Venere e la Terra. Pianeti gemelli alla nascita, le cui vite hanno preso direzioni così diverse da cancellare quasi completamente i segni di quest’intima fratellanza. Sotto l’evidente dissimile topografia però, l’impronta familiare emerge nella struttura interna, stratificata in entrambi i corpi in un nucleo sostanzialmente composto da nichel e ferro – di dimensione paragonabile, fra i 2400 e i 3200 chilometri di diametro – coperto da un mantello roccioso caldo animato da moti convettivi e da una crosta rocciosa, composta da materiale basaltico simile ai fondali oceanici terrestri, e spessa dai 20 ai 40 chilometri (sulla Terra lo spessore medio è 40 chilometri).
Da decenni gli scienziati si chiedono come mai due pianeti così simili per struttura e composizione si siano differenziati così tanto per quanto riguarda le caratteristiche della crosta. Contrariamente alla Terra, infatti, Venere non presenta una topografia globale divisa in placche e i suoi processi tettonici si manifestano quasi esclusivamente come getti di materiale caldo provenienti dal mantello che fuoriescono incuneandosi nella litosfera – lo strato più superficiale della crosta – sotto forma di hot spots (punti caldi). Le cause, cita uno studio pubblicato oggi su Nature Geoscience, potrebbero essere l’inferiore contenuto di acqua profonda e l’elevata temperatura superficiale di Venere.
Che Venere sia un pianeta vulcanico, il più vulcanico del Sistema solare, era cosa nota. Quel che non si sapeva era se il pianeta fosse ancora geologicamente attivo e, in caso affermativo, quanti fossero i vulcani in attività. Il nuovo studio condotto dai ricercatori dell’università del Maryland e dell’Istituto di geofisica del Politecnico di Zurigo, in Svizzera, ha identificato 37 strutture vulcaniche recentemente attive su Venere. Non proprio vulcani come li intendiamo qui sulla Terra, ma soprattutto tipiche strutture anulari – chiamate corone – generate dalla fuoriuscita di materiale lavico liquido proveniente da una caldera sottostante che si fa spazio attraverso le fessure della litosfera. Un processo simile, qui sulla Terra, ha formato le isole vulcaniche delle Hawaii.
La crosta, nelle zone in cui si formano le corone, sperimenta cedimenti concentrici che producono anelli con un diametro da cento fino a mille chilometri. Si conoscono più di 500 corone su Venere, molte delle quali sono localizzate sulla parte più alta delle pianure, le regioni maggiormente interessate dalla compressione della crosta. I firmatari dello studio propongono di studiare la morfologia delle corone con simulazioni ad altissima risoluzione e di usarla come indicatore di recenti fuoriuscite di getti di materiale magmatico – pennacchi – dal mantello.
«È la prima volta che siamo in grado di indicare strutture specifiche e dire: ‘guarda, questo non è un antico vulcano, ma un vulcano attivo oggi, forse dormiente, ma non è morto’», dice Laurent Montési, professore di geologia presso l’università del Maryland e coautore della ricerca. «Questo studio cambia in modo significativo la visione di Venere da un pianeta per lo più inattivo a uno il cui interno sta ancora ribollendo e può alimentare molti vulcani attivi.»
Prima di questo studio, alcune indicazioni sull’inquieto stato della struttura interna di Venere provenivano dalla stima dell’età dei crateri da impatto superficiali. Sebbene quelli identificati su Venere siano circa quattro volte più numerosi di quelli trovati sulla Terra, essi sembrano essere molto giovani in confronto a quelli della Luna, di Mercurio e di Marte. La causa è proprio il costante processo di rimescolamento della superficie che cancella gli impatti antichi – un po’ come le onde del mare cancellano le impronte sulla sabbia – e porta a datare la superficie del pianeta con un’età inferiore a 500 milioni di anni, ridicolamente giovane rispetto al Sistema solare.
Tuttavia, si pensava che le corone su Venere fossero segni di attività antica, e che Venere si fosse raffreddata a sufficienza da rallentare l’attività geologica interna e indurire la crosta al punto da impedirne il perforamento da parte del materiale sottostante. Inoltre, i dettagli dei processi con cui i pennacchi di lava del mantello formavano le corone su Venere e le ragioni della variazione morfologica tra le corone stesse erano oggetto di dibattito.
Nel nuovo studio, i ricercatori hanno utilizzato modelli numerici che riproducono l’attività termo-meccanica sotto la superficie di Venere per creare simulazioni 3D ad alta risoluzione della formazione delle corone. Le loro simulazioni forniscono una visione estremamente dettagliata del processo, consentendo agli scienziati di identificare le caratteristiche presenti solo nelle corone recentemente attive. Il team è stato quindi in grado di abbinare queste caratteristiche a quelle osservate sulla superficie di Venere, rivelando che alcune delle differenze morfologiche fra le corone rappresentano diversi stadi di evoluzione geologica.
«Il maggiore grado di realismo di questi modelli rispetto agli studi precedenti permette di identificare diversi stadi dell’evoluzione delle corone e di definire le caratteristiche geologiche diagnostiche presenti solo nelle corone attualmente attive», spiega Montési. «Siamo in grado di dire che almeno 37 corone sono state attive in tempi molto recenti.»
Le corone identificate con questo metodo sono raggruppate in una manciata di località, identificando aree precise in cui il pianeta è più attivo e fornendo indizi sul funzionamento del suo interno. Questi risultati possono aiutare a identificare le aree più appropriate in cui collocare strumenti geologici nelle future missioni su Venere, come ad esempio la sonda europea EnVision, il cui lancio è previsto per il 2032.
Per saperne di più:
- leggi su Nature Geoscience l’articolo Corona structures driven by plume–lithosphere interactions and evidence for ongoing plume activity on Venus di Anna J. P. Gülcher, Taras V. Gerya, Laurent G. J. Montési e Jessica Munch
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