Una delle tantissime immagini di Giove provenienti dalle elaborazioni delle immagini della JunoCam da parte della comunità di cittadini scienziati che seguono la missione. In questa vengono evidenziate le tempeste gioviane, che si sono rivelate anche, sotto certe condizioni, popolate da numerosi lampi, fulmini e saette! In pieno stile gioviano. Crediti: NASA/JPL-Caltech/SwRI/MSSS/Kevin M. Gill

Buone notizie per la missione Juno, come in realtà si sperava e ci si aspettava, la NASA ha approvato l’aggiornamento delle operazioni scientifiche della sonda che continuerà a sorvolare il pianeta fino al luglio 2021. Quindi altri 41 mesi in orbita attorno a Giove che consentiranno a Juno di raggiungere i suoi obiettivi scientifici primari.

Ricordiamo infatti che il team di Juno ha dovuto riprogrammare la missione a causa di un problema alle valvole di alimentazione, che ha obbligato la sonda a rimanere in orbite “larghe” di 53 giorni anziché avvicinarsi in orbite di 14 giorni come inizialmente programmato. Una decisione che ha anche significato un allungamento dei tempi per la raccolta dei dati previsti, motivo per cui si era resa necessaria la richiesta un’estensione della missione (e del tempo, e quindi del personale, necessario all’analisi dei dati raccolti).

Durante la sua missione, finalmente approvata fino a conclusione, Juno manterrà la sua orbita polare di 53 giorni attorno a Giove. Nella sua posizione più vicina, una volta per orbita, la sonda passa entro i 5.000 chilometri dalle nubi di Giove. All'estremità più lontana di ogni orbita, apogiovio, Juno si trova a circa 8 milioni di chilometri dal pianeta - appena al di là dell'orbita della luna di Giove Themisto. Crediti: NASA / JPL-Caltech

Una giuria indipendente di esperti ha confermato, ad aprile, che Juno è sulla buona strada per raggiungere i suoi obiettivi scientifici e sta già restituendo risultati spettacolari, la NASA ha quindi confermato i finanziamenti almeno fino al 2022. La fine della missione primaria è ora prevista nel luglio 2021, con l’analisi dei dati e le attività di chiusura della missione che proseguiranno nel 2022.

«È una grande notizia per l’esplorazione planetaria e per il team di Juno» sottolinea Scott Bolton, PI della missione. «Questa estensione consentirà a Juno di completare i suoi obiettivi scientifici primari e, come bonus, le orbite più grandi ci permettono di studiare ulteriormente la più lontana magnetosfera di Giove – la regione dello spazio dominata dal campo magnetico di Giove – comprese le lontane code magnetiche, la magnetosfera meridionale e la regione limite chiamata magnetopausa. Abbiamo anche scoperto che l’ambiente di radiazione di Giove in questa orbita è meno estremo del previsto, il che è un vantaggio non solo per la sonda, ma anche per i nostri strumenti e la continua qualità dei dati scientifici raccolti».

E negli stessi giorni sono stati pubblicati due nuovi studi grazie proprio ai dati della sonda,  su Nature e su Nature Astronomy, gli scienziati del team Juno infatti svelano alcune particolarità della dinamica dei fulmini su Giove, un mistero sul quale i ricercatori si interrogano sin da quando la navicella Voyager 1 della NASA passò accanto a Giove nel marzo del 1979.

Gli studi descritti in questo articolo svelano come i fulmini su Giove siano particolarmente numerosi e raccolti nei poli del pianeta, e per lo più nel polo nord. Nell'immagine non vediamo i veri fulmini (che sono stati solamente "ascoltati", in frequenze radio, dalla sonda), ma solo un abbellimento artistico per descrivere il fenomeno, sullo sfondo di un Giove invece reale ripreso dalla JunoCam durante una delle sue orbite. Crediti: NASA / JPL-Caltech / SwRI / JunoCam

Quell’incontro confermò infatti l’esistenza di fulmini su Giove, sotto forma di emissioni radio a bassa frequenza, poi soprannominate whistler perché simili al suono di un fischio. Teorizzati per secoli ma osservati per la prima volta solo da quella prima sonda di passaggio nei pressi del pianeta gassoso. Ma quei dati mostrarono che i segnali radio associati ai fulmini non corrispondevano ai dettagli dei segnali radio prodotti dai fulmini qui sulla Terra, primo passo per lo studio di un fenomeno è infatti confrontarlo con il fenomeno più simile che accade qui sulla Terra.

«A prescindere dal pianeta in cui ti trovi, i fulmini si comportano come trasmettitori radio – emettono onde radio quando attraversano il cielo», spiega Shannon Brown del Jet Propulsion Laboratory della NASA, del team Juno e autore principale dello studio. I fulmini terrestri infatti si propagano in due modi fondamentali: sotto forma di onde a bassa frequenza (da pochi chilohertz a decine di chilohertz) lungo le linee di campo geomagnetico, o come onde ad alta frequenza (più di 10 megaherz) che non interagiscono con la magnetosfera.

«Ma tutti i segnali dei fulmini registrati dalle sonde [Voyager 1 e 2, Galileo, Cassini] erano limitati a rilevamenti visuali o nelle lunghezze d’onda radio dell’ordine dei kilohertz, nonostante la ricerca di segnali nell’intervallo dei megahertz. Molte teorie hanno provato a spiegare la cosa, ma nessuna ha funzionato come risposta».

Lampi sul lato notturno di Giove ripresi dalla sonda Galileo nel 1997. Crediti: NASA

Un mistero che rimane tale, nonostante le successive missioni, fino a quando Juno arriva in orbita gioviana, il 4 luglio 2016. Nella sua suite di strumenti altamente sensibili c’è anche il Microwave Radiometer Instrument (MWR), che registra le emissioni del gigante gassoso lungo un ampio spettro di frequenze.

«Nei dati dei nostri primi otto flyby, l’MWR di Juno ha rilevato 377 scariche», spiega sempre Brown. «Sono stati registrati sia nei megahertz che nei gigahertz, che è quello che accade anche nei fulmini terrestri. Il motivo per cui siamo gli unici ad averlo rilevato è perché Juno sta volando più vicino ai fulmini che mai, e stiamo cercando a radiofrequenze che attraversino facilmente la ionosfera di Giove».

Nonostante i dati si mostrino quindi molto simili a quelli rilevabili da fulmini terretstri, lo studio ci indica anche in cosa, invece, sono estremamente diversi.

«La distribuzione dei fulmini di Giove è inversa rispetto a quella terrestre», afferma Brown. «C’è maggiore attività vicino ai poli di Giove e nessuna vicino all’equatore». Mentre sappiamo che temporali con tuoni e fulmini, sulla Terra, sono numerosi anche a quelle latitudini, anzi… Come mai allora i fulmini si riuniscono vicino all’equatore sulla Terra e vicino ai poli su Giove?

La risposta è… le differenze di temperatura. La Terra, infatti, ricava la maggior parte del suo calore dall’esterno, dalla radiazione solare. Poiché il nostro equatore sopporta maggiormente il peso della luce solare, l’aria umida e calda sale (attraverso moti convettivi) più liberamente in quella zona, alimentando temporali che producono fulmini.

L’orbita di Giove è cinque volte più lontana dal Sole dell’orbita terrestre, il che significa che il pianeta gigante riceve 25 volte meno luce solare della Terra. Ma anche se l’atmosfera di Giove ricava la maggior parte del suo calore dall’interno del pianeta stesso, questo non rende irrilevanti i pochi raggi di Sole che gli arrivano. Questi riescono comunque a fornire un po’ di calore, riscaldando l’equatore di Giove più dei poli – proprio come riscaldano la Terra.
Si tratta però di un riscaldamento appena sufficiente a creare stabilità nell’atmosfera superiore, inibendo l’aumento di aria calda dall’interno. I poli, che non hanno questo calore proveniente dall’esterno e quindi minore, o nessuna, stabilità atmosferica, permettono ai gas caldi provenienti dall’interno di Giove di salire, guidando il moto di convezione e quindi creando l’ambiente adatto alla produzione di fulmini.

«Sono risultati che potrebbero aiutare a migliorare la nostra comprensione della composizione e della circolazione dei flussi di energia su Giove», ha detto Brown. Ma un’altra domanda incombe. «Anche se vediamo lampi in entrambe le zone polari, come mai ne registriamo di più in particolare al polo nord?».

Domanda che per ora resta senza risposta, ma è dall’analisi dei dati individuati nel secondo articolo pubblicato su Nature Astronomy, nel quale Ivana Kolmašová della Czech Academy of Sciences (Praga) e colleghi presentano il più grande database di emissioni radio a bassa frequenza generate dai fulmini su Giove fino ad oggi. Il set di dati è di oltre 1600 segnali, raccolti dallo strumento Juno’s Waves, quasi 10 volte il numero registrato dalla Voyager 1. Secondo questi dati, Juno ha rilevato picchi di quattro fulmini al secondo (simili ai tassi osservati nei temporali sulla Terra) addirittura sei volte superiore ai valori di picco rilevati da Voyager 1.

Scott Bolton, PI di Juno (Southwest Research Institute di San Antonio), conferma il privilegiato punto di vista di Juno, senza la quale queste scoperte non sarebbero potute avvenire: «La nostra orbita unica consente alla sonda di volare più vicino a Giove di qualsiasi altro veicolo spaziale della storia, quindi la potenza del segnale di ciò che il pianeta sta irradiando arriva ad essere mille volte più forte. Inoltre, i nostri strumenti a microonde e plasma sono all’avanguardia, e ci permettono di individuare anche i deboli segnali luminosi provenienti dalla cacofonia delle emissioni radio di Giove».

Non ci resta che aspettare il prossimo passaggio ravvicinato (Juno si avvicina fino a circa 5000 chilometri dalle nubi del pianeta a ogni orbita) per vedere quali altre meraviglie del Re dei pianeti del nostro Sistema solare ci saranno svelate. Juno effettuerà il suo 13° avvicinamento scientifico alle nubi di Giove il 16 luglio.


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