una Canon 350D modificata al fuoco di un rifrattore Borg-77 ED montato su una Vixen GP-DX alimentata a pannelli solari. Media di 9 scatti in 3 gruppi da 1/500 a 1/4 di secondo. Foto di Marco Bastoni – Parma.

E li cercava, come suggeriva la teoria, nei pennacchi coronali (chiamati in ingelse helmet streamers per la somiglianza con i pennacchi degli elmi dei cavalieri), strutture che si richiudono a fiamma di candela, per l’azione del vento solare (per un approfondimento su come è composta l’atmosfera solare e sui meccanismi di formazione del vento solare potete leggere l’articolo, a lettura gratuita, dedicato allo Space Weather su Coelum astronomia 230). Sono quelle stesse strutture che vediamo “emergere” dalla corona solare durante un’eclissi.

Poi, nell’ottobre 2017, si è resa conto che forse aveva sempre cercato nel posto sbagliato.

In un articolo pubblicato il 5 aprile sull’Astrophysical Journal Letters, Mason e i suoi coautori descrivono infatti le prime osservazioni di pioggia coronale in un tipo di anello magnetico più piccolo, precedentemente trascurato, sul Sole. Non degli “acquazzoni” all’interno delle enormi manifestazioni della corona solare, quindi, ma una pioggerellina costante e insistente molto più vicina alla supeficie del Sole, e decisamente più diffusa e svincolata dalle grandi regioni attive.

Un poster che ritrae la suite di strumenti di cui è dotato l’Osservatorio solare SDO, grazie alla quale è in grado di analizzare e riprendere il nostro Sole in più lunghezze d’onda diverse contemporaneamente. Crediti: NASA/Goddard Space Flight Center Conceptual Image Lab

Grazie alle immagini scattate dal Solar Dynamics Observatory (SDO) della NASA, se per mesi la Mason non aveva trovato una singola goccia di pioggia in un pennacchio, aveva però notato una sfilza di minuscole strutture magnetiche, che non conosceva.  «Erano davvero brillanti e continuavano ad attirare il mio sguardo», racconta. «Quando finalmente gli ho dato un’occhiata c’erano, poco ma sicuro, decine di ore di pioggia alla volta».

Nicholeen Viall, fisico solare del Goddard e coautore dello studio, racconta di quel momento: «È venuta alla riunione di gruppo e ha detto: “Non l’ho mai trovata, ma la vedo sempre in queste altre strutture, ma non sono pennacchi”. Io ho detto, “Fermi tutti… dov’è che l’hai vista?! Non credo che nessuno l’abbia mai vista prima!”».

Un lavoro apparentemente “ingrato”, mesi e mesi a scrutare quelle immagini sempre uguali e all’improvviso la svolta. Se avesse trovato quello che cercava, confermando la teoria che comunque dice che deve piovere anche nei pennacchi, non avrebbe fatto questa nuova scoperta.

Gli anelli magnetici individuati, sono decisamente più piccoli di quelli in cui ci si aspettava di vedere pioggia coronale, con grumi di plasma molto più piccoli, ma diffusi su tutta la superficie del Sole. Con una altezza che in alcuni casi raggiunge anche i 50 mila chilometri dalla superficie, sono comunque alti appena il 2% rispetto all’altezza dei pennacchi in cui si stava cercando. Tutto questo fa pensare ai ricercatori che il calore della corona sia più localizzato di quanto ci si aspettasse e che qui potrebbe proprio essere dove si sviluppa. Anche se ancora il “come” di questo meccanismo di riscaldamento non è chiaro, dice la Mason: «(ora) sappiamo che deve accadere in questo strato».

Ma non è tutto. Una parte delle osservazioni non era allineata con le previsioni della teoria. Secondo quello che sappiamo finora, la pioggia coronale si forma solo su anelli chiusi, dove il plasma viene contenuto, senza possibilità di fuga, condensandosi e raffreddandosi per poi ripiovere sulla superficie. Ma analizzando i dati, la Manson ha trovato casi in cui la pioggia si stava formando su linee di campo magnetico aperte, con la seconda estremità estesa verso lo spazio dove il plasma scappa verso l’esterno. Per spiegare l’anomalia, lo studio propone una spiegazione alternativa, che collega la pioggia coronale di queste minuscole strutture magnetiche con le origini del cosiddetto vento solare “lento”.

Nella nuova ipotesi, il plasma inizia il suo viaggio su un circuito chiuso, ma passa – attraverso un processo noto come riconnessione magnetica – a una linea aperta. Il fenomeno si verifica frequentemente sul Sole, e lo vediamo anche nel video di apertura: quando un circuito chiuso si scontra con una linea di campo aperta, si riconfigura aprendosi e unendosi in parte ad essa. A quel punto, il plasma surriscaldato sul circuito chiuso si trova su una linea di campo aperta e, mentre una parte già abbastanza condensata si raffredda e ricade sul Sole, sottoforma di pioggia coronale, il sospetto è che parte invece resti intrappolata nel nuovo binario e fugga verso l’esterno alimentando in parte il vento solare più lento.

Animazione del perielo di SDO. Crediti: Johns Hopkins University Applied Physics Lab

Per avere una conferma di questa nuova spiegazione sono necessarie nuove osservazioni a breve termine, per affinare le simulazioni al computer su cui ora il team, e Emily Manson, stanno lavorando. E la Parker Solar Probe, potrebbe fornirle.

La sonda ha da poco concluso il suo secondo avvicinamento al Sole: il 4 aprile ha raggiunto i 24 milioni di chilometri dalla nostra stella, viaggiando a una velocità di 343,112 chilometri all’ora. Il team missione, presso il Johns Hopkins Applied Physics Laboratory (APL), è riuscito a seguirla per tutto l’avvicinamento (iniziato il 30 marzo e che si concluderà il 10 aprile) e grazie al collegamento tramite il Deep Space Network ha avuto la conferma che la sonda sta funzionando come deve e sta raccogliendo dati attraverso tutti i suoi strumenti scientifici.

Viaggiando vicina al Sole, più di quanto altre sonde abbiano mai fatto prima, potrebbe trovarsi in mezzo alle raffiche di quel vento solare lento, e raccogliere i dati necessari per tracciare una di queste raffiche per poterla collegare a un evento simile a quelli individuati dalla Manson. Dopo una lunga e tortuosa ricerca nella direzione sbagliata, ci troveremmo allora non solo ad avere un collegamento con il riscaldamento anomalo della corona, ma anche con la ricerca della sorgente del vento solare lento – due dei più grandi misteri che la fisica solare si trova oggi ad affrontare.


I Segreti della Via Lattea
Il nuovo volto e il destino della nostra galassia svelati da Gaia!

Coelum Astronomia di Aprile 2019
Ora online, come sempre in formato digitale, pdf e gratuito.