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Organismi come quelli della solfatara di Napoli
“Ambiente fluvio-lacustre abitabile nella Baia del Coltello giallo”. A scorrerlo così, distrattamente, può sembrare l’annuncio d’un pacchetto-vacanze in mezzo alla natura. Poi vai avanti per capire dove si trova, questa Baia del Coltello giallo, e leggendo “Cratere di Gale” qualche perplessità ti viene. Ma è quando l’occhio cade sulla parolina successiva – “Marte” – che sotto a quell’abitabile s’apre un abisso che dà le vertigini: già, perché tradotto in termini più immediati quel titolo afferma che un tempo, sul pianeta rosso, c’erano le condizioni per la vita.
Ora, poiché l’articolo A Habitable Fluvio-Lacustrine Environment at Yellowknife Bay, Gale Crater, Mars esiste davvero, ed è appena stato pubblicato – insieme ad altri cinque sullo stesso argomento – nello speciale d’una rivista del calibro di Science, è chiaro che il risultato è di quelli che pesano.
Cerchiamo dunque anzitutto di limitare i possibili fraintendimenti.
Primo, non è stata trovata vita su Marte.
Secondo, non sono state trovate prove che mai vi sia stata, in passato, vita su Marte.
Terzo, se lì nelle acque che lambivano la Baia del Coltello giallo (Yellowknife Bay) davvero c’erano – e parliamo di 3.6 miliardi di anni fa – le condizioni per la vita, come queste analisi compiute dal Mars Science Laboratory a bordo del rover Curiosity della Nasa lasciano intravedere, questo non significa che ci si pescavano le trote: per vita, in questo caso, gli scienziati intendono microrganismi tostissimi detti chemio-lito-autotrofi, minuscole quanto tenaci creature che s’incontrano nei luoghi più inospitali della Terra.
E ora che abbiamo sgomberato il campo da possibili equivoci, godiamoci l’enormità di questa ghiotta notizia: qualche miliardo d’anni fa, nelle calme acque d’un lago marziano che ora non c’è più (ma che c’è stato a lungo: decine, se non addirittura centinaia di migliaia di anni), avrebbero potuto sguazzare le stesse forme di vita che oggi s’incontrano sulla Terra. E se è vero che parliamo di estremofili, ciò non significa che ci tocchi per forza andare lontano, per conoscerli: «Di chemiolitoautotrofi – questi organismi che per il proprio metabolismo non hanno bisogno dell’irraggiamento della luce del Sole, essendo in grado di trarre energia dai composti chimici semplici che li circondano, come il metano o l’ammoniaca – ne incontriamo per esempio nei fondali oceanici, in particolare nei cosiddetti hydrothermal vent, ma anche in luoghi a noi più vicini, come la solfatara di Napoli», dice infatti John R. Brucato, astrobiologo dell’INAF – Osservatorio astrofisico di Arcetri.
Ma come sono riusciti gli scienziati ad arrivare a conclusioni come queste, sulla possibilità di vita nell’antico passato di Marte, semplicemente analizzando i sedimenti rocciosi raccolti dal rover Curiosity là dove miliardi di anni or sono poteva esserci stato un lago? «Un indizio importante è arrivato dalla misura dell’attività dell’acqua», spiega Brucato, «un parametro che ne indica la purezza. Può andare da 0 a 1. Quando è pari a 1 l’acqua è pura. Più sono presenti composti ionici disciolti, più questo indice di attività si abbassa. Ebbene, sappiamo che quasi nessuna delle forme di vita presenti sulla Terra è in grado di sopravvivere in ambienti con indice inferiore a 0,8. Poiché dalle analisi effettuate fino a ora sembrava che l’attività dell’acqua un tempo presente su Marte avesse un valore molto basso, si riteneva che non potesse favorire alcun tipo di forma vivente, per lo meno non quelle che oggi conosciamo. Dai nuovi risultati di Curiosity emergerebbe invece un valore più elevato, sufficiente a sostenere la vita così come la conosciamo sulla Terra».
Una ragione in più, dunque, per non abbandonare i tentativi di ricerca della vita là fuori, nel Sistema solare. Anzitutto insistendo su Marte, con la missione dell’Agenzia spaziale europea ExoMars, in rampa di lancio per il 2018. Ma anche altrove. «Vale decisamente la pena tentare di raccogliere un frammento d’asteroide primitivo per riportarlo qui sulla Terra», conclude Brucato, fra i proponenti di una missione, MarcoPolo-R, che ha esattamente questo obiettivo. «Le stime sulla quantità di materia organica in essi contenuti si fanno, a oggi, sullo studio delle meteoriti. Ma le meteoriti hanno un problema: sono filtrate dalla presenza dell’atmosfera. E l’atmosfera tende a fermare proprio quelle più interessanti, quelle che hanno origine dagli asteroidi più friabili e più ricchi di carbonio».
Per saperne di più:
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Leggi su Science l’articolo “A Habitable Fluvio-Lacustrine Environment at Yellowknife Bay, Gale Crater, Mars“, di J. P. Grotzinger et al.
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Leggi su Science l’articolo “In Situ Radiometric and Exposure Age Dating of the Martian Surface“, di K. A. Farley et al.
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Leggi su Science l’articolo “Mars’ Surface Radiation Environment Measured with the Mars Science Laboratory’s Curiosity Rover“, di Donald M. Hassler et al.
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Leggi su Science l’articolo “Elemental Geochemistry of Sedimentary Rocks at Yellowknife Bay, Gale Crater, Mars“, di S. M. McLennan et al.
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Leggi su Science l’articolo “Volatile and Organic Compositions of Sedimentary Rocks in Yellowknife Bay, Gale crater, Mars“, di D. W. Ming et al.
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Leggi su Science l’articolo “Mineralogy of a Mudstone at Yellowknife Bay, Gale Crater, Mars“, di D. T. Vaniman et al.
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Ascolta su Repubblica.Tv l’intervista a Giovanni Bignami, presidente INAF