Gli africani siamo noi.
Alle origini dell’uomo
Guido Barbujani
Editori Laterza, 2016
«Gli africani siamo noi non è uno di quei titoli che si tirano fuori per impressionare gli ingenui con un paradosso, ma è davvero la sintesi, la più onesta possibile, delle nostre frammentarie conoscenze sulle origini dell’uomo e sulla nostra vicenda evolutiva.» Non bisognerebbe affrontare le sfide del Ventunesimo secolo con l’armamentario concettuale e ideologico del Settecento, ma succede. La convivenza fra persone di provenienze diverse, portatrici di diverse esperienze, stili di vita e convinzioni, pone problemi complessi. Per una curiosa reazione, molti invocano soluzioni illusoriamente semplici – fili spinati, muri, quote di immigrati, fogli di via – rispolverando vecchissime teorie sull’insanabile differenza razziale fra popoli del nord e del sud. Questo testo cerca, al contrario, di stimolare qualche ragionamento. Prima di tutto, sulle responsabilità di molti scienziati nel fornire giustificazioni di comodo per lo schiavismo e il colonialismo; e poi su quanto le teorie della razza, che pure hanno generato sofferenze e conflitti enormi e reali, si siano rivelate irrealistiche, incoerenti e incapaci di farci comprendere la natura delle nostre differenze. Gli africani siamo noi racconta anche un po’ delle cose che abbiamo capito da quando la biologia ha abbandonato il paradigma razziale: parla di come nel nostro genoma restino tracce di lontane migrazioni preistoriche; e anche di come forme umane diverse, forse specie umane diverse, si siano succedute e abbiano coesistito, finché sessantamila anni fa i nostri antenati, partendo dall’Africa, si sono diffusi su tutto il pianeta.
Recensione
Più volte nei testi divulgativi sono comparse illustrazioni del processo evolutivo che presentano “una fila di omini di profilo, in cui si passa, tra sinistra e destra, da forme scimmiesche curve su stesse, a forme sempre più erette e dunque sempre più umane. Può sembrare logico che sia andata proprio così: da un antenato primordiale, su su fino a noi, all’umanità moderna, attraverso una serie magari lenta, ma lineare, di miglioramenti”. Eppure, si può anche pensare che nel corso dell’evoluzione che ha portato a Homo sapiens “siano comparse forme diverse, a volte più d’una nello stesso periodo con un andamento a zigzag, di modo che chi è venuto prima non debba per forza essere l’antenato di chi è venuto dopo”. Tale seconda spiegazione sembra più complicata di quella che per un certo lasso di tempo ha predominato tra gli studiosi ed è nota come concezione “multiregionale”. Questa sosteneva, in sintesi, “che negli ultimi due milioni di anni ci sia stata una sola specie umana, comprendente quindi, oltre a noi, anche Homo erectus e Neandertal”. Ma oggi sono emerse evidenze contrarie: “nel periodo fra 40000 e 30000 anni fa, in Europa si trovano solo scheletri o chiaramente neandertaliani o chiaramente moderni; scheletri o crani con caratteristiche intermedie non sono mai stati ritrovati. […] Sembra proprio che in Europa abbiano coabitato per millenni due forme umane anatomicamente distinte”. Peraltro, “i siti israeliani di Skhul e Qafzeh sono stati occupati da umani anatomicamente moderni circa 100000 anni fa, che poi sono stati rimpiazzati da neandertaliani 60000 anni fa: e chi è arrivato dopo non può essere l’antenato di chi c’era prima”.
Questo, scrive Guido Barbujani, è “un quadro con molti zigzag”. Negli ultimi 100000 anni le popolazioni arcaiche d’Europa e Asia sono state rimpiazzate da emigranti africani. Detto in breve, Out-of-Africa! Insomma, “per capire chi siamo e da dove veniamo, è soprattutto in Africa che dobbiamo cercare.” In altre parole, Gli africani siamo noi, come si intitola l’elegante e conciso libretto che Barbujani (genetista all’Università di Ferrara) ha dedicato Alle origini dell’uomo (Laterza, Roma-Bari 2016). Non è una battuta per puro gusto di paradosso: è, invece, un intelligente e meditato invito a riflettere sul complicato percorso compiuto in quei 100000 anni. “Che vita facevano i nostri antenati africani? Se la passavano male […]. Non erano in grado di produrre o di conservare il cibo, l’agricoltura l’abbiamo scoperta solo 10000 anni fa. Andavano in giro, a caccia; quando riuscivano a uccidere un animale, o a raccogliere qualche frutto o qualche tubero, mangiavano; quando non ci riuscivano, saltavano il pasto”.
Ci sono ancora scarse popolazioni che vivono in tale modo, cioè grazie a caccia e raccolta; con l’emigrazione nel Vicino Oriente è comparso un modo di vivere basato sui campi e sulle città che sostituiscono via via zone pressoché spopolate (a parte qualche Neandertal; ma di costoro “ce ne sbarazziamo molto rapidamente, dopo che qualche contatto può aver portato a incorporare pezzetti dei loro genomi nei nostri”. Questa che abbiamo tracciato nelle linee più generali è non solo un’affascinante ricostruzione delle premesse della nostra storia, ma un insieme di accorgimenti che dovrebbero consentirci una più articolata concezione delle differenze tra esseri umani. Come nel nostro più recente passato, ci riteniamo ancor oggi capaci “di distinguere [poniamo] l’asiatico medio dall’europeo medio”; ma “questi individui medi sono astrazioni e quando si passa invece a considerare le persone concrete, le cose possono cambiare parecchio”. Più precisamente, “ogni popolazione umana contiene al suo interno gran parte della diversità genetica della specie: quindi, ogni popolazione ha al suo interno anche individui molto diversi geneticamente fra loro.” Ma “ognuno di noi ha in altre parti del mondo persone che gli assomigliano più di quanto non gli assomigli magari il suo vicino di casa, anche se i suoi vicini di casa gli sono, in media, più simili di quanto lo siano persone di paesi lontani”.
La conclusione che ne trae Barbujani è chiara e netta: non ha alcun senso insistere sul concetto di razza. Non è soltanto spiacevole quel termine che ancor oggi viene impiegato talvolta “in contesti discriminatori e violenti”; è sbagliata soprattutto l’idea che lo sottende, “cioè che gli esseri umani siano fatti come i telefonini, e che conoscendone la marca possiamo prevedere come sono fatti”. In questo riallacciandosi ad alcune delle più profonde intuizioni di Charles Robert Darwin, il creatore della moderna teoria dell’evoluzione, Barbujani fornisce argomenti solidi e ben documentati per abbandonare qualsiasi “ossessione” razzistica, sapendo coniugare insieme rigore scientifico e coerenza morale. Una prova, ancora una volta, di come la pazienza del ricercatore privo di pregiudizi si possa felicemente affiancare all’impegno etico e politico.
Giulio Giorello
filosofo e epistemologo – Filosofia della Scienza Università degli Studi di Milano