A ritrovarsi per una selva oscura, negli anni a ridosso del 1300, non fu soltanto il Sommo Poeta: anche alla supergigante rossa Betelgeuse capitò una disavventura analoga. Trovandosi a poco più di 700 anni luce da noi, gli effetti li abbiamo potuti apprezzare solo tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020, quando la luminosità dell’imponente regina scarlatta della costellazione d’Orione è andata via via affievolendosi – fino a toccare il minimo attorno a metà febbraio, suscitando aspettative per una possibile esplosione – per poi ritornare ai livelli di sempre già nel mese di aprile. E, come per Dante, anche per Betelgeuse il buio che l’avvolse ebbe origine anzitutto dentro di sé.
Per capire cosa le sia accaduto, il telescopio spaziale Hubble si è affidato a una guida spettrale – la riga del magnesio ionizzato – seguendone le tracce in ultravioletto. Ecco dunque una breve cronistoria dell’inverno di Betelgeuse. Da settembre a novembre 2019, un’enorme massa di plasma ultracaldo si è sollevata dalla superficie della stella per dirigersi verso la sua atmosfera esterna. Ivi giunta ha continuato a viaggiare, per milioni di chilometri. Allontanandosi, il plasma si è raffreddato, e raffreddandosi si è mutato in polvere. Ed è stata proprio quest’immensa nube di polvere a oscurare per mesi – fino a un terzo della sua luminosità normale – la supergigante rossa, rendendola quasi irriconoscibile. Questa, almeno, è la ricostruzione proposta da uno studio guidato da Andrea Dupree, astrofisica del Center for Astrophysics di Harvard e Smithsonian, in uscita su The Astrophysical Journal.
«Con Hubble abbiamo osservato il materiale mentre abbandonava la superficie visibile della stella e si allontanava attraverso la sua atmosfera, prima che si formasse la polvere che l’ha oscurata», spiega Dupree. «Abbiamo così potuto vedere l’effetto di una regione densa e calda che dal lembo sudest della stella si sposta verso l’esterno. Era materiale da due a quattro volte più luminoso della normale luminosità della stella. Poi, circa un mese dopo, l’emisfero meridionale di Betelgeuse si è oscurato in modo evidente, man mano che la stella appariva più debole. Pensiamo sia possibile che l’emissione rilevata da Hubble abbia prodotto una nube scura. Solo Hubble ci fornisce una prova di ciò che ha portato all’oscuramento».
Va ricordato che Dupree e colleghi tenevano sott’occhio Betelgeuse da ben prima che si verificasse il drammatico calo di luminosità: le prime osservazioni, compiute nell’ambito di uno studio triennale per monitorare le variazioni nell’atmosfera esterna della stella, risalgono a inizio 2019.
Fondamentale è stata la sensibilità del telescopio alla luce ultravioletta, che ha permesso ai ricercatori di sondare gli strati al di sopra della superficie della stella, troppo caldi per essere rilevati in banda ottica. Strati riscaldati in parte dalle celle di convezione della stella che ribollono in superficie, e probabilmente all’origine dell’imponente emissione di plasma.
«La risoluzione spaziale di una superficie stellare è possibile solo in casi favorevoli e solo con la migliore attrezzatura disponibile», sottolinea Klaus Strassmeier del Leibniz Institute for Astrophysics Potsdam, in Germania, riferendosi sia alla capacità di Hubble di ricostruire in dettaglio gli spostamenti del plasma sia al fatto che la supergigante rossa si è dimostrata un soggetto ideale per questo tipo di osservazioni. «Da questo punto di vista, Betelgeuse e Hubble sono fatti l’uno per l’altra».
Nel frattempo, la campagna osservativa va avanti. O meglio: per ora è in pausa forzata, poiché Betelgeuse è ancora troppo vicina al Sole, ma riprenderà al più tardi a inizio settembre – quando Hubble tornerà a riveder la stella.
Per saperne di più:
- Leggi il preprint dell’articolo in uscita su The Astrophysical Journal “Spatially Resolved Ultraviolet Spectroscopy of the Great Dimming of Betelgeuse”, di Andrea K. Dupree, Klaus G. Strassmeier, Lynn D. Matthews, Han Uitenbroek, Thomas Calderwood, Thomas Granzer, Edward F Guinan, Reimar Leike, Miguel Montargès, Anita M. S. Richards, Richard Wasatonic e Michael Weber
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