Immagine composita di Ultima Thule, bilanciata per renderla il più vicino possibile a quello che vedrebbe un occhio umano. Questa è l'immagine che ha conquistato la copertina di Science di questo mese. Credits: NASA/Johns Hopkins University Applied Physics Laboratory/Southwest Research Institute/Roman Tkachenko

Analizzando solo le prime serie di dati raccolti dalla New Horizons durante il sorvolo del primo dell’anno 2019 di 2014 MU69 (soprannominato Ultima Thule), il più lontano mondo mai esplorato si è rivelato molto più complesso del previsto. Dopo soli quattro mesi ecco i primi risultati pubblicati sul numero del 17 maggio della rivista Science che ci parlano dell’evoluzione, la geologia e la composizione di questo bizzarro oggetto.

Sua principale caratteristica è quella di trovarsi talmente al limite del nostro Sistema solare da essersi conservato nelle condizioni che aveva ancora ai tempi della formazione dei pianeti. Complici le temperature estremamente basse e la lontananza dal Sole – 6,5 miliardi di chilometri circa dalla Terra – e quindi dall’azione delle sue radiazioni e del vento solare, estremamente indeboliti. E sono molte le evidenze che ci confermano che si tratta di un oggetto che si è formato nelle prime fasi di formazione del Sistema solare e ha attraversato il tempo quasi immutato da allora.

Ultima Thule non si è guadagnata la copertina solo per la quantità e qualità dei risultati raggiunti, ancora agli inizi, o per la straordinarietà della sua missione, ma anche per la quantità di coautori presenti negli studi pubblicati: più di 200 co-autori, in rappresentanza di oltre 40 istituzioni. Alan Stern, PI della missione e autore principale degli studi pubblicati, ha infatti voluto dare merito di queste prime scoperte a tutti i membri dei team che hanno avuto un ruolo nel flyby di Ultima Thule. Ecco che allora, il lavoro di Stern include autori dai team scientifici, dal team di volo, dal progetto missione, dai team di gestione e comunicazione, nonché tra i più disparati collaboratori, tra cui lo scienziato, specializzato in immagini stereo (oltre che leggendario chitarrista dei Queen), Brian May, al Direttore della Divisione Planetaria della NASA Lori Glaze, al Capo ricercatore della NASA Jim Green e all'Amministratore associato NASA per la direzione della missione scientifica Thomas Zurbuchen. Crediti: AAAS / Scienza.

«Stiamo esaminando i resti ben conservati di un passato antico», spiega Alan Stern, PI della missione al Southwest Research Institute di Boulder, in Colorado. «Non c’è dubbio che le scoperte fatte su Ultima Thule faranno fare passi in avanti alle teorie sulla formazione del istema solare».

Sappiamo già che si tratta di un oggetto binario, con due lobi a contatto nettamente diversi, che hanno informalmente preso il nome di Ultima e Thule, dalla separazione del nome avuto all’inizoo della missione. Ultima, il lobo più grande, ha una lunghezza di circa 36 chilometri ed è stranamente piatto, come un pancake, ed è collegato a un lobo più piccolo, Thule, che invece è risultato un po’ più rotondo, con una forma “ammaccata”. Tra loro la parte che li congiunge è soprannominata “il collo”.

Resta ancora sconosciuta la causa per cui i singoli lobi mostrano questa forma insolita, un mistero che con ogni probabilità, risale alla loro formazione miliardi di anni fa. Due delle ipotesi parlano di alta velocità di rotazione al momento della formazione, velocità rallentata poi nel tempo, oppure di erosione dovuta alla nube di polveri in cui si trovavano, che potrebbe aver avuto anche un’influenza sul loro avvicinamento.

Si sta facendo luce invece sulla dinamica della sua formazione. Su come i due lobi sono entrati in contatto senza fondersi l’uno con l’altro. I ricercatori infatti hanno determinato che il loro deve essere stato più un incontro, delicato, che uno “scontro”: i due lobi probabilmente erano in un sistema di orbita mutua, come molti oggetti della fascia di Kuiper, che per qualche motivo ha perso energia facendoli avvicinare. Perché l’incontro non fosse traumatico, infatti, le forze che li hanno fatti avvicinare devono essersi dissipate in qualche modo.
Di sicuro tutto questo è accaduto ai tempi della nascita del Sistema solare. Le velocità attuali di impatto tra corpi della fascia di Kuiper sono stimate nell’ordine dei mille chilometri all’ora, troppo alte e distruttive per dare vita a un oggetto come Ultima Thule, che sembra invece sia dovuto a un incontro a poco meno di 9 km/h, più compatibile con un ambiente in formazione come quello dell’alba del nostro Sistema solare.

«Sembra che i due si siano avvicinati letteralmente a una velocità di approdo come fossero due astronavi» spiega Alan Stern ai microfoni di Space.com, «Il che è particolarmente esplicativo di come debba essere stata l’origine dei planetesimi da queste parti».

Forse a causa, appunto, di forze aerodinamiche dovute al gas e alle polveri dell’antica nebulosa solare, oppure alla presenza di altri lobi che sono stati in qualche modo esplusi dal sistema lasciando soli Ultima e Thule che, come reazione, hanno man mano, lentamente, ridotto la loro mutua orbita. L’allineamento degli assi di Ultima e Thule indica inoltre che prima della fusione i due lobi dovevano essere in un orbita sincrona, ovvero ruotavano mostrandosi sempre lo stesso lato, come due danzatori sulla pista di ballo.

Oltre alla dinamica della loro formazione, gli studi pubblicati su Science descrivono anche  un’ampia gamma di caratteristiche superficiali di MU69: punti luminosi e macchie, colline e depressioni, crateri e pozzi.

La depressione più grande si trova su Thule, ed è una formazione di 8 chilometri di larghezza, che il team ha soprannominato “cratere Maryland”, dovuta con ogni probabilità a un impatto.  Alcune depressioni più piccole invece non mostrano caratteristiche da impatto, ma si sono probabilmente formate da parte della superficie che ha ceduto, crollando in vuoti sotterranei, o a causa di blocchi di ghiacci esotici nel tempo sublimati.

Altra curiosità, mentre Ultima mostra numerosi bozzi affiancati di dimensioni simili, che sembrano essere i contorni di pezzi più piccoli uniti assieme nel suo passato e che ne hanno dato origine, Thule invece non mostra nulla di simile. Il che potrebbe significare che i due lobi abbiano avuto una formazione molto diversa, ma potrebbe anche significare che l’impatto che ha creato il cratere Maryland su Thule ne abbia cancellato le tracce (Ultima non mostra infatti tracce di crateri simili).

A colori e composizione, poi, Ultima Thule ricorda molti altri oggetti trovati nella sua area della fascia di Kuiper. Anche questo, assieme all’omogeneità della colorazione, è un indizio della sua antica età. È molto rosso – più rosso persino di Plutone, principale target della missione, raggiunto nel 2015 – tanto da essere l’oggetto del Sistema solare più arrossato mai visitato da una sonda. Tale colorazione, a queste distanze, è causato dalla modifica di materiali organici sulla sua superficie in toline, o qualcosa di simile, e dai dati risultano prove della presenza di tracce di metanolo, acqua ghiacciata e molecole organiche.

New Horizons si trova ora a 6,6 miliardi di chilometri dalla Terra, e la trasmissione dei dati dal flyby continuerà ancora per un anno, fino alla fine dell’estate 2020. Nel frattempo, continua a eseguire nuove osservazioni di ulteriori oggetti della fascia di Kuiper, anche se da lontano. Oggetti troppo distanti per consentire scoperte come quelle su MU69, ma continuerà a misurare caratteristiche come la luminosità degli oggetti nel suo cammino, a mappare le radiazioni di particelle cariche e le polveri dell’ambiente della fascia di Kuiper.

La sonda in realtà ha sufficiente carburante da poter effettuare un ulteriore flyby, ma servirebbe un’estensione di missione che al momento non è ancora arrivata. Per il momento godiamoci questa bella vista ravvicinata del mondo più lontano del nostro Sistema solare mai raggiunto da una sonda.


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Coelum Astronomia di Maggio 2019
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