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Una indagine statistica promossa dalla American Astronomical Society ha reso noto qualche anno fa che più del 73% dei suoi iscritti (astronomi, fisici, matematici, ecc…) si dichiarava appassionato di alpinismo o di montagna in genere piuttosto che di spiaggia, mare o di altri luoghi di svago.

Nessuna sorpresa… anche senza il conforto dei numeri, si è sempre intuito che tra astronomia e montagna esiste un legame nemmeno troppo misterioso, basato su quella che qualcuno ha voluto definire “una concezione gotica del paesaggio e della conoscenza”. Di questa singolare convergenza tra cielo notturno e montagna, o comunque tra la montagna e le scienze fisiche e matematiche tratta l’articolo «Gli Alpinisti di Via Panisperna: quando la montagna incontra il cielo» pubblicato su Coelum n. 150.

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Ma se i ragazzi di Via Panisperna sono il passato, il legame tra astronomia e alpinismo si conserva anche ai nostri giorni. Tanto che la nostra rivista si onora di appoggiare le sorti di una prossima spedizione sull’Himalaya a cui parteciperà l’amico Christian Denicolò che Marco Anselmi ha intervistato per noi.

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– Ciao Christian, ci dici in due parole chi sei e cosa fai nella vita?
Mi chiamo Christian Denicolò e abito in Val Gardena, dove con i miei genitori gestisco un albergo a Selva e faccio parte dei famosi “Catores” [termine ladino con cui vengono chiamate le pernici di roccia] che sono un po’ l’elite degli scalatori gardenesi. Faccio inoltre volontariato come soccorritore presso l’Aiut Alpin. Nel tempo libero vivo di montagna a 360°.

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– I Catores? Come si entra in questa cerchia di alpinisti?

Ne sono membro dal 2007 e ne vado molto fiero. Per diventare CATOR bisogna far parte innanzitutto del Soccorso Alpino Gardenese ed avere un ottimo curriculum alpinistico. Sono però i membri che già ne fanno parte a decidere se hai i requisiti per diventare uno di loro. La divisa dei CATORES è il maglione grigio (che portano tutti i soccorritori gardenesi) con il simbolo del chiodo e della corda.

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– Ma com’è nata la tua passione per l’alpinismo?
Avevo 10-12 anni quando mi è nata la voglia di vedere com’era il mondo visto dall’alto; inoltre alle Scuole Medie avevamo un bidello, Franz Runggaldier, che faceva parte dei “Catores” ed i suoi racconti mi hanno convinto che questa sarebbe stata la mia vita. Non posso negare però che un’altra figura molto importante per la mia formazione “alpina” è stato Felix, uno zio di papà, che era un appassionato di montagna e mi portava spesso con lui a fare gite, mi spiegava le cime, la fauna e la flora che ci stavano intorno. Il resto è venuto naturale: ho iniziato arrampicandomi come tutti i bambini prima sui muretti di casa, poi sugli alberi, su piccoli sassi, e col tempo cresceva in me la voglia di avvicinarmi sempre più al cielo. Passo dopo passo negli anni ho iniziato con le guide alpine a fare i primi passi nelle pareti verticali che circondano il mio paese fino a spingermi sulle più affascinanti montagne del mondo.

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– Si dice che cielo e montagna siano una cosa sola. Qual è il tuo rapporto con l’Astronomia?
Penso che qualsiasi alpinista non possa fare a meno di essere affascinato dalla volta stellata che è sempre una buona compagna nelle notti in bivacco. Non posso considerarmi un vero e proprio appassionato, ma ricordo con piacere quando da piccolo prendevo il cannocchiale da caccia di mio papà per osservare la Luna e mi perdevo nei miei pensieri.

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– Esperienze di scalate in notturna? La Luna piena sarà la benvenuta in quei casi.
Sì, infinite scalate notturne e notti passate al freddo. Soprattutto nelle montagne più alte le stelle mi hanno spesso e volentieri accompagnato durante le salite, ma non potevo stare troppo con la testa per aria. Ricordo con piacere la Luna piena sul Huascaran in Perù che ci aiutava a trovare la via tra i crepacci facilitandoci non poco il lavoro. Spesso durante i miei allenamenti notturni di scialpinismo la Luna piena oltre a offrirmi uno spettacolo incredibile mi permette di tenere la mia cara pila frontale al sicuro in tasca. Peccato che il tempo sia mutevole in montagna e una splendida nottata possa facilmente trasformarsi e diventare pessima.

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– Ho saputo che nel 1998 eri sul Kilimanjaro e a guardarti c’era un’amica “speciale”…
Nel 1998 ero al Kilimanjaro, ricordo che tra gli appassionati di Astronomia c’era molto fermento per una cometa molto luminosa che passava nei cieli in quel periodo. Posso dire che fu una buona compagna e ci portò fortuna. Più tardi seppi che la cometa si chiamava Hale-Bopp.

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L’anno scorso eri al McKinley, com’è andata?
Molto bene è stata una grandissima esperienza, senza nascondere i momenti difficili per le fatiche, il freddo, i pesi che abbiamo quotidianamente dovuto portare da un campo all’altro; ma poi ci sono state giornate anche un po’ meno dure dove siamo riusciti a godere degli straordinari panorami che avevamo davanti agli occhi che questo bellissimo ambiente ci offriva. Tra l’altro avevamo previsto di fare la salita in più giorni dei cinque che ce ne abbiamo messi , tanto che addirittura ai campi alti molti componenti di altre spedizioni ci hanno fatto i complimenti per la velocità con cui abbiamo raggiunto la cima. Nei giorni che ci rimanevano abbiamo così avuto l’occasione di vagabondare per l’Alaska.

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– Anche lì un bel regalo celeste
In Alaska in giugno il Sole non tramonta mai e noi abbiamo avuto la fortuna di raggiungere la cima intorno alle 24 di uno splendido giorno, così abbiamo potuto goderci il famoso Sole di mezzanotte da una posizione decisamente privilegiata.

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– Al ritorno al campo base una brutta sorpresa però.
Da quando eravamo arrivati il tempo era cambiato, il sole aveva alzato le temperature e si erano aperti molti crepacci che prima erano coperti dalla coltre nevosa spessa e compatta. Abbiamo faticato non poco a tornare al campo base. Un tedesco che avevamo conosciuto ci ha raccontato di essere finito 4 volte in piccoli crepacci. Molto stanchi ma felici siamo giunti finalmente al campo base salvo poi rimanere di sasso vedendo che, dove avevamo posizionato la tenda il giorno del nostro arrivo, si era aperto un crepaccio di 40 cm e profondo una trentina di metri.

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– Oltre al McKinley in Alaska nel taccuino delle tue conquiste sono segnati nomi di montagne molto importanti, come il Chimborazo in Ecuador o l’Huascaran in Perù. In settembre però tenterai il tuo primo ottomila… Un sogno che si avvera?
Tutti gli alpinisti vorrebbero tentare di raggiungere almeno una volta un Ottomila, ma non è una cosa che si possa improvvisare. Era qualche anno che avevo in mente di provare; ne avevo parlato spesso con il mio amico Karl Unterkircher, ma purtroppo i nostri sogni erano destinati a rimanere tali… Karl era già un alpinista affermato a livello internazionale quando nel 2008 nel tentativo di scalare il Nanga Parbat morì cadendo in un crepaccio.

Soltanto l’anno scorso ho ritrovato la voglia di riparlarne con il mio compaesano Willy Comploy, compagno al McKinley. Il nostro gruppo della spedizione in Alaska si era rivelato molto forte e affiatato, così abbiamo deciso di lanciarci insieme in quest’avventura.

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– Dal punto di vista logistico in cosa consiste progettare una spedizione del genere?
Dal punto di vista logistico si lavora un anno per organizzare un’impresa del genere. Tra permessi, l’organizzazione dei voli e dei trasporti in loco, c’è un sacco da fare. Per quanto riguarda la parte burocratica ci siamo appoggiati invece ad una agenzia in loco.

– L’ottomila che hai scelto è il Cho Oyu.
Sì. La “Dea Turchese”, come la chiamano gli abitanti del luogo. Con i suoi 8201 metri è la sesta più alta montagna della Terra. Si trova nell’Himalaya, al confine tra Cina e Tibet, una ventina di chilometri a ovest dell’Everest.
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– Perché proprio il Cho Oyu?
Si dice che il Cho Oyu sia l’ottomila più semplice anche se a quelle altezze e in quelle condizioni nulla può essere preso sottogamba.

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– Come ti sei allenato in questi mesi?
Dallo scorso ottobre a metà aprile mi sono allenato 3 volte alla settimana con gli sci da scialpinismo risalendo le piste della Val Gardena, facendo cime e scalando le cascate di ghiaccio. Per allenarmi alla resistenza al freddo non mi sono fatto mancare qualche bella nottata sul balcone di casa o nel bosco della Vallunga vicino a casa. Nei mesi estivi che precederanno la spedizione sarà la volta della corsa in montagna e dell’arrampicata su roccia.

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– Chi saranno i tuoi compagni?
Il gruppo sarà formato da gente con una notevole esperienza. Con me ci saranno due Catores, Willy Comploy e Klaus Malsiner. Poi due compagni del McKinley, Roland Pedevilla della Val Badia e Walter Volken dalla Svizzera. Con noi ci sarà anche Martin Planker, anche lui della Val Gardena, che negli anni Novanta ha attraversato con un amico di Parma la Groenlandia con sci e slitta.

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– Quanto durerà la spedizione e come si svolgerà l’avvicinamento al Cho Oyu?
Partiremo il 5 settembre da Milano e staremo via per 40-45 giorni. Una volta arrivati a Kathmandu dovremo sbrigare alcune formalità burocratiche, poi prenderemo un aereo per Lhasa, in Tibet. Da questa cittadina caricheremo il nostro materiale su dei fuoristrada e partiremo alla e alla volta del campo base. Il viaggio durerà 3-4 giorni e sarà sicuramente stancante. Le strade sono molto trafficate e per niente piacevoli da percorrere, spesso capita di dover scendere dai fuoristrada perché la via è ostruita da una frana, in questo caso si attende che la strada venga liberata in alternativa ci si arma di buona volontà e si porta tutto il materiale al di là del blocco sperando di trovare altri mezzi di trasporto.

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– Avete già pianificato dove mettere i campi in quota?

Il campo base sarà ad una altezza di 5000 m e il campo avanzato a 5700 m. Saranno necessari altri tre campi: il campo 1 a quota 6400 m, il campo 2 a 7200 m ed il campo 3 a 7500 m. Se tutto andrà bene l’ultimo step sarà la cima. In realtà una volta in cima saremo solo a metà del percorso perché la discesa può riservare molte insidie, soprattutto se si sono già consumate tante energie. Solo un volta tornati sani e salvi al campo base potremo rilassarci e dire di avercela fatta.

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– Quali difficoltà potrete incontrare?

Salire un 8000 comporta sempre tanti rischi sia oggettivi che soggettivi. Ci sono tante cose che devono funzionare allo stesso tempo dal punto di vista climatico quello che maggiormente potrebbe ostacolare la nostra riuscita saranno le improvvise nevicate che aumentano di molto il pericolo di valanghe nelle ore più calde della giornata e possono rendere il tracciamento della via verso la vetta estenuante. Oltre all’aspetto climatico c’è quello fisico che sarà diverso per ognuno di noi. Bisognerà acclimatarsi al meglio e avere pazienza, salire piano, bere molto e non strafare. A quelle altezze e quelle temperature il fisico è sottoposto a molti pericoli come congelamenti a mani e piedi o peggio edemi polmonari o cerebrali. Purtroppo sopra i 6000 metri non c’è la possibilità come qui da noi di essere recuperato da un elicottero in caso di difficoltà, su un ottomila il rischio è alto e se si ha la sfortuna di farsi male spesso si paga con la vita. Siamo tutti consci di questo pericolo ma non siamo dei pazzi suicidi, gli anni di esperienza ci hanno insegnato molte cose sui pericoli e sui rischi e come affrontarli, perciò sta anche a noi capire sarà l’ora di girare le scarpe e tornarsene a casa.

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– Come sarà la vita al campo base? Come si passa il tempo nei momenti di brutto tempo?

Al campo base ci si riposa nelle tende e si cerca di mangiare molto e bene in modo da acclimatarci al meglio. La prima settimana sarà la più importante per l’acclimatamento. Ovviamente speriamo che il tempo non sia brutto perché l’attesa più i giorni passano può creare tensioni e stress. Di norma il tempo al campo base si passa leggendo, chiacchierando e facendo amicizia con componenti di altre spedizioni.

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– Che attrezzature porterete con voi?

Porteremo delle tende singole per il campo base in modo che ognuno abbia della privacy e possa concentrarsi nel miglior modo. In quota utilizzeremo delle tende da 2-3 persone. Ognuno di noi avrà il tipico abbigliamento tecnico: corde, ramponi, piccozze, giacche in piumino per alta quota, scarponi appositi per l’alta quota, guanti, occhiali da ghiacciaio, mascherina passamontagna e per le salite notturne le utilissime lampade frontali. Per le emergenze avremo una camera iperbarica in caso di edema e qualche bombola d’ossigeno, ma ovviamente speriamo non ce ne sia bisogno.

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– Hai già in mente altri progetti per il futuro?

Idee ne ho tante ma cerco di starmene con i piedi per terra e concentrarmi per il momento sul Cho Oyu. Il mio primo 8000!

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– Concludiamo con un pensiero per due amici che sicuramente vi guarderanno da lassù, Walter e Karl.

Karl e Walter mi mancano molto, sia come amici che come compagni di avventure; ci avrebbero sicuramente fatto comodo i loro consigli per questa nuova sfida. Sono sicuro che da lassù ci guarderanno e faranno il tifo per noi.

Proprio come faranno tutti i lettori di Coelum, che terremo informati sul procedere della spedizione (leggi l’ultimo aggiornamento). In bocca al lupo Christian, “Berg Heil”!

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