L'equipaggio della missione STS-51-L. Dall'alto da sinistra: Ellison Onizuka,Christa McAuliffe, Gregory Jarvis, e Judith Resnik, Michael John Smith, Dick Scobee, e Ronald McNair (NASA).

La mattina del 28 gennaio 1986 la costa di Cape Canaveral, in Florida, è affollata di turisti, curiosi, appassionati. Migliaia di occhi, allineati lungo le strade,  sono puntati nella stessa direzione: la base di lancio del Kennedy Space Center da cui avverrà il lift-off.

All’accensione dei motori il silenzio è improvviso, ma dura pochissimi istanti: subito, mentre la sagoma maestosa del Challenger si alza verso il cielo per la decima volta, tra la folla si diffonde un gigantesco applauso.

L’entusiasmo dura poco: 73 secondi dopo il lancio è già finito, il silenzio cala di nuovo, improvviso, sulle strade di Cape Canaveral. La tragedia, vissuta in mondovisione, è trasmessa in diretta dalla CNN.

Il Challenger, coinvolto in quella che sulle prime sembra un’esplosione (si scoprirà dopo che la dinamica dell’incidente fu più complessa) finisce in pezzi e i resti precipitano nell’oceano, sparpagliati in un’area vasta quasi 2mila km quadrati. Per i sette membri dell’equipaggio non c’è nulla da fare. E’ il primo incidente di questa portata per il programma spaziale americano dai tempi dell’Apollo 1 nel 1967.


Più tardi verrà appunto appurato che lo Shuttle, il cui lancio era stato rinviato più volte, dal previsto 22 gennaio, per una serie di inconvenienti tecnici concatenati al maltempo, non era davvero esploso. La prima causa del disastro fu il guasto a una guarnizione (O-ring) del segmento inferiore del razzo a propellente solido, che provocò la disintegrazione del serbatoio esterno dello shuttle. Questo a sua volta ha causato il distacco della cabina dell’equipaggio, mentre i due razzi SRB continuavano separatamente a ‘volare’.

L’aspetto più terribile, appurato solo in seguito, è che almeno qualche membro dell’equipaggio doveva essere ancora vivo e cosciente dopo la rottura dello shuttle: lo dimostra l’attivazione di tre delle sette riserve di ossigeno di emergenza dei caschi degli astronauti. Ciò che invece è stato sicuramente fatale è l’impatto della cabina con l’oceano, uno schianto avvenuto a circa 333 Km/h.

La tragedia del Challenger segna una battuta d’arresto dello Space Shuttle Programme, che si ferma per oltre due anni.

Il Programma era iniziato nel 1981 con il lancio della navicellaColumbia, e per gli anni successivi era andato avanti a gonfie vele: prima l’inaugurazione del Challenger nell’83, poi delDiscovery e dell’Atlantis rispettivamente nell’84 e nell’85. Quella del 28 gennaio 1986 doveva essere la venticinquesima missione Shuttle, nome in codice STS-51L, ed era attesa con particolare trepidazione: si trattava della prima spedizione nello spazio di un civile, l’insegnante Sharon Christa McAuliffe.

Il governo americano puntava a sensibilizzare le nuove generazioni di studenti al tema dell’esplorazione del cosmo, e la McAuliffe era stata scelta tra centinaia di candidati per unirsi all’equipaggio del Challenger e dare una lezione di scienze direttamente dallo spazio.

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La perdita della navetta Challenger

Lo Space Shuttle era una macchina meravigliosa, ma complessa e pericolosa. Pensare di inviare gli uomini e le donne nello Spazio e farli rientrare sulla Terra con un gigantesco e pesantissimo “Aliante” era un miracolo della tecnica, ma comportava rischi enormi…

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La sua morte, insieme a quella del pilota Michael Smith, degli specialisti di missione Judith ResnikRonald McNair ed Ellison Onizuka e dello specialista di carico Gregory Jarvis, segna una profonda crisi nell’opinione pubblica americana. Le missioni successive vengono cancellate e inizia un biennio buio per la NASA, che oltre a indagare le cause della tragedia del Challenger deve rivedere la sua strategia nella corsa allo spazio.

Eppure l’arresto che molti si sarebbero aspettati non si verifica. Non solo: il Programma Shuttle riprende alla fine del 1988 con due lanci in soli tre mesi del Discovery e dell’Atlantis, che tornano così a superare l’atmosfera terrestre. Le missioni vanno a buon fine, altre cinque ne vengono programmate per l’anno successivo: si apre una nuova era per la conquista americana dello spazio.

Come si spiega una ripresa così rapida? Per provarci occorre fare un passo indietro, intorno alla fine degli anni ’50. Siamo in piena guerra fredda, e la rivalità tra il blocco americano e quello sovietico trova uno dei suoi culmini proprio nella corsa allo spazio.

L’URSS guadagna il record del primo satellite spedito in orbita, lo Sputnik 1, precedendo di un soffio gli USA in questa impresa. Ancora, riesce a mandare il primo uomo nello spazio, Jurij Gagarin, che oltrepassa l’atmosfera terrestre nel 1961 a bordo della capsula spaziale Vostok 1.

Di fronte a questa doppia vittoria sovietica, gli USA cominciano a investire tutte le loro energie in un progetto ancora più ciclopico: spedire un uomo sulla Luna. Traguardo che raggiungono nel 1969, con il primo passo sul nostro satellite compiuto da Armstrong eAldrin.

Ed è nello stesso anno che il Programma Space Shuttle viene concepito: la NASA apre alle industrie aerospaziali un bando per la progettazione di un “sistema di trasporto riutilizzabile”: il primo shuttle, appunto, che inizia a essere costruito negli anni ’70. Ci vorrà un altro decennio per arrivare al lancio della prima navicella, ma lo Space Shuttle Programme resta in qualche modo figlio della contrapposizione USA-URSS. Lo dimostra la reazione dell’Unione Sovietica, che poco dopo la partenza di Columbia  investe una grandissima quantità di denaro nel programma Buran, per certi versi molto simile a quello americano, anche se meno fortunato.

All’interno di questo contesto storico-politico si spiega meglio la “febbre” che accompagna la corsa allo spazio tra gli anni ’60 e ‘90: lo stesso spirito che spinge l’America a far ripartire il programma Shuttle dopo la tragedia del Challenger. Serve però un cambio di direzione. La NASA lo trova nel suo nuovo amministratore Daniel Goldin, che inaugura la politica del Faster, Better, Cheaper.

Le misure di sicurezza vengono incrementate, e allo stesso tempo i costi si riducono notevolmente: il Programma Shuttle arriva a far risparmiare fino a un terzo rispetto al budget iniziale. Questo approccio, che caratterizza la filosofia degli anni ’90 dell’agenzia spaziale americana, viene applicato con successo anche ad altri ambiziosi progetti NASA, come quello embrionale della Stazione Spaziale Internazionale.

Lo Space Shuttle Columbia, lanciato il 16 gennaio verso la Stazione Spaziale, missione STS-107, esplode sopra il Texas nella fase di rientro, il 1 febbraio 2003, uccidendo l'intero equipaggio.

All’inizio degli anni duemila la politica del Faster, Better, Cheaper viene però messa sotto accusa dopo un’altra grande tragedia che colpisce lo Shuttle: l’1 febbraio 2003, durante la missione STS-107, il Columbia esplode nella fase di rientro nell’atmosfera. Anche questa volta, i sette componenti dell’equipaggio perdono la vita.

Ma come nel caso dell’incidente del Challenger, il programma Shuttle viene soltanto sospeso. Altri due anni di pausa, poi un nuovo inizio in grande stile, con ben 22 missioni che si succedono fino al 2011. È questo l’anno di chiusura dello Space Shuttle Programme, che con luci e ombre ha contribuito a scrivere una delle più importanti pagine nell’esplorazione americana dello spazio.

135 voli, 355 uomini e 179 satelliti in 30 anni: sono questi i numeri dello Shuttle, il cui termine, cinque anni fa, non ha certo segnato la fine del sogno della NASA. L’era del “post-Shuttle” si è infatti aperta coi nuovi progetti di Space Transport, portando con sé una grandissima eredità in termini di scoperte scientifiche e tecnologiche. Eredità che, tra l’altro, riguarda anche il trasporto cargo. E che proprio oggi, nel trentennale dalla tragedia del Challenger, la NASA celebra con una giornata dedicata a quanti hanno perso la vita nella causa dell’esplorazione umana del cosmo.

Ma con uno sguardo sempre rivolto al futuro: è attualmente aperto il bando per la ricerca di nuovi astronauti, che saranno selezionati a partire dalla metà di febbraio. Primo obiettivo, Marte: la nuova grande sfida della NASA, che continua a portare avanti la sua missione di esplorazione del cosmo nonostante episodi come la tragedia del Challenger.

O forse proprio per questo.

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