Ogni notte, quando il cielo è finalmente sereno e voi uscite all’aperto per godervelo al meglio, non fate che ripetere un rito antico quanto il mondo.
Certo, qualche migliaio di anni fa gli uomini alzavano al cielo soltanto i loro occhi curiosi, e non gli specchi dei riflettori né le lenti dei rifrattori; ma il principio è sempre quello: si alza lo sguardo con lo stupore e la malinconia di chi va per mare e contempla da lontano un’isola che gli rimarrà per sempre sconosciuta.
E se le conoscenze acquisite ci consentono oggi di interpretare assai meglio la natura e i moti delle luci della volta celeste, questo non ha certo diminuito lo stupore che esse sono in grado di generare, anzi! Quel che potrà cambiare non sarà mai l’incanto, quanto piuttosto la familiarità. Per tutti noi, ad esempio, la prima falce di Luna rappresenta una complice notturna e amichevole del paesaggio celeste, ma in fondo irraggiungibile quanto la più lontana delle nebulose. Eppure, sul nostro pianeta ci sono una dozzina d’uomini che la guardano con emozioni e occhi diversi dai nostri, perché loro non si limitano a contemplarla, ma possono ricordarla. Possono riconoscerne i luoghi e dire: “Sono stato lassù”.
Nella metafora di prima, per loro è forse come guardare il mare con gli occhi di un vecchio marinaio: laddove noi ci perderemmo nella visione indistinta del mistero, gli occhi del marinaio riuscirebbero a leggere segni e segnali che a noi (che siamo “della razza di chi rimane a terra”, come scrisse Montale) resteranno per sempre negati. A noi come individui, intendiamo, perché non c’è dubbio alcuno che la nostra specie arriverà prima o poi a questa familiare consapevolezza delle strade del cielo, e molto presto (?) ci muoveremo nello spazio come un tempo si spostavano i nostri avi sulle non meno pericolose strade che univano i villaggi alle città, che apparivano ai più come lontanissime luci di un mondo inesplorato.
Forse è eccessivo ricondurre le stazioni spaziali alla stregua delle locande di campagna del tempo andato, nelle quali ci si sgranchiva le gambe per una pausa durante il viaggio a cavallo, ma a noi piace l’idea di travestire da indovinello spaziale un semplice quiz di mezzi di locomozione terrestri, quindi prestate attenzione.
Immaginate che si possano usare i mezzi pubblici per andare nello spazio, che ci sia un bellissimo Museo dell’Astronautica in orbita, ricavato da vecchi laboratori spaziali, che ci sia una “Stazione Spaziale di Posta” lungo il percorso, e che esistano due modelli di razzi di linea per arrivarci: uno veloce, che si ferma mezz’ora alla Stazione Spaziale di Posta per i rifornimenti e per consentire uno spettacolare belvedere ai viaggiatori, mentre l’altro, più lento e funzionale, si limita a sbarcare e imbarcare i passeggeri dalla Stazione in un tempo virtualmente nullo, proseguendo direttamente il suo viaggio verso il Museo.
Scegliere quale razzo sia il più adatto alla bisogna dipende certo anche dal tempo totale che uno vuol impiegare per il viaggio, e quindi è utile sapere che, se i due razzi partono assieme, il più veloce arriva alla Stazione di Posta quando il più lento ha percorso solo 24 000 chilometri, e arriverà poi a destinazione quando all’altro mancheranno ancora 5000 chilometri. In realtà, coloro che fanno il viaggio per diletto vogliono provare entrambi i razzi, e di solito giocano con le coincidenze, viaggiando sul razzo più lento nel tratto che va dalla Terra alla Stazione ma poi salendo al volo sulla navicella veloce, che in quel momento sta giusto scaldando i motori pronta a partire, per il tratto da Stazione a Museo.
A noi, quando riuscimmo a fare questo fantastico viaggio, capitò l’imprevisto; gli orari soliti erano saltati per misteriose ragioni tecniche. Quel giorno il razzo più lento partiva prima dell’altro, e dalle tabelle di marcia si capiva che entrambi i velivoli sarebbero arrivati contemporaneamente alla Stazione di Posta; poi il più veloce avrebbe comunque sostato come sempre, cosicché la navicella più lenta finì con l’arrivare al Museo un quarto d’ora prima di quella veloce.
Noi ci siamo divertiti lo stesso, anche perché al momento dell’acquisto del biglietto eravamo i soli a sapere quanto dovevamo pagare. Sulla cassa c’era scritto a caratteri di scatola solo “5 centesimi a chilometro” e sembravamo i soli a sapere con esattezza quanti Euro dovessimo estrarre dal portafoglio. Ma ormai lo sapete anche voi, vero?
Fermata d’autobus
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