È la medicina, bellezza!
Silvia Bencivelli e Daniela Ovadia
Carocci Editore, 2016
«Ho letto su Facebook che la carota, condita con l’aceto, cura il raffreddore». «Io invece non farò vaccinare i miei figli perché non voglio arricchire Big Pharma, e mi nutro di costose compresse seguendo i consigli del “medico alternativo” e del suo vicino di ombrellone». Di salute, ormai, parlano un po’ tutti, dicendo un po’di tutto. Ma la salute è un affare complicato e comunicarla correttamente significa soprattutto maneggiare la complessità. Cioè significa avere a che fare con una scienza in rapida evoluzione, definizioni non sempre granitiche, dibattiti tra scuole di pensiero, statistiche da interpretare. E una marea di interessi, economici e non soltanto. Rinunciare a questa complessità porta a riassumere il tutto in due parole: “fa bene” o “fa male”. Magari aggiungendo che “nessuno lo dice”. In realtà, qualcuno che lo dice, o che cerca di farlo, c’è: sono i giornalisti medico-scientifici. Che a quelle due parole, non sempre oneste e di certo mai esaustive, contrappongono un lavoro di ricerca e studio basato su strumenti niente affatto misteriosi. Questo libro, attraverso il racconto di storie di giornalismo e di medicina, e di bufale, ve ne propone alcuni.
Recensione
Metti un citologo di fama mondiale, come Peter Duesberg, e un premio Nobel (per la Chimica), come Kary Mullis, che negano l’esistenza di causa ed effetto tra il virus HIV e la sindrome da immunodeficienza acquisita (AIDS). Metti un epidemiologo, come John Morgan, che nega l’esistenza di un “cluster di cancro” nella zona di Hinkley, in California, inquinata da cromo esavalente perché amplia la zona di indagine da una a 140 miglia quadrate. Metti l’annuncio da parte di un professore di Nutrizione alla Cornell University e di suo figlio che vendono milioni di libri affermando che la dieta vegana previene il cancro dei cinesi. Metti autorevoli giornali che titolano in prima pagina “la carne rossa è cancerogena come il fumo”. Metti medici, case farmaceutiche e assicurazioni che inventano nuove malattie (come la calvizie), nuovi agenti patogeni, nuovi test e nuove cure senza prove convincenti. Metti anche un grande ospedale italiano che ammette alla cura malati gravi, molti i bambini, con una terapia che non ha alcun fondamento. Metti tutto questo e altro ancora e capirai «perché è difficile parlare di salute», come recita il sottotitolo del libro È la medicina, bellezza! che due medici donne e divulgatrici d’eccezione, Silvia Bencivelli e Daniela Ovadia, hanno pubblicato per l’editore Carocci.
Un libro da non perdere.
Per molti motivi. In primo luogo perché è scritto bene, con il taglio – ma dovremmo dire, con il piglio – di due giornaliste che sanno di medicina. E sanno di sapere di medicina. O, se volete, di due medici che sanno come si comunica al grande pubblico dei non esperti. No, non è davvero un caso che sia entrato nella “cinquina” del Premio Galileo.
In secondo luogo perché È la medicina, bellezza! è scritto in modo rigoroso. Sia sul piano strettamente scientifico, sia sul piano storico. Bencivelli e Ovadia ci offrono una casistica ampia – che spazia dalle malattie infettive alla prevenzione, dal rapporto tra salute e ambiente, alla medicina del futuro, dalla chirurgia alla farmacologia – della medicina e dei suoi problemi con quella leggerezza, rigore (appunto) e rapidità che Calvino non si è stancato di consigliare a chi scrive in epoca moderna. Consigli che valgono soprattutto per chi oggi scrive di scienza.
Già, perché la medicina – questo ci dicono ancora, in maniera implicita ma forte, Silvia e Daniela – è vera scienza. Una scienza complessa. Che oggi può essere finalmente approcciata come tale, senza perdere in umanità. Senza perdere di vista l’uomo.
Ciò non toglie – è la medicina, bellezza! – che la dimensione della salute sia attraversata da enormi contraddizioni. Che scaturiscono, ovviamente, dal suo essere umana: nel senso di essere attività di persone che sbagliano. In buona fede o per interesse. Accademico o economico. E sì che entrambi gli interessi – quello accademico e, soprattutto, quello economico – sono enormi. Sarebbe possibile dimostrare, anche utilizzando i numeri e le statistiche largamente e acutamente dispensate dalle due autrici, che l’economia della salute in senso stretto (medici, ospedali, farmaci, ricerca scientifica) impegnano oltre il 10% della ricchezza prodotta ogni anno al mondo. Con punte che, come negli Stati Uniti, sfiorano il 20%. Salute, cosa non si fa per te!
Eppure parlare di medicina è difficile anche per un alto motivo, forse il più profondo. La salute, infatti, non è la semplice assenza di malattie – e Dio solo sa quanto sia complessa la sola dimensione delle patologie fisiche e mentali – ma è, per dirla con l’Organizzazione Mondiale di Sanità, la (il diritto a una) condizione di benessere fisico, mentale, ambientale e sociale dell’uomo. E mettere tutti, per quanto possibile, in questa condizione – garantire a tutti il diritto a tentare di trovarsi in questa condizione – è impresa oltremodo difficile in un mondo in cui le conoscenze sono ancora limitate, le disuguaglianze in aumento e i tagli ai bilanci dei servizi sanitari pubblici sempre più incisivi.
E non è finita qui. La salute ha una dimensione sociale e culturale. Anzi è la dimensione sociale e culturale che per prima ha visto emergere una inedita e chiara domanda di diritti di cittadinanza scientifica. Che, detta in altri termini, significa domanda da parte dei cittadini non esperti di compartecipare alle scelte che riguardano la propria salute. Una domanda che ha spazzato via il vecchio rapporto paternalistico tra chi sa (il medico) e chi non sa (il cittadino, paziente o non paziente) e ne ha imposto uno nuovo, ancora da consolidare e che pertanto oscilla tra un’acerba negoziazione e una matura cooperazione.
È questa congerie senza precedenti che rende – oggi più che mai – difficile parlare di salute. Difficile – ci dicono, ci dimostrano Silvia Bencivelli e Daniela Ovadia – ma non impossibile. Al contrario è qui, cari giornalisti, che si fa la nostra nobilitate. Basta essere rigorosi come un medico (preparato nella sua disciplina ma anche in tutte le scienze, naturali e sociali). Ma evitando di diventare gli araldi dei medici (e/o degli altri attori in campo, compresi i malati). Ma soprattutto, come scrivono Bencivelli e Ovadia, tenendo sempre aperta la porta al dubbio.
Pietro Greco
giornalista scientifico e scrittore di opere scientifiche divulgative