Da quando negli anni ’60, Eugene M. Shoemaker compilò la prima carta geologica ufficiale di una regione della Luna, stendendo così le basi della cartografia geologica da osservazioni remote (cioè da fotografie telescopiche), i geologi planetari (oggi considerati suoi “figli”) non si sono più dati pace. Ogni corpo planetario osservabile può e deve essere descritto attraverso una carta geologica. Ma a cosa serve una carta geologica planetaria e come può essere questa affidabile se non è corroborata da dati “sul campo”, come quelli acquisiti durante una tradizionale campagna geologica terrestre?
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Cosa è una carta geologica planetaria?
Le carte geologiche planetarie sono indagini esplorative, in molti casi pionieristiche, di superfici extra-terrestri che hanno il fine di ricostruire l’evoluzione crostale degli oggetti in esame. La loro preparazione si basa principalmente sull’osservazione ed interpretazione di immagini tele-rilevate. Quando disponibili, anche altri dati come l’altimetria, l’analisi composizionale e prospezioni geofisiche possono intervenire in aiuto. Tuttavia, quello che Shoemaker ha insegnato all’alba dell’esplorazione spaziale (e dell’astrogeologia) è che, ad una scala di osservazione da regionale a globale, la sola disponibilità di fotografie da remoto è spesso sufficiente a capire l’ordine geologico degli eventi che hanno plasmato un pianeta.
Geologia planetaria
Sulle superfici planetarie gli affioramenti rocciosi sono continui e sempre esposti: mai coperti da vegetazione, né rimodellati dall’azione antropica. Le tonalità di grigio (più precisamente l‘albedo) possono indicare una natura e/o un’età diversa dei terreni, mentre la densità di craterizzazione dà indicazioni più certe sull’età relativa delle unità osservate. Sappiamo infatti che più crateri sono presenti su un’area, più antica è la superficie osservata, cioè più a lungo è rimasta esposta al bombardamento dei detriti presenti nel Sistema Solare. Se un’area limitrofa invece è estremamente liscia e intatta, sicuramente è indice di rimodellamento recente, cioè il vecchio bombardamento è stato nascosto da un evento secondario e la “nuova” superficie è rimasta esposta meno tempo agli impatti, tra l’altro decrescenti dall’origine del Sistema ad oggi.
Si prenda il caso evidente degli scuri maria lunari contro le circostanti e più chiare terrae (o highlands) ed immaginiamoci di voler riassumere ciò che vediamo ad occhio nudo con due colori. Con l’aiuto di un telescopio noteremmo che i primi sono più lisci e meno craterizzati delle seconde, sicuramente più giovani.
Mappe geologiche dei pianeti
E noteremmo anche che, effettivamente, questi si sovrappongono stratigraficamente alle terrae e che, ci sono altre unità, come ad esempio gli ejecta di alcuni crateri, che si sovrappongono a loro volta ai maria. Il principio di sovrapposizione è universale. Ciò che sta sopra è più recente, ciò che sta sotto più antico. Così, per ogni oggetto significativo aggiungiamo un colore per tenere traccia dei rapporti di sovrapposizione individuati. Ecco, quindi, che i colori della nostra carta iniziano ad aumentare raccontandoci una storia e che le intersezioni tra i molteplici colori (cioè gli eventi) aiutano a sbrogliare la complessità della storia stessa o, per meglio dire, la riassumono. Tutte le carte geologiche sono un riassunto della storia evolutiva dell’area investigata e quelle planetarie, anche se solo attraverso l’interpretazione remota, non fanno eccezione. E’ così che Shoemaker definì per la prima volta le ere geocronologiche lunari ancora in uso oggi ed il suo lavoro risultò preparatorio anche per la pianificazione dei percorsi al suolo delle missioni Apollo.
A partire dal questo numero Valentina Galluzzi ci accompagnerà nei meandri della Geologia Planetaria, disciplina che sta diventando sempre più interessante alla luce dei nuovi dati raccolti dalle molte missioni in orbita nel Sistema Solare. Per l’articolo completo pubblicato leggi Coelum 262 III bimestre 2023