Nell’aprile 2016, un folto gruppo internazionale di astrofisici stava osservando con il telescopio spaziale Hubble l’evoluzione di una lontana supernova, soprannominata Refsdal in onore dell’astronomo norvegese Sjur Refsdal. Refsdal è stato un pioniere dello studio delle lenti gravitazionali, ovvero dell’effetto di deviazione indotto da una massa molto grande sul fascio di luce proveniente da una fonte retrostante rispetto al punto di vista terrestre; naturalmente la supernova a lui dedicata subisce esattamente questo effetto, a causa della deflessione della luce prodotta da un gigantesco ammasso di galassie frapposto.
Con grande sorpresa degli astronomi, nelle osservazioni Hubble di maggio 2016 accanto alla supernova si è materializzata una stellina. «Così come quella della supernova Refsdal, la luce di questa stella risulta intensificata, rendendola visibile da Hubble benché così lontana», spiega il team leader Patrick Kelly dell’Università del Minnesota. «Questa stella si trova infatti almeno 100 volte più lontano rispetto a qualunque stella che possiamo studiare individualmente, fatta naturalmente eccezione per le esplosioni di supernova».
Credit: ESA/Hubble, M. Kornmesser
La luce proveniente dalla stella appena scoperta, chiamata Lensed Star 1 (LS1), è stata emessa quando l’universo aveva solo circa il 30 per cento della sua età attuale, circa 4.4 miliardi di anni dopo il Big Bang. L’osservazione con Hubble è stata possibile solo grazie a un doppio effetto di ingrandimento che ha intensificato la luce della stella di duemila volte.
Lensed Star 1 è divenuta sufficientemente luminosa per Hubble sia a causa del fenomeno di lente gravitazionale esercitato dall’intero ammasso di galassie MACS J1149-2223, sia grazie all’effetto di cosiddetta micro-lente indotto da un oggetto compatto – dalla massa pari a circa tre volte quella del Sole – presente all’interno dell’ammasso di galassie.
L’oggetto compatto può essere una normale stella, una stella di neutroni oppure un buco nero di dimensioni stellari. Lo studio della luce proveniente da LS1 permetterà, secondo gli autori dello studio, di conoscere meglio la composizione degli ammassi di galassie e, in particolare, dei loro costituenti più sfuggenti.
«Se la materia oscura è almeno parzialmente composta da buchi neri di massa relativamente bassa, com’è stato recentemente proposto, dovremmo essere in grado di trovare un’evidenza di questo nella curva di luce di LS1», commenta Kelly. «In realtà, le nostre osservazioni non avallano la possibilità che un’alta frazione di materia oscura sia costituita da questi buchi neri primordiali di circa 30 masse solari».
Basandosi sulle analisi spettrali, gli autori del nuovo studio ritengono che LS1 sia una stella supergigante di tipo B. Queste stelle sono estremamente luminose e di colore blu, con una temperatura superficiale compresa tra 11mila e 14mila gradi Celsius, circa il doppio del Sole.
Allo studio “Extreme magnification of an individual star at redshift 1.5 by a galaxy-cluster lens”, appena pubblicato su Nature Astronomy, hanno partecipato anche gli italiani Claudio Grillo dell’Università di Milano, Mario Nonino dell’Inaf di Trieste e Piero Rosati dell’Università di Ferrara.
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