Una lunga fila di accademici, studenti e appassionati si snoda nel Cortile Antico del Palazzo del Bo. Uno strano rumore di fondo riecheggia sotto il porticato: il suono sordo e vibrato dell’universo, trasmesso dagli altoparlanti. Il centro del cortile è occupato da un’ampia sfera di metallo, che nell’imbrunire si copre di freddi riflessi violacei. È un tethered satellite, ovvero – così viene definito nei pannelli esplicativi – un satellite al guinzaglio.
Per capire a chi sia venuta la curiosa idea di portare a spasso un satellite e quali implicazioni questo progetto abbia avuto, seguiamo la coda e raggiungiamo l’Aula Magna, dove due astronauti, Franco Malerba e Umberto Guidoni, illustreranno le loro esperienze con quella rotonda struttura d’acciaio.
L’evento “L’eredità scientifica di Bepi Colombo” si tiene in occasione di “Science 4 All – la festa delle scienze a Padova”, ed è organizzato dall’Università. A introdurre il dibattito nella sala degli stemmi è il professor Lorenzini, che traccia a grandi linee il ritratto di Giuseppe Colombo, detto Bepi: matematico, fisico, astronomo e ingegnere padovano. Visionario e anticipatore, Bepi ha compiuto studi pionieristici, contribuendo attivamente alla storia delle esplorazioni spaziali.
Nato a Padova nel 1920 e laureatosi nella città del Santo nel 1944, lo studioso ha collaborato con l’Harvard College Observatory, lo Smithsonian Astrophysical Observatory, il Massachusetts Institute of Technology, l’Agenzia Spaziale Italiana e il Jet Propulsion Laboratory della NASA, per la quale ha realizzato alcuni importanti progetti negli anni sessanta e settanta.
Bepi Colombo – nel ritratto che ne viene fatto – era uomo dedito alla ricerca scientifica per vocazione e non soltanto per ragioni professionali, ricco di inventiva e curioso per natura, in grado di cogliere nuovi spunti e nuove sfide e capace di inventare un altrettanto nuovo modo di intendere l’universo.
“Mi devo occupare di un gasdotto..” si racconta che abbia detto in un’occasione.
“Ma stiamo parlando di sonde che vanno nello spazio..” ha obiettato il suo interlocutore.
“Ma lo spazio è molto semplice, è la terra che è complicata!” ha risposto lui.
Bepi Colombo era dunque dell’avviso che lo spazio dovesse essere interpretato senza alcuna sovrastruttura mentale: che fosse necessario, innanzi tutto, concepire l’universo con una mente libera e aperta. Questo ha consentito allo studioso di sviluppare una serie di originali innovazioni.
Tra le più note, l’dea di sfruttare la propulsione gravitazionale (assist gravitazionale o effetto fionda) del pianeta Venere per effettuare molteplici sorvoli di Mercurio. Grazie ai calcoli di meccanica orbitale di Bepi Colombo, la sonda Mariner 10 ha compiuto infatti ben tre fly-by del piccolo corpo celeste nel 1974-75. Tale intuizione è stata oggetto di un encomio da parte del New York Times e risulta tutt’oggi una manovra sfruttata ampiamente nelle missioni spaziali.
Bepi Colombo aveva inoltre teorizzato l’utilizzo una grande vela capace di catturare il vento solare e di utilizzarlo come sistema propulsivo. Lo straordinario aquilone a energia rinnovabile, che oggi porta il nome di Advanced Composite Solar Sail System, è stato costruito di recente e si è librato nello spazio la scorsa estate.
Alla conferenza di Parigi – racconta ancora il professor Lorenzini – Bepi Colombo ha proposto la realizzazione di una stazione spaziale i cui moduli fossero costituiti dai serbatoi esausti dello Space Shuttle. Il progetto non si è concretizzato – o per lo meno non ancora – forse proprio per la sua estrema semplicità e lo scarso interesse economico che avrebbe generato nei potenziali investitori.
Il matematico ha partecipato inoltre alle indagini per il lancio della sonda Giotto, che nel 1986 – due anni dopo la sua morte – ha raggiunto la cometa di Halley. Il nome dello strumento, suggerito dallo stesso Colombo, è un omaggio alla Cappella degli Scrovegni, in cui appare la prima raffigurazione di una cometa nell’affresco dell’Adorazione dei Magi.
Ulteriori studi hanno riguardato un’altra sonda che avrebbe dovuto raggiungere il sole per poi disintegrarsi – “Una sonda kamikaze!” dice il professor Lorenzini – e i calcoli per la missione Galileo su Giove (anche in questo caso il nome del dispositivo è un tributo alla città di Padova).
Bepi Colombo, per la sua capacità di anticipare i tempi, ha stupito addirittura gli americani. “Generava un fiume di idee che partiva dal sistema solare e finiva con un’apparecchiatura in grado di arginare l’acqua alta di Venezia” ha detto una volta di lui Irwin I. Shapiro, astrofisico dell’Università di Harward.
L’invenzione più nota di Bepi Colombo tuttavia l’abbiamo ammirata proprio nel Cortile Antico, prima di entrare in Aula Magna: il tethered satellite. Un’idea concepita inizialmente dall’agenzia spaziale russa, e mai portata a compimento, prevedeva, nel modello del ricercatore padovano, un sistema elettrodinamico (il Tethered Satellite System, o TSS) che collegava un satellite allo Shuttle con un cavo di circa 20 km. Il dispositivo era da utilizzarsi per le rilevazioni atmosferiche ed è valso a Colombo la medaglia d’oro della NASA nel 1983.
A parlarci delle missioni in cui questo satellite a filo è stato utilizzato sono gli astronauti Franco Malerba e Umberto Guidoni, con i quali si apre una vivace tavola rotonda. A prendere la parola è il primo tra i due, allegro e concitato nel suo desiderio di raccontare: la voce dell’uomo ha toni di fiaba e lascia l’uditorio in un meraviglioso silenzio siderale.
Malerba, primo membro dell’ASI a compiere una missione spaziale, descrive la sua esperienza con il Tethered Satellite System nel corso della missione STS-46 del 1992. L’uomo descrive il gigantesco rocchetto alla base del sistema di collegamento: una bobina su cui erano avvolti i 20 km di cavo, la cui struttura era composta da filo con conduttore CU, calza Kevlar e isolante in Nomex.
Una sorta di cannone a bordo dello Shuttle – un diodo che emetteva elettroni – e il cavo del satellite costituivano un circuito in grado di chiudersi “non si sa come, spiraleggiando” – così racconta Malerba – nello spazio. Questo avrebbe permesso di produrre onde elettromagnetiche che gli scienziati sarebbero stati in grado di captare in una stazione alle isole Canarie. Il modello aveva visto la collaborazione dello scienziato padovano con l’ingegnere aerospaziale Mario Grossi, che sperava di trovare nel circuito un modo di sopperire alle difficoltà di comunicazione dei sottomarini. Tramite l’utilizzo di un’antenna in orbita geostazionaria, l’ingegnere aveva infatti ipotizzato di poter rendere più efficaci le trasmissioni radio sott’acqua.
La missione STS-46, tuttavia, non procede come sperato. Racconta Franco Malerba che la prima fase della procedura avviene senza intoppi: il satellite è sollevato su una torre che si innalza dalla stiva dello Shuttle e nella prima fase si ha quasi un lancio nominale della grossa sfera, ma a 256 metri il filo oscilla e si blocca. La situazione è delicata. A Cape Canaveral, il Mission Control Center sta valutando, all’insaputa degli astronauti, di chiedere loro di tagliare il filo. Sullo Space Shuttle Atlantis, nel frattempo, riescono a manovrarlo, ma nonostante i tentativi non è possibile portare a termine l’esperimento. A bordo la telescrivente stampa un messaggio che giungerà amaro agli occhi degli astronauti: il piano di volo è stato rivisto e la timeline di rientro sulla terra anticipata.
“Perché si è inceppato il filo?” chiede Malerba all’uditorio, sgranando gli occhi come deve aver fatto allora. “È stato l’albero a camme che ha creato problemi al tamburo. Naturalmente il Mission Control aveva più dati di noi,” continua Malerba “ma una volta rientrati abbiamo scoperto che la responsabilità era di chi aveva costruito il deployer”. Il fatto ha rischiato di causare un incidente diplomatico, a suo dire, quando gli americani hanno dovuto ammettere che la responsabilità del guasto era loro.
La missione di Umberto Guidoni, la STS-75, sullo Shuttle Columbia, ha avuto anch’essa un esito potenzialmente pericoloso. Per la seconda volta il sistema sembra funzionare alla perfezione: il portello della stiva si apre, la torre di dodici metri – “Dodici metri” precisa Guidoni “perché deve essere più alta della coda dello Shuttle” – si alza e sgancia la sfera.
“Il satellite – dice l’astronauta – viene azionato dapprima attivando dei piccoli razzi e soltanto in seguito il cavo viene rilasciato, in un primo momento molto lentamente e poi con maggiore velocità. A un chilometro dalla fine dell’operazione il filo si incurva, ed è a questo punto che succede il disastro”.
Sullo schermo del salone del Bo appare la fotografia del satellite che galleggia nel vuoto, con il cavo flesso. Umberto Guidoni non assiste alla rottura del filo, perché in quel momento sta dormendo: sono infatti due le squadre che si alternano nell’operazione, e la sua sta rispettando il turno di riposo.
“Il tether è rotto in zona boom,” ricorda Guidoni “dice di Jeffrey A. Hoffman. La situazione è rischiosa perché il cavo può cadere addosso allo Shuttle, così rischiosa che durante le esercitazioni ci eravamo preparati a togliere l’orbiter da sotto il filo rotto”.
La causa del problema, secondo Guidoni, è stata la scarsa considerazione di alcuni aspetti fondamentali: la presenza di una carica elettrica troppo elevata – 3500 volt – vicina allo Shuttle e di gas emessi dai propulsori della navetta. I due elementi, combinati con una frattura di piccole dimensioni nella guaina isolante del cavo hanno generato una scarica elettrica che lo ha tranciato.
Dapprima l’equipaggio sembrerebbe voler recuperare il satellite e il cavo perso, ma la manovra, difficilmente realizzabile, viene accantonata. Questa avventura, che è parte di una delle missioni più lunghe dello Space Shuttle, si conclude, nelle parole di Guidoni con un messaggio della telescrivente di bordo. Cape Canaveral, molti chilometri più in basso, invita l’equipaggio deluso a sorridere prima della diretta TV. “Please, smile!” è stampato sul rotolo della telescrivente, ma gli astronauti, inutile dirlo, hanno la luna. La scienza è fatta di prove ed errori e sulla strada che porta alle stelle spesso si arriva inciampando.
Malerba e Guidoni rispondono alle domande del pubblico, che li interroga sull’adattamento del corpo umano in assenza di gravità, sullo stress durante la missione, sulle emozioni che hanno provato guardando la terra dallo spazio. Malerba descrive le violente vibrazioni dello Shuttle in fase di decollo e l’amicizia e la coesione interculturale che sono nate a bordo; Guidoni parla dell’atterraggio e racconta di aver portato con sé il libro “Ascensore per il paradiso” di Arthur Clark, che rappresenta “un ponte tra la realtà e la fantasia”.
“Mi dispiace se mie domande divagano dal tema principale,” interviene uno dei presenti “ma non ho mai parlato con qualcuno che ha visto lo spazio più vicino di quanto lo abbia visto io.” Ci si dilunga ormai, in molti chiedono il microfono e i relatori stanno perdendo l’ennesimo filo: quello del discorso. Tutti parlano di tutto e hanno mille quesiti da porre. Poco male se non si parla più di lui, a Bepi Colombo sarebbe piaciuto.