Tra i numerosi appassionati che rivolgono le lor attenzioni allo studio della volta celeste e, in particolare delle costellazioni, molti sapranno come l’area circostante il polo australe è intrisa da un gran numero di tali figure che, per la bassa luminosità delle stelle che le delineano, risultano poco appariscenti: per questo motivo, oltre che per il fatto di essere invisibili alle nostre latitudini medio-settentrionali, figure quali Mensa, Volans … Chamaleon (ed altre che potremmo ancora elencare) risultano, spesso e volentieri, lontane dalle attenzioni dei più.

Traendo spunto da questa considerazione, potremmo lecitamente chiedere a qualche esperto stargazer se anche nei cieli più settentrionali, quelli prossimi al polo nord celeste, esista qualche costellazione che funga da controparte alle oscure costellazioni australi sopra accennate. Facendo una rapida rassegna mentale ed andando per esclusione, quasi sicuramente una eventuale risposta andrebbe a citare le arcinote Ursa Minor e Major, Cepheus, Draco e Cassiopeia che però ben sappiamo contenere astri più o meno noti, certamente ben visibili ad occhio nudo, disseminati qua e la all’interno degli ampi spazi occupati da tali costellazioni.

All’attenzione dei più attenti, però, risulterà sicuramente un’area molto ampia, situata tra Ursa Minor, Ursa Major, Perseus e Auriga la quale, a tutti gli effetti, risulta spoglia di astri di una certa luminosità. C’è qualcosa lì, in quella zona, che sfugge alla memoria? La risposta è affermativa. Un veloce sguardo ad un atlante celeste mostrerà la presenza di un’area tutt’altro che uniforme, larga a sud tra Ursa Major, Auriga, Perseus e Cassiopeia, che a mo’ di cono di bottiglia si restringe spingendosi fin presso Polaris, popolata da quelle che nell’era dell’inquinamento luminoso, potremmo tranquillamente definire quali “deboli stelle”; le più appariscenti di queste formano, a tutti gli effetti, una costellazione poco conosciuta anche alle nostre latitudini e spesso trascurata da chi si accinge a compiere le prime osservazioni o riprese fotografiche nella volta celeste. Parliamo di Camelopardus, più nota in lingua italiana come Giraffa.

NELLA STORIA

La propensione dell’essere umano è, in qualche modo, quella di colmare il “vuoto”, sia esso interiore che nella vita di tutti i giorni. A questo, non sfuggirono neanche i cartografi celesti europei di qualche secolo fa i quali avviarono, soprattutto dopo la riscoperta dell’Almagesto tolemaico, la moda di riempire gli spazi vuoti esistenti tra le costellazioni descritte dall’astronomo alessandrino. Anche questa, era a tutti gli effetti, una sorta di atto liberatorio da quei dogmi religiosi, all’epoca ancora esistenti, che descrivevano il cielo come intoccabile oltre che statico. Una vera (pur inconsapevole) rivoluzione nacque, come detto, tra quei geografi ed astronomi che per assicurarsi i favori (e i soldi) dell’uno o dell’altro regnante dell’epoca, iniziarono a disegnare mappe e globi celesti che ritraevano la loro personale visione del cielo, con l’aggiunta ora di questa, ora di quell’altra figura tra le altre disegnate precedentemente da Tolomeo. C’è da dire che alcuni di questi cartografi lavorarono più seriamente, cercando di rappresentare, con le sole informazioni recepite da chi si apprestava a circumnavigare il mondo o andando ad esplorare nuove “terre incognite”, il cielo meridionale che solo da poco veniva osservato per la prima volta.

In tale contesto ritroviamo l’astronomo e cartografo fiammingo Pieter Platevoet (1552-1622) che, da pastore della Chiesa Riformista olandese, ebbe successivamente il suo nome latinizzato in Petrus Plancius. Nel 1585, a causa del timore suscitato dalle persecuzioni religiose indette dall’Inquisizione, si trasferì da Bruxelles ad Amsterdam. Nella capitale olandese, grazie alla fortuna di aver avuto accesso alle carte nautiche portate di recente dal Portogallo, Plancius iniziò ad interessarsi di navigazione e cartografia divenendo, tra le altre cose, grande esperto di rotte nautiche e introducendo, per la prima volta, la proiezione di Mercatore nelle mappe nautiche. La propensione di Plancius verso la geografia e l’esplorazione lo portarono, nel 1595, a chiedere a Pieter Dirkszoon Keyser, pilota della nave Hollandia, di effettuare alcune osservazioni della zona attorno al polo sud celeste, ancora ignota e quindi prima di stelle e riferimenti in molte delle carte europee del cielo australe all’epoca prodotte. Il catalogo che Keyser redasse con 135 stelle arrivò nelle mani di Plancius nonostante la morte del pilota, avvenuta a Giava solo l’anno successivo alla partenza; ad aiutare Keyser alla stesura del catalogo nonché ad ultimarlo fu quasi sicuramente l’esploratore Frederick de Houtman (…chissà quali emozioni avranno avuto questi primi esploratori dei cieli australi ad ammirare quel turbinio di stelle luminose e sconosciute, restando ammaliati dal maestoso aspetto della Via Lattea, delle sue nubi oscure, delle nubi di Magellano…).

Quando oggi, aprendo un libro sulle costellazioni o un atlante celeste del cielo meridionale, guardiamo incuriositi nomi quali Dorado, Chamaleon, Phoenix, Grus, Tucana, sognando di poter essere lì, in qualche deserto, a toccare per mano queste plaghe celesti spinti dalla voglia di conoscere, lo dobbiamo proprio a Plancius: fu lui, infatti a disegnare 12 nuove costellazioni con i dati che egli ricevette a seguito della sua richiesta. Le stesse vennero, tra l’altro, utilizzate dall’astronomo tedesco John Bayer nella composizione della famosa Uranometria, forse il più noto atlante celeste di tutti i tempi. Qualche anno più tardi, Plancius applicò anche alla parte più boreale del cielo la precisa volontà di disegnare nuove costellazioni, utilizzando stelle certamente meno luminose di quelle che delineavano le più note figure create da Tolomeo. Fu proprio così che per la prima volta, su un globo celeste di 26,5 cm di diametro, il cartografo fiammingo inserì 8 nuove costellazioni: Apis, Camelopardus, Cancer Minor, Euphrates, Tigris, Jordanis, Gallus, Monoceros e la più meridionale Sagitta Australis. Nomi che quasi sicuramente il lettore non avrà mai sentito a parte le uniche due sopravvissute di queste costellazioni: Columba, aggiunta nel 1624, Monoceros e, per l’appunto, Camelopardus.

Quale strano nome! A ben pensarci, pur in latino, è evidente come esso sia composto da due differenti nomi: camel (il cammello) e pardus (il leopardo). Certamente, non esiste nella realtà un simile animale; trattasi, quindi, di un altro essere leggendario, da accostare a Hydra o Monoceros? Assolutamente no ma certamente molta confusione emerse, in passato, su tale termine. Sebbene nessuna delle prime rappresentazioni mostri tale figura come un cammello, l’astrofilo e naturalista americano Richard Hinckley Allen (1838-1908) riportò che fosse stato l’astronomo tedesco Jakob Bartsch (1600 ca-1633) ad attribuire – secondo lui, in modo piuttosto sommario – tale nome indicando trattarsi del cammello di biblica tradizione che portò Rebecca da Isacco. Se è pur vero che le conoscenze zoologiche del Bartsch non fossero corrette, d’altro canto la sua errata interpretazione può essere giustificata dal fatto che in antichità il nome della giraffa, simile ad un cammello dal pelo maculato come quello di un leopardo, fosse davvero cammello-leopardo: Camelopardus, per l’appunto. Nella sua opera Usus astronomicus planisphaerii stellati (1624), Bartsch descrisse effettivamente un cammello, attribuendone l’introduzione all’astronomo Isaac Habrecht II (1589-1633).

Allen si chiese se tale cambiamento poteva spiegare il motivo per il quale l’astronomo inglese Richard Anthony Proctor (1837-1888) cambiò, a sua volta, il nome della costellazione da Camelopardus, ormai in uso, nel più semplice Camelus, sottolineando come in tal modo la costellazione in questione fosse stata denominata nell’edizione del 1894 del noto l’Astronomie Populaire di Camille Flammarion, unica opera del XIX secolo ad adottare tale cambio di nome. Di certo, un bel po’di confusione in più per questa povera giraffa celeste, già costretta a roteare attorno al polo nord celeste!

L’area celeste dove venne alloggiato Cameloparus era evidentemente destinata a mancare di serenità, dal momento in cui nell’atlante celeste La Théorie des comètes, pubblicato nel 1743 dall’astronomo e geofisico francese Pierre Charles Le Monnier (1715-1799), fece comparsa una nuova costellazione: Rangifer (la renna), situata tra Camelopardus, Cassiopeia e Cepheus. Il motivo risiede in una dedica fatta al suo amico Pierre-Louis Moreau de Maupertuis, astronomo e naturalista che venne commissionato di condurre una spedizione scientifica nelle fredde terre della Lapponia al fine di studiare la forma della Terra; al fine di ringraziarlo per il lavoro scientifico compiuto, Le Monnier decise di attribuire a quelle “stellucce” così settentrionali la figura di un animale che rappresentasse il freddo e la desolazione di terre nordiche quali la Lapponia, la Siberia o il Nord-America: per l’appunto, una renna. Ben presto, i cartografi del XIX secolo iniziarono a non considerare tale costellazione, rappresentandone unicamente le stelle che a queste erano state attribuite ma senza più indicare tale figura; in una delle ultime apparizioni, anche a Rangifer venne applicato un nome diverso, comparendo nel Astronomy By Observation di Eliza A. Bowen (1888) come Tarandus; l’ultima e definitiva apparizione di Rangifer in un atlante celeste risale al 1899, dove viene nominato tale nel Celestial Handbook scritto dai fratelli Poole.

Ancora più bizzarra la storia di un’altra costellazione che, per un breve periodo, esistette nella plaga celeste oggi occupata da Camelopardalis ed ebbe anche una certa notorietà. Nel 1775, infatti, in un globo celeste prodotto da un altro astronomo francese, Joseph Jérôme Lefrançois de Lalande (1732-1807), fece comparsa Custos Messium (il custode delle messi). Nel 1824, l’astronomo Jacob Green spiegò come Lalande creò questa nuova figura in onore del suo amico Charles Messier, astronomo che scoprì un gran numero di comete dai cieli parigini e che compilò il più noto catalogo di oggetti del profondo cielo, che ne porta il nome.

L’idea che Lalande ebbe fu probabilmente di natura goliardica dal momento in cui il nome latino della costellazione è chiara allusione alla traduzione in lingua francese dello stesso: esattamente, Messier. Secondo l’astronomo Allen, il reale motivo dell’esistenza di Custos Messium andava addirittura ricercato nell’antica cultura fenicia; a suo dire, nella stessa area celeste, il popolo di grandi navigatori vi avrebbe visto la figura di un … campo di grano! Da aggiungere a questo, il fatto che figure di guardiani come Bootes venivano attribuite alla salvaguardia di beni come, per l’appunto, il grano o animali da allevamento. In qualche modo, anche Custos Messium avrebbe svolto una simile funzione; forse per questa relazione certamente importante, Custos Messium resistette per un secolo dopo la sua prima apparizione; l’ultima di queste avvenne nel 1877, quando il noto astrofilo inglese George F. Chambers citò Custos Messium, senza riferirsi direttamente ad esso, nel suo A Handbook of Descriptive and Practical Astronomy: “Lalande pose il nome di Messier nei cieli formando una nuova costellazione in suo onore nei pressi di Tarandus”.

ASPETTO E VISIBILITA’

Estesa per 757° quadrati, 18a in ordine di ampiezza tra le 88 costellazioni che popolano l’intera volta celeste, l’area occupata da Camelopardus raggiunge la massima larghezza nella parte meridionale per poi, come già accennato, salire verso il polo nord celeste restringendosi, laddove va ad inoltrarsi tra Ursa Minor e Bootes. Circumpolare alle nostre latitudini, comprende più di una quarantina di stelle con luminosità apparente entro la magnitudine 5,5. Bisogna dirlo: anche se non esiste alcuna standardizzazione attuata dall’Unione Astronomia Internazionale per la definizione delle linee stilizzate atte a rappresentare le costellazioni, la disposizione di questi deboli astri quale solitamente rappresentata in letteratura lascia davvero intravvedere, se dotati di sufficiente fantasia, i tratti di un animale dal lungo collo quale è una giraffa; tuttavia, è pur vero che tale cosa riesce più facilmente su una mappa stellare che all’atto pratico osservando la medesima area in cielo!

Ad ogni modo, il segmento composto dal trio β Cam, α Cam e γ Cam delinea una delle zampe anteriori dell’animale; quella posteriore dalla vicina coppia HD21389 a sud e HD21291 poco a nord, dalla cui ultima parte una spezzata verso nord che, passando prima per HD23475 incontra, poco sopra, la già citata γ Cam. Da quest’ultima parte un lungo segmento di stelle diretto poco al di sotto di Polaris, che delineano il lungo collo della giraffa: nell’ordine, HD33564, HD55966 ed HD89571, che segna la nuca della giraffa. Infine, il piccolo e poco appariscente triangolo formato da quest’ultima assieme alle vicine HD90089 e HD112028 ne segna la testa. Avvolgendosi strettamente attorno al polo nord celeste, Camelopardus si estende addirittura tra 3h e 14h di Ascensione Retta (!) e salendo da +53° a +85° in Declinazione. La prima parte che qui andremo a descrivere, quella meridionale, situata a ridosso del confine con Perseus e Auriga, raggiunge il meridiano alla mezzanotte di fine dicembre. E proprio quest’area è attraversata dalla Via Lattea, che la arricchisce di un gran numero di interessanti stelle ed oggetti che andremo a conoscere. A proposito della nostra galassia, numerose stelle tra quelle stagliate in questa zona sono molto, molto lontane dal Sistema Solare: verso quella direzione, infatti, si osservano alcune stelle situate ben al di fuori del locale braccio galattico di Orione. Iniziamo, quindi, il nostro tour all’interno di Camelopardus dalla sua parte più meridionale, attraverso il quale avremo modo di visitare e conoscere stelle ed intriganti oggetti del profondo cielo, la maggior parte dei quali davvero poco o per nulla noti ai più.

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