Dopo questa lunga, ma necessaria introduzione possiamo tentare di valutare l’opera di Leonardo nel campo dell’ottica. Dai suoi manoscritti emerge in modo evidente che era spinto dal desiderio di spiegare o, addirittura, di trovare la chiave per perfezionare la tecnica della pittura. Che cosa fa sì che con uno strato di impasti colorati stesi sopra una tela riesce a far vedere all’osservatore esattamente ciò che vedrebbe attraverso una finestra? In altre parole, cosa vuol dire vedere?
Egli non mette in dubbio la diffusa convinzione che la psiche utilizza l’occhio quale sua terminazione verso l’esterno (Libro di pittura, § 15): “L’occhio, che si dice finestra dell’anima, è la principale via donde il comune senso può più copiosamente e magnificamente considerare le infinite opere della natura” .
Però, dopo aver consultato tutti i testi di ottica allora disponibili, deve essere rimasto molto deluso sull’efficacia delle teorie della visione in essi proposte, stando almeno alle seguenti parole: “L’occhio del quale l’esperienza ci mostra così chiaramente l’uffizio, è stato definito insino al mio tempo da un numero infinito di autori di un dato modo, ed io trovo che esso è completamente diverso” (Codice Atlantico, fol. 361v).
Dopo lunghi studi, Leonardo si dichiara contrario ai “raggi visuali” di Euclide: “Impossibile è che l’occhio mandi fori di sé, per li razi visuali, la virtù visiva, perché, nello suo aprire, quella prima parte che desse principio all’uscita e avessi andare all’obbietto, non lo potrebbe fare senza tempo” (Codice Ashburnham 2038, fol. 1).
Si rivolge quindi alla teoria delle “specie” e per dare giustificazione del meccanismo di penetrazione delle immagini nella pupilla, esegue esperimenti con la camera oscura, la quale però gli mostra le immagini rovesciate: “La sperienza, che mostra li obbietti mandino le loro spezie ovver similitudini intersegate dentro all’ochio nello omore albugino, si dimostra quando per alcuno picolo spiraculo rotondo penetreranno le spezie delli obbietti alluminati in abitazione forte oscura. Allora tu riceverai tale spezie in una carta bianca posta dentro a tale abitazione alquanto vicina a esso spiraculo. E vedrai tutti li predetti obbietti in essa carta colle lor proprie figure e colori; ma saran minori e fieno sottosopra, per causa della detta intersegazione”(Codice D, fol. 8r).
Il problema di “raddrizzare” le immagini lo angustiò non poco. Giunse persino ad eseguire esperienze di “cucina” anatomica abbastanza disgustosi. Infatti, per poter osservare la struttura integra dell’occhio, senza versamento dell’umor vitreo, imperturbabile consiglia di dargli una bella bollita per fare un “occhio sodo”: “Nella notomia dell’occhio, per ben vederlo dentro senza versare il suo umore, si debba mettere l’occhio intero in chiaro d’uovo e far bollire, e soda ch’ell’è, tagliar l’ovo e l’occhio a traverso acciochè la mezza parte di sotto non versi nulla” (Codice K, fol. 119r).
Nonostante tutte le sue ricerche commette il fatale errore di attribuire al cristallino la funzione di capovolgere le “specie”: “La spera vitrea [il cristallino] è messa nel mezzo dell’occhio per dirizare le spezie che si intersecano dentro allo spiracolo della papilla, acciò la destra ritorni destra e la sinistra ritorni sinistra, nella intersecazione seconda che si fa nel centro d’essa spera vitrea” (Codice D, fol. 3v).
Leonardo, sempre concentrato su ogni aspetto connesso ai meccanismi della visione, riprende gli studi di Alhazen sulla persistenza retinica delle immagini luminose. Esegue però le sue esperienze con stelle, dimostrando di essere dotato di una sensibilità retinica eccezionale: “Se l’occhio che riguarda la stella si volta con prestezza in contraria parte, li parrà che quella stella si componga in una linea curva infocata” (Codice K, fol. 120r).

Un altro campo dell’ottica che desta il suo interesse è quello della rifrazione, che, per tentare di dare una “regola”, sottopone ad esperimenti: “Per vedere come li razi solari penetran questa curvità della spera dell’aria fa fare due palle di vetro magiori due volte l’una che l’altra, e che sien più tonde che si può. Po’ le taglia per mezo e cometti l’una in l’altra e chiudi le fronti e enpi dacqua e falli passar dentro il razo solare… e guarda se tal razo si piega o s’incurva” (Codice F, fol. 33v).
Nei Codici parla più volte di lenti da occhiali e d’ingrandimento: “questo ochiale di cristallo debbe essere netto di machie e molto chiaro e da lati debbe essere grosso un’oncia d’un’oncia cioè 1/144 di braccio e sia sottile in mezo secondo la vista che lui l’à adoprare, cioè secondo la proporzione di quelli ochiali che a lui stanno bene” (Codice F, fol. 25r).
Le sue esperienze sulla rifrazione e riflessione si spingono fino a progettare delle macchine per lavorare delle superfici sferiche fino a 12 metri di raggio di curvatura (Codice Atlantico, fol. 396v f) e a realizzare specchi metallici, dei quali fornisce la ricetta della lega metallica: “Metti nella mistura rame arso, overo lo corrompi collo arsenico, ma sarà frangibile” ( sempre nel Codice Atlantico, fol. 396v f).
La seguente breve annotazione ha scatenato la fantasia di molti: “Fa ochiali da vedere la luna grande” (Codice Atlantico, fol. 190r a). Certuni (ad esempio Giorgio Abetti) pensano che Leonardo si fosse costruito un sistema a cannocchiale che si avvicinerebbe all’invenzione del riflettore newtoniano. Altri, invece (ad esempio Vasco Ronchi), ritengono che il grande artista, avendo costatato che più uno specchio è curvo, più vicini dovevano essergli posti gli oggetti per vederli ingranditi, si fosse prefisso di realizzare specchi (forse metallici) di curvatura così tenue da permettere di vedervi ingrandita la Luna.
Un passo meno noto del precedente, che tratta dello stesso argomento ma assai più in dettaglio, è contenuto nel Codice E, fol. 15v, intitolato “veder la Luna grande”: “Possibile è fare che l’ochio non vedrà le cose remote molto diminuite, come fa la prospettiva naturale, … ma l’arte che io insegno qui in margine, … dimostrerà … la Luna di maggior grandezza, e le sue macule di più nota figura. A questo nostro ochio si debba fare un vetro pieno di quell’acqua, di che si fa menzione nel 4 del libro 113 delle cose naturali [si riferisce ad uno dei tanti trattati che aveva in animo di scrivere] la quale acqua fa parere spogliate di vetro quelle cose che son congelate nelle palle del vetro cristallino”. L’apparato qui proposto da Leonardo pare più che altro un sistema deformante, simile a quanto si vede attraverso un vaso di vetro pieno dacqua.

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